Le impossibili correzioni di Jonathan Franzen

Nient’altro che stronzate, una settimana dopo l’altra. Tutti quei critici che si danno tanta pena per lo stato della critica. Nessuno che sappia dire di preciso che cosa non va. Ma tutti sanno che va male. Tutti sanno che “aziendale” è una brutta parola. E se qualcuno si diverte o diventa ricco, è disgustoso! Male! Ed è sempre la morte di questo e la morte di quell’altro. E chi crede di essere libero non è “davvero” libero. E chi crede di essere felice non è “davvero” felice. E ormai non è più possibile una critica radicale della società, anche se nessuno sa dire con esattezza che cosa ci sia di così radicalmente sbagliato nella società da richiedere una critica radicale […] le cose stanno andando sempre meglio per le donne e la gente di colore, per gay e lesbiche, c’è sempre più integrazione e apertura, e tutto quello che le viene in mente è uno stupido problema di significanti e significati. […]
[Chip Lambert] non si era mai reso conto di quanto lo avesse influenzato il padre, con la sua fissazione per il lavoro socialmente “utile”. Criticare una società malata, anche se la critica non portava a nulla, gli era sempre sembrato un lavoro utile. Ma se la presunta malattia non era affatto una malattia – se il grande Sistema Materialistico della tecnologia e del consumismo e della scienza medica stava davvero migliorando la vita degli oppressi; se erano solo i maschi bianchi eterosessuali come Chip ad avere problemi con questo Sistema – allora la sua critica perdeva ogni utilità, anche la più astratta. Come aveva detto Melissa, erano tutte stronzate.
Franzen, Le Correzioni

Tre generazioni di americani si affrontano in questa discussione all’interno dell’ultima lezione del corso Narrativa di Consumo condotto dal giovane professore postmarxista Chip Lambert: la studentessa che espone la propria insofferenza per una critica retrograda e obsoleta, un professore radicato a una critica dei costumi che lui stesso ritiene, inconsciamente, ormai improduttiva, e il giudizio del padre di Chip, aleggiante come lo spettro di un’America tradizionale al tramonto come lo stato fisico e mentale di chi l’ha vissuta. Al vaglio l’analisi di una pubblicità che avvicina il consumatore a un nuovo modello di computer generando empatia tramite il ricorso al tema del cancro al seno, tema che non riesce a generare negli studenti né critica, né disagio, né interesse.
L’autore della stessa analisi poco dopo si intratterrà in un rapporto morboso con la studentessa (facendosi cacciare dall’università), si trasferirà a New York dove venderà per pochi dollari i propri libri di critica con lo scopo di rispondere alle necessità di consumo di una nuova relazione e infine si farà assoldare da un politico corrotto lituano per truffare investitori americani e contribuire al crollo di un’instabile sistema statale europeo.
Nelle viscere martoriate e nei farseschi rapporti personali della sua famiglia si registrano i movimenti di quella fucina che è l’America contemporanea, apparentemente impossibile da giudicare dall’interno per quanto analizzabile nei suoi più nascosti e angusti recessi.

200px-ThecorrectionscvrLe Correzioni sono il capillare svolgersi di un passaggio nella storia, una parabola di Natale consumistico alla ricerca di un impossibile felicità a portata di mano – la comune risposta alle possibilità di un paese alienato dove l’onestà non è possibile se non si è legati da strettissimi rapporti affettivi – alla ricerca dell’adeguamento a un canone di benessere così luminoso da non poter essere adeguatamente definito e che non sfugge neppure per un istante al terrore consapevole della fine, una morte resa terribile dalla consapevolezza della mancanza di oggetti.     Romanzo che chiude con il postmodernismo aprendosi a quel iperrealismo che rispecchia i dipinti di Mike Bayne o le sculture di Duane Hanson, dispiegamento della realtà nella propria fattualità senza nulla escludere, nulla nascondere, presentando gli eventi come su un tavolo operatorio. Il narratore non può commentare niente di questa realtà ma solo descrivere, sezionando a fondo tutti i più reconditi recessi delle personalità individuali, lasciando che l’interiorità dei suoi personaggi venga interpretata così come la realtà viene modificata dall’interpretazione dei personaggi stessi.

Nella difficoltà di definire un popolo all’apice della propria fortuna economica e in preda a un’incomunicabilità in grado di compromettere il raggiungimento di quelli che la maggioranza considera i propri scopi, Franzen riesce a proporci una catena di eventi che rispecchiano una realtà allucinata, abbandonata a se stessa, insicura, malata e bisognosa di cure a tutti i costi che troverà nel proprio rovinoso crollo l’unica possibilità di riscatto. Il legame che le parole intrecciano con la terra su cui si sviluppano è viscerale; i grandi blocchi di cui è composto il libro si muovono infatti ancorati a un paese, gli Stati Uniti, che ha il proprio centro di controllo e sviluppo in St. Jude, cittadina emblematicamente affidata al patrono delle cause perse e della “speranza al di là della speranza”. Periferica e centrale come un neurone all’interno del cervello, è da questa piccola città immobile che si sviluppa quel cambio generazionale che è la spina dorsale del testo di Franzen.
La causa persa è la speranza di una correzione, l’aggiustamento dell’inevitabile catena di errori che si inanella arabescandosi in ogni filiazione e che produce quel senso di colpa e di vergogna rispetto ai propri genitori che potrebbe arrivare fino ai biblici Adamo ed Eva. La cittadina del Midwest, dove il cuore della vicenda si svolge, è impregnata del bigottismo consapevole e ribadito di quegli errori legati a ceto e denaro che rivestono la vita di tutti i giorni di una patina invisibile di ansia che si indurisce nella mancanza di dialogo e di aperto confronto; l’errore è costantemente percepito ma come qualcosa di inevitabile e volutamente incomprensibile e il rassegnato scuotere il capo di fronte all’incomprensione è il “questo io non lo capisco” di chi si è già arreso alla realtà disilluso della possibilità, sempre presente, di poterla ancora cambiare.

La famiglia si articola attraverso differenti nuclei, ognuno a suo modo centrale nel suo essere alle prese con i medesimi problemi declinati e interpretati a seconda del proprio vissuto: il padre, forte e severo come gli anni dell’industrializzazione americana, ingegnere collaboratore a quel processo di scambio che è alla base dell’industria ferroviaria e che resta invischiato nella nuova economia per lui incomprensibile; vecchio demente e fuori luogo come i suoi valori, fondati sul risparmio e il duro lavoro negli anni della pirateria di Wall Street.    La durezza ostentata in verità non è che una patetica volontà di rivalsa verso una realtà che non si cura dei suoi imperativi e che subisce così i danni derivanti da questa frustrazione, una fragilità che si dimostra quando la punizione prende effettivamente corpo, violenza insopportabile per lo stesso carnefice.

Alfred non ha partecipato a conflitti bellici ma la sua battaglia è stata combattuta contro il tempo e le persone, entrambi affrontati con l’immobilità del pregiudizio di chi ha bisogno di liberarsi dell’altro per procedere a testa bassa nel suo lavoro. Un lavoro che infine lo tradirà mettendolo di fronte all’incompatibilità della propria famiglia in parallelo – anche se su un differente binario – con la figura rothiana dello Svedese di Pastorale Americana; la tragedia in questo caso è minore ma lo sfaldamento della vecchia economia industriale e dei valori lavorativi ad essa connessa porteranno a una analoga fuga familiare alla ricerca di una redenzione dagli errori finanziari ed educativi del padre. Un padre che odia le minoranze, il diverso e il contrario, che impara a memoria le citazioni di Schopenhauer legate al dolore dell’animale divorato e la cui unica attività soddisfacente resta il telegiornale nella convinzione che «non importa cosa accade sotto la superficie. Purché siamo tutti “civili” ».

Il figlio di un tale residuo roccioso è la quintessenza delle modificazioni di una certa critica sociale e di costume statunitense: erede della cultura del modernismo accademico e creatura post-postmoderna, incarna la nuova generazione di  dottori in cultura popolare in qualità di oscura e inevitabile farsa. Il presentimento di “qualcosa di terribile” delle prime pagine si incarna in Chip il quale sente costantemente dentro di se l’orrore di una promessa non mantenuta: quella del sistema capitalistico del benessere e della fortuna generalmente a portata di mano e, allo stesso tempo, quella della critica di questo sistema.   Completamente perso all’interno di tale contraddizione – che rispecchia in maniera peculiare il conflitto interiormente vissuto tra padre e madre – Chip pensa di riuscire a imbrogliare il sistema che lo ha rifiutato servendogli una critica di stampo modernista sotto forma di una sceneggiatura che promette di renderlo ricco e famoso. Un lavoro che si avvale di modernisti escamotages sconcertanti, incollati all’interno di un testo smaccatamente autobiografico e astioso, che permettono la giusta atmosfera intellettuale non retrograda che potrebbe far presagire un sicuro successo commerciale.
Una critica contro il sistema all’interno del sistema che, inevitabilmente rigettata, lo convincerà ad abbandonare ogni pretesa idealistica, consapevole di aver «perso la battaglia contro una modernità commercializzata, medicalizzata e totalitaria» per fuggire l’America rifugiandosi in un paese che promette facile denaro e soddisfazioni sensuali assieme alla possibilità di truffare gli investitori americani grazie alle possibilità infinite di internet. La Vecchia Teoria, insegnata in ogni college americano dove risuonano entusiasticamente i nomi di Benjamin, Marcuse, Adorno e Baudrillard, ha fallito; questo è quel che Chip ha registrato durante i suoi anni accademici, sostituito per condotta sconveniente da chi professa la Nuova Vera Teoria che, anziché parlare con il cervello, parla con il cuore. Se ormai soltanto la pubblicità si fa carico della promozione di “condotte morali rivoluzionarie” a vantaggio delle aziende che sponsorizza, e gli utenti a cui è indirizzato il messaggio non possono reagire se non secondo l’abitudine a cui la pubblicità stessa li ha abituati, sarà davvero possibile e produttivo stimolare una critica contraria a ciò che è ormai percepito come l’inevitabile e normale tessuto del mondo? Come superare il potere unidirezionale dell’informazione a mezzo schermo in grado di elaborare finzione senza che nessuno sia realmente interessato a considerarla tale, in un contesto orami incancrenitosi nella consapevolezza della menzogna? L’unica soluzione sembra essere rifugiarsi nel sentimento e assecondare la corrente perché andare contro è troppo soggettivamente infruttuoso e non interessa comunque a nessuno (come consiglia il compagno di college che « aveva da poco lasciato la cattedra di antropologia per un impiego come “psicologo di marketing” in Silicon Valley, e che gli consigliò di svegliarsi e fare la stessa cosa »).
È così che Chip si imbarca in un volo il cui atterraggio promette la realizzazione di buona parte di ciò che qualunque critica contesterebbe, sfruttando il bagaglio di conoscenze acquisito per riversarle in una nuova attività di promozione della finzione in grado di fornire il successo e il denaro che la promessa americana non era riuscita a mantenere. Troppo tardi giungerà la consapevolezza che non c’è fuga da un modus operandi che le necessità economiche e la tecnologia hanno esteso a tutto il globo.

È così che si prova un fastidio inevitabile nello scorrere le pagine, un fastidio volutamente rimarcato dall’autore nel farci percepisce qualcosa di fondamentalmente scorretto e ciononostante inevitabile e costantemente accentuato: tutti sembrano sbagliare in ogni azione o esternazione perché sembrano davvero troppi gli oggetti e le difficoltà su un cammino che, grazie alla scienza medica, alla tecnologia e alla comunicazione, viene promosso e considerato come privo di ostacoli.    Dispositivi che incarnano l’estesa ambivalenza del nuovo potere: medicinali o droghe che prefigurano la soluzione di ogni problema o nuove terapie di modificazione cerebrale che promettono efficacia solo a patto di abbandonare l’uso degli altri medicinali; il riconoscimento di come la tecnologia possa essere rimedio alla paura e all’insoddisfazione a patto di sacrificare la propria individualità ( «“Le implicazioni sono inquietanti, ma non è possibile fermare questa nuova e potente tecnologia”. Potrebbe essere il motto della nostra epoca, non trovi? »); una comunicazione che è mediata dallo schermo e impedisce spesso il confronto diretto ingrossando le galassie di non detto interiori e dove è possibile mentire senza lo spauracchio della verifica; dopotutto «la credibilità del Web dipendeva al novantotto per cento da quanto il sito fosse brillante e cool». Per quale motivo non semplificarsi la vita grazie alla tecnologia anche a costo di demandare ad essa le nostre migliori capacità? Perché dire no a un programma che corregga automaticamente gli errori velocizzando e standardizzando il processo evitandoci lo sforzo del ragionamento e la possibile malriuscita del compito? Le macchine sono state create per servirci e non c’è modo di tornare indietro, il sacrificio della qualità dei nostri circuiti mentali e fisici sarà a vantaggio della comodità e di un’efficienza da sempre servita con il sapore del futuro; se ormai sono le multinazionali a gestire le politiche interne dei paesi – come provano le cause intentate agli stati e sempre vinte dalle aziende – non sarà in alcun modo possibile sfuggire alla loro necessità di organizzazione nel proporre surplus di servizi a contribuenti privati del loro potere politico. A questi, nel caso ne siano consapevoli, non resta altra scelta che adeguarsi o eliminarsi dal sistema.

Nessuno dei tre figli di Alfred rispecchia come lui una realtà industriale specifica trovandosi nel mondo delle possibilità high-tech, finanziarie e dei servizi: il primogenito è un economista ed è l’unico a rimanere immobile in tutto il romanzo, radicato alla sua idea di perfezione da rivista, alla prudente ricerca di investimenti spregiudicati e cronicamente depresso e alcolizzato. I suoi figli – la nuova generazione che erediterà i vecchi e i nuovi errori tentando a suo modo di correggerli – si confrontano con un mondo dove il risparmio non è più in nessun modo considerato un valore e l’abbondanza di stimoli li ha già resi scaltri; coltiveranno come hobby la videosorveglianza casalinga e si limiteranno a catalogare i propri infiniti balocchi anziché giocarci. Questo con la benedizione delle numerose pubblicazioni dei PhDs che infestano tutto il testo, aggiornamenti di conoscenze acquisite come quello che consiglia di sostituire il « “paradigma vieto” del Bambino dotato come Genio Socialmente Emarginato con il “nuovo paradigma” del Bambino Dotato come Consumatore Creativamente Integrato ».

La madre e la figlia minore sono complementari, la prima è la prova della sottomissione patriarcale della famiglia tradizionale, costantemente esclusa e schiacciata dalla forza di un marito la cui morte è l’unico presupposto possibile per riacquistare libertà e autonomia. La figlia, Denise, inavvertitamente oppressa anch’essa dall’amore verso il padre e dalle incomprensioni che la allontanano dalla madre, cercherà di emulare l’etica di duro lavoro del padre in un mestiere, quello dello chef, avverso alle idee di femminilità della madre e di reprimere costantemente la propria omosessualità, causando così il crollo di quel successo da copertina di rivista che la madre sogna per ognuno dei suoi figli. Tra parenti, parenti acquisiti, vicini e amici si dipana lungo le pagine di tutto il romanzo una distanza incolmabile di pigra incapacità nel voler sovvertire ciò che è comune o assodato per la paura di sentirsi soli, privati anche dell’appoggio delle proprie convinzioni.

Le Correzioni sono fondamentalmente un romanzo di anedonìa come condizione psicologica caratterizzata dall’incapacità di provare piacere in circostanze normalmente piacevoli, di entropia percepita dappertutto, morte delle cose e il valore che ad esse si assegna quando il senso di inadeguatezza si sfoga nell’acquisto, di solitudine contemporanea, e particolarmente riscontrabile nel carattere statunitense, che si circonda di possibili contatti la cui superficiale compagnia serve a scacciare il timore della solitudine mentre i rapporti più profondi sono allontanati per paura di una sofferenza che si preferisce autoinflitta. Insieme alla ricerca ossessiva del sentimento c’è la paura del sentimento, la stessa forma narrativa la rivela nei bruschi cambi di parte e di soggetto quando si vanno a toccare i nervi più scoperti o le più profonde affettività.
Eppure tutto è comune, tutto è conoscibile e vicino in un sistema di relazioni che naturalmente crea connessioni tra le persone, per quanto esse possano sfuggire a una visione superficiale: due esempi, una band, i Nomatics, o una figura letteraria, il leone Aslan, che inconsapevolmente formano delle tele di ragno che collegano un mondo reso mappabile grazie agli arcipelaghi formati dai riferimenti culturali comuni ma che non bastano a rendere vicine le persone.

La scrittura di Franzen si immerge completamente in questo mondo di abbondanza iperbolica e infinite promesse appropriandosi di tutti i possibili linguaggi tecnici e specializzati – sia che si tratti di chimica farmaceutica che di gastronomia, di politica estera o di biologia – alla ricerca di un’esattezza naturalista che rappresenti la cosa nella sua varia e precisa nudità. Non risparmia le modificazioni di carattere proprie del linguaggio dello schermo, le riproduzioni pubblicitarie di loghi o il formato standardizzato della posta elettronica per rendere la realtà ancora più tangibile, urgentemente immediata nel suo scardinare la parola standardizzata percepita come evidentemente limitata. La scrittura si fa regia e le immagini si susseguono come se fossero osservate sullo schermo cinematografico, tanto da far quasi sentire rumore di zoom e messe a fuoco nelle descrizioni, ormai inestirpabili dal mondo della pellicola.
Come le scritte travisate delle insegne pubblicitarie fanno emergere il proprio pensiero inconscio, così la scrittura di Franzen interpreta l’umore dei propri personaggi adeguandovi, travisandola, la realtà; così i registri e i toni del narratore inesistente si conformano al temperamento del soggetto a turno descritto scivolando alternamente nel ridicolo, nel pretenzioso o nel pregiudizievole. La consecutio temporum è ovviamente bandita in una realtà in cui lo scorrere del tempo è concepibile solo nell’inizio e nella fine e i flashback sono improvvisi così come i cambi di scena in una forma che ricalca la caotica atomizzazione della vita americana e cerca di scrollarsi di dosso l’ultrapotere del mezzo cinematografico, appropriandosi di alcune delle sue forme consapevole della battaglia impari che sta combattendo.

Le immagini create da Franzen sono crude, estreme fino alla ricerca del disgustoso compiaciuto in un approccio tattile che lo schermo difficilmente riesce a riprodurre. Il rapporto con l’immagine è fondamentale in tutto lo svolgimento della vicenda: dalle immagini pornografiche che suscitano una risposta da operatore alla catena di montaggio, alla cura per la eccessiva presenza di seni in una sceneggiatura obbligata a infinite correzioni, fino alla consapevolezza della possibilità di riuscire a vedere le cose solo attraverso gli occhi, come nel caso della vecchia compagna di crociera che: «si chiedeva: La gente sarebbe stata sensibile a quelle immagini se le immagini non avessero avuto la stesa dignità delle cose reali? La questione non era la potenza delle immagini, ma la debolezza del mondo […] il mondo era fruibile soltanto sotto forma di immagini. Tutto ciò che entrava in testa si trasformava in una fotografia».

Tutto ciò che si percepisce viene demandato a ciò che si vede e spesso questo compromette il riconoscimento dei propri impellenti bisogni e domande interiori. La cultura del bombardamento di immagini può evidentemente essere promotrice della distrazione dal sé per focalizzarsi esclusivamente sulla vita di superficie, regolata da bisogni e necessità sapientemente creati dal marketing.   Una vita elettrica che rinnova il proprio passato alla ricerca di uno stile nuovo, efficiente e alla moda – come prova la conversione di una vecchia fabbrica di Philadelphia nel ristorante per jet set di Denise – una vita che allo stesso tempo cerca di sfuggire alle proprie radici col terrore di comprenderne il motivo.
Il ritorno ossessivo al tema del Natale da festeggiare insieme ad ogni costo nella vecchia e cadente casa familiare al fianco dei vecchi e cadenti genitori è la speranza di una riunificazione più che di una comune comprensione, in nome di un rito svuotato del proprio significato ma che rispecchia l’innocenza perduta di un passato solo sognato.  È attorno a questo rituale che si cerca di ricomporre un’unità divisa senza riuscire ad avvicinarsi per comprenderne le fratture. Un’intera realtà che si oppone alla pretesa di un qualsivoglia significato: un significato è infatti unitario, denotativo e delimitativo; impone a una cosa, a un concetto, un’importanza peculiare e stabile per quanto effimera.

Ma la realtà contemporanea non è nulla di tutto ciò, i ritmi dello sviluppo tecnologico, conoscitivo, lavorativo non solo rendono la pretesa del significativo improduttiva, e perciò inutile, ma addirittura ridicola nel continuo mutamento nella prospettiva plurima dell’opinione. La vita tende così ad assomigliare a un viaggio lisergico dove maggiore è la necessità alla razionalizzazione, alla concettualizzazione e alla spiegazione, tanto più aumenterà l’ansia e l’impossibilità della serena esperienza e contemplazione. Tutto ciò che resta, una volta abbattuti gli ostacoli del pregiudizio come veste unica del significato, sembra essere semplicemente il seguire il flusso.

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