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Che blelo qeusto fneomneo!

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Navigando tra forum e social network, è possibile trovare questo o altri link contenenti tale interessante curiosità di carattere scientifico. La velocità di lettura sembra rimanere sostanzialmente invariata e ogni parola viene letta senza problemi nonostante il cambiamento nell’ordine delle lettere.

Questo aneddoto ha incuriosito importanti personalità nel settore della neuroscienza e della psicologia cognitiva, ispirando lavori e ricerche su questo fenomeno e più in generale sulle modalità di lettura.

Come è possibile leggere un testo del genere? Più in generale, com’è possibile leggere?

 

IL PANDEMONIO

 

Nel 1959, Oliver Selfridge propose un’arguta metafora per spiegare le modalità che rendevano possibile la lettura umana e l’accesso al lessico mentale. La sua teoria, denominata il pandemonio di Sigfrido, consiste in una sorta di assemblea di demoni, in cui ognuno di essi è rappresentante di una singola parola. Appena una parola appare sulla retina, ogni demone la esamina e decide se la sua parola può esserne rappresentata. Ad esempio, alla vista della parola “spavento”,  il demone che rappresenta la parola “spavento” si mette ad urlare. Com’è possibile, anche il vicino che rappresenta la parola “spento” rivendica la parola. Dopo un breve momento di competizione, sarà la parola “spavento” ad avere la meglio e ad essere trasmessa al resto del cervello.

Tramite questo semplice modello vediamo come tutti i demoni agiscano allo stesso momento, comportando un’enorme semplificazione e un grandissimo risparmio di tempo. Tutti i demoni, infatti, lavorano contemporaneamente e hanno il solo compito di analizzare se la parola sulla retina corrisponda alla propria[1].

Questi demoni raffigurano benissimo alcune caratteristiche del nostro sistema nervoso, formato da circa centomila milioni di neuroni che lavorano in parallelo, che effettuano in parallelo operazioni semplici e che entrano in competizione tra loro tramite la mediazione di sinapsi eccitatorie o inibitorie.

 

L’INTERACTIVE ACTIVATION MODEL

 

Il pandemonio di Selfridge, grazie alla sua chiarezza e alla sua facilità espositiva, ha ispirato numerosi altri modelli teorici di reti neurali implicati nella lettura. Uno di questi è l’Interactive Activation model proposto da Jay McClelland e David Rumelhart nel 1981[2]. L’IA model è caratterizzato da unità che lavorano su tre livelli gerarchici. A un primo livello ci sono i neuroni sensibili ai singoli tratti visualizzati sulla retina. A un livello intermedio ci sono le unità che rilevano le singole lettere. Infine ci sono le unità sopracitate che codificano le singole parole. Questi tre livelli non sono isolati tra loro ma collegati da fasci di connessioni che formano sottoinsiemi di unità che possono spalleggiarsi tra loro o entrare in competizione[3].

Grazie alle connessioni si attua un vero e proprio meccanismo di censura: alla vista della parola “bagno”, la competizione tra “bagno” e “ragno” viene risolta da connessioni inibitorie, dove le lettere (in questo caso la “r”) “votano contro” le parole che non le contengono. C’è una competizione tra unità lessicali da cui emerge la parola dominante, che risulta come la migliore ipotesi espressa sulla parola che ci viene presentata.

Questo modello è in netto contrasto con quello di Selfridge, dove il flusso di informazioni scorre necessariamente dal basso, ossia dalla singola lettera, verso l’alto, la parola intera. Da una visione modulare si passa ad una visione interattiva. Leggendo la parola bagno, saranno attivate a tutti i livelli rappresentazioni per le lettere e le caratteristiche della parola bagno, oltre che per la parola bagno in quanto tale. Oltre a ciò, verranno inviati segnali inibitori ai livelli più bassi, ossia a tutte le lettere e le altre caratteristiche aliene alla parola bagno.

Il processo di analisi, insomma, non è soltanto unidirezionale, bottom-up, ossia dal singolo tratto della b di “bagno” alla parola intera. Volendo rimanere nel campo metaforico del pandemonio, si può affermare che le singole parole sostengono le singole lettere che votano per loro, formando delle coalizioni stabili.

Il processo di riconoscimento delle singole lettere e delle parole è interattivo: se nella mente del lettore si attiva una parola (ad esempio vedendo “bag” si attiva “bagno”), il riconoscimento delle successive lettere di quella parola sarà facilitato.

Il modello di McClelland e Rumelhart provoca un effetto che è stato chiamato effetto di superiorità della parola. Un esperimento ha provato che è molto più facile e veloce riconoscere una lettera quando è presente in una parola che quando appare singolarmente. È più facile e veloce identificare una “b” in “bagno” che nel semplice carattere “b”[4].

Questo esperimento indica che le parole non sono percepite lettera per lettera. Per questo, il modello di McClelland e Rumelhart si basa su una logica top-down secondo cui le parole possono inibire o eccitare le attivazioni delle lettere, contribuendo a farcele riconoscere[5].

Grazie a questo fenomeno, la mancanza di una singola unità non crea alcun tipo di problema. Nella parola “bagnq”, la mancanza della “o” viene sopperita dalla cooperazione delle lettere vicine che attiveranno la parola bagno, che voterà la presenza della “o” mancante.

Secondo questo modello, la connessione tra lettere e lessico è praticamente diretta: il riconoscimento di singole lettere attiva la memoria ortografica delle parole.

 

 

UNA STRUTTURA GERARCHICA

 

Con queste premesse teoriche Stanislas Dehaene, coadiuvato dai suoi colleghi Laurent Cohen, Mariano Sigman e Fabien Vinckier, ha elaborato uno schema sintetico per analizzare l’architettura dei neuroni della lettura[6].

Partendo dal principio che il sistema visivo ventrale è organizzato, nell’uomo e in tutti i primati, in una sorta di gerarchia di aree cerebrali dal polo occipitale fino alle regioni temporali anteriori, Dehaene e i suoi colleghi hanno evidenziato come la dimensione dei campi recettoriali aumenti a ogni tappa, e come a ogni tappa cresca quindi la complessità delle immagini alle quali rispondono i neuroni, così come la loro capacità di invarianza per dimensione e posizione.

Ciò sta a significare che a un livello più basso, quello dell’area visiva primaria V1, in gran parte i neuroni rispondono soltanto a semplicissimi tratti. Secondo David Hubel e Torsten Diesel, premi Nobel, ogni neurone, all’interno della piccolissima zona retinica presa in esame, predilige vedere una piccola, semplice barra come stimolo principale[7]. Questa codifica, presente da sempre nei primati, non viene modificata affatto dalla scoperta della lettura, ma anzi la facilita. Le lettere e le parole sono infatti tutte caratterizzate da sequenze costituite da tali tratti.

Le lettere, appunto, vengono codificate in una successiva tappa della gerarchia visiva, nei neuroni delle aree V2 e V4. Tramite la combinazione delle barre, esaminate al livello precedente, i neuroni dell’area V2 riescono a rilevare con esattezza i contorni, e nell’area V4 queste combinazioni arrivano a rappresentare forme semplici come quelle delle singole lettere.

È facile immaginare, in questo caso, come lettere maiuscole o minuscole, essendo formate da diverse combinazioni, attivino gruppi di neuroni diversi, almeno in questa prima fase.

È solo al livello successivo, infatti, che il sistema visivo riesce a codificare l’identità astratta delle lettere indipendentemente dai tratti da cui sono formate. Secondo Dehaene e i suoi colleghi, ciò avviene nell’area visiva V8 dei due emisferi[8].

Progredendo nei livelli i neuroni guadagnano in invarianza spaziale, diventando gradualmente insensibili allo spostamento o al ridimensionamento delle forme che codificano. Nell’area visiva V8 l’invarianza è ancora ad un livello molto basso, per questo i neuroni che codificano le lettere devono essere replicati per ogni posizione in cui potrebbero comparire le lettere assegnate.

 

 

I NEURONI DIGRAMMI

 

Allo stato successivo è facilmente ipotizzabile che ci siano cellule sensibili alla combinazione di più lettere. Il modello di Dehaene prospetta che la combinazione più utile da analizzare sia quella del digramma, ossia di una coppia ordinata di lettere[9]. Questo sistema rappresenterebbe un compromesso tra l’invarianza e la massimizzazione di informazioni. Un neurone che codificasse soltanto la presenza di una lettera in più luoghi diversi non immagazzinerebbe alcuna informazione sulla posizione della lettera; un neurone che viceversa codificasse una tripletta di lettere potrebbe farlo soltanto da una posizione unica, veicolando un’informazione molto ristretta.

Secondo la teoria di Dehaene, strutturare un’organizzazione del genere è abbastanza semplice: basta raggruppare insieme le risposte di due insiemi di neuroni. Prendiamo le due lettere AN: raggruppando le risposte dei neuroni specializzati ad individuare la lettere A e di quelli specializzati ad individuare la lettera N sarà semplice collegare un neurone digramma che risponda alla coppia di lettere AN. Per distinguere poi la coppia AN dalla coppia NA, basterà che i neuroni che individuano la A abbiano il campo recettoriale a sinistra rispetto ai neuroni che individuano la N.

Tra le loro proprietà, i neuroni digrammi dovrebbero tollerare la presenza di una o massimo due lettere intruse tra le due lettere in coppia. Quindi il neurone che codifica il digramma AN si attiverebbe sia nella parola mANo che nella parola bAgNo. I neuroni digrammi infatti dovrebbero analizzare tutte le risposte che vengono dagli step precedenti, dove i neuroni codificano le singole lettere e i loro campi recettoriali si dispongono su una precisa porzione di retina. Per questo, l’inserimento di una o due lettere non cambia il risultato.

 

GRAINGER, WHITNEY E LA TECNICA DEL PRIMING

 

Indipendentemente dal lavoro di Dehaene, due ricercatori di psicologia, Jonathan Grainger e Carol Whitney, sono giunti a risultati molto simili[10].

Grainger e Whitney furono ispirati da una mail molto simile a quella riportata nell’introduzione di questo testo. Le lettere di ogni parola, esclusa la lettera iniziale e quella finale, erano stravolte nel loro ordine, ma la lettura non presentava alcun problema. A questo fenomeno, da loro definito jumbled word effect[11], si sono ispirati per analizzare i meccanismi di lettura e la decodificazione delle lettere e della loro posizione, rivelando risultati molto interessanti.

Gli esperimenti fatti da Grainger e Whitney sfruttano la tecnica del Priming. Il Priming è un effetto psicologico per il quale l’esposizione ad uno stimolo influenza la risposta a stimoli successivi. In questo caso, consiste nel presentare una serie di caratteri prima di una determinata parola, definita parola target, e capire se facilita o no la lettura di quest’ultima.

Nel loro esperimento, Grainger e Whitney hanno verificato come la sequenza di lettere grdn aiutasse e velocizzasse la lettura della parola garden, mentre sequenze come nrdg, con le lettere mescolate, non producessero alcun effetto[12].

Questo risultato sembrerebbe in contrasto con l’apparente facilità con cui riusciamo a leggere parole con lettere mescolate. Tuttavia, quando le sequenze iniziali del Priming condividono tutte le lettere con la parola target, avviene un fenomeno definito transposition priming. La sequenza di parole gadren facilita di molto il riconoscimento della parola garden.

Questi esperimenti hanno suggerito un nuovo modello, molto simile a quello di Dehaene. Questo modello si basa su una decodificazione della parola tramite coppie di lettere. La parola cane, ad esempio, è divisa nelle coppie di lettere CA, CN, CE, AN, AE, NE. Questo meccanismo, basato su quelli che Whitney e Grainger definiscono open bigrams[13], rappresenterebbe un ottimo sistema computazionale per rappresentare la posizione relativa delle lettere in una parola.

Questo sistema, inoltre, spiegherebbe facilmente  il jumbled word effect: due parole come garden e gadren, ragionando in digrammi, hanno 11 coppie di lettere in comune su 12 possibili, una percentuale del 92% che rende lo spostamento di lettera ininfluente.

 

 

CONCLUSIONI

 

Il jumbled word effect, questo caso così curioso e così particolare, può in sintesi essere spiegato da due proprietà concomitanti nel nostro sistema di lettura: l’interattività e l’esistenza (per ora soltanto ipotizzata) di neuroni digrammi. Anche se mescolate, le lettere riescono a farci percepire velocemente la parola in questione grazie alle loro coppie di bigrammi, in gran parte condivise con la parola originale. Il riconoscimento della parola originale, dal canto suo, facilita il riconoscimento delle singole lettere che la compongono. Le connessioni tra lettera e parola e viceversa, così importanti per la nostra capacità di lettura, sono quindi la causa primaria anche di questo singolare fenomeno.


[1] S. Dehaene, I neuroni della lettura, Raffaello Cortina editore, 2009, pp.50-51

[2] Jay McClelland, David Rumelhart, “An interactive activation model of context effects in letter perception: I. An account of basic findings”, pubblicato in Psychological review, 88

[3] Jay McClelland, David Rumelhart, “An interactive activation model of context effects in letter perception: I. An account of basic findings”, cit., p.379

[4] Jay McClelland, David Rumelhart, “An interactive activation model of context effects in letter perception: I. An account of basic findings”, cit., p.390

[5] Jay McClelland, David Rumelhart, “An interactive activation model of context effects in letter perception: I. An account of basic findings”, cit., pp.377-378

[6] S. Dehaene, I neuroni della lettura, Raffaello Cortina editore, 2009, pp.173-176

[7] S. Dehaene, I neuroni della lettura, Raffaello Cortina editore, 2009, pp.173-174

[8] S. Dehaene, I neuroni della lettura, Raffaello Cortina editore, 2009, p.175

[9] S. Dehaene, I neuroni della lettura, Raffaello Cortina editore, 2009, pp.176-177

[10] Jonathan Grainger, Carol Whitney, “Does the huamn mnid raed wrods as a wlohe?”, pubblicato in Trends in cognitive Sciences, 8(2), 2004, pp.58-59

[11] Jonathan Grainger, Carol Whitney, “Does the huamn mnid raed wrods as a wlohe?”, cit., p.58

[12] Jonathan Grainger, Carol Whitney, “Does the huamn mnid raed wrods as a wlohe?”, cit., ibi

[13] Jonathan Grainger, Carol Whitney, “Does the huamn mnid raed wrods as a wlohe?”, cit., ibi

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