Alexander Calder, il leggerissimo

Alexander Calder comincia a scolpire a quattro anni e fa qualcosa che noi probabilmente neanche in un’intera vita di corsi serali di pottery. Ventisei anni dopo è già intento a fare questo.  La sua arte è stata un prendere le mosse da una tradizione di materiali forti come la pietra, il bronzo e il legno e non sceglierne nemmeno uno: piuttosto, cercare continuamente i contorni delle cose e non riprodurne la massa, non il modo in cui occupano lo spazio ma come piuttosto lo delimitano e lo disegnano. Voleva consentire alle figure di essere trasparenti.

Nato in una famiglia di artisti − scultori il nonno e il padre, pittrice la madre − Calder realizza anche piccole sculture con dei fogli d’ottone come regalo di natale per i genitori, crea gioielli con il filo metallico, perline e bottoni, costruisce modelli di trenini che si muovono grazie alla gravità − e non è ancora alle scuole medie. La famiglia Calder si trasferisce di continuo, ma in ogni casa è assicurato che la cantina sarà destinata ad Alexander, perché ne faccia il suo piccolo atelier. Tuttavia, quando arriva il momento di scegliere il college, i genitori fanno pressione perché i figli (Alexander ha una sorella più grande di qualche anno, Peggy, anche lei legata al mondo dell’arte) intraprendano carriere più sicure. È così che nel 1919, a 21 anni, Calder ha già una laurea in Ingegneria meccanica e comincia a fare i lavori più disparati: è ingegnere idraulico e poi disegnatore per la New York Edison Company, anche fuochista su una nave, perfino addetto al controllo delle ore in una segheria. È in questo periodo, dopo anni di distacco, che ricomincia a fare arte e di nuovo se ne appassiona al punto da decidere di trasferirsi a New York per iscriversi all’Art Students Leauge.

Non ci rimane a lungo, però: nel 1926 è a Parigi, impegnato soprattutto nel progetto che chiama Cirque Calder: sculture in filo metallico di acrobati, domatori, ballerine, sollevatori di pesi, alcuni decorati con stoffa e perline, altri mossi da piccoli meccanismi, tutti insieme partecipi di serate spettacolari che avevano, tra il pubblico, Jean Cocteau, Joan Mirò e Piet Mondrian − e non sembra per niente male come inizio di una carriera artistica. In questo periodo comincia anche una serie di ritratti con il filo di ferro, tra cui anche quello di Edgard Varèse e di Fernard Léger (che qui guarda se stesso), che rompono l’apparente bidimensionalità data dal materiale grazie alle ombre che proiettano, che danno vita a  profili sempre diversi.

photo: James Gourley/Rex Shutterstock from theguardian.com

photo: James Gourley/Rex Shutterstock from theguardian.com

Nel 1930 visita lo studio di Mondrian. È questo il momento in cui cambia tutto. Con le parole di Calder: «It was like the baby being slapped to make its lungs start working». Fa un’osservazione all’artista olandese: non sarebbe interessato a far muovere queste opere? Mondrian ci rimane un attimo e poi risponde che no, insomma, proprio no. Ci penserà Calder, allora, per tutto il resto della sua vita.

Possiamo trovare almeno tre fasi, spesso sovrapposte, nell’arte cinetica di Alexander Calder − che in realtà ha un nome suo proprio, dato da Marchel Duchamp (aveva delle belle compagnie, sì) nel 1931: mobile.    Nella prima fase, realizza delle figure dalle forme elementari e i colori forti, sospese con dei fili e articolate su più piani; il  loro movimento è dato dall’aria, dal peso, dallo spostarsi delle persone in una stanza. Per questo, nella seconda fase, Calder pensa di introdurre i motori che aveva studiato, per poter dirigere e predeterminare il movimento delle sue opere, ritentando le coreografie del Cirque; spesso, però, i meccanismi risultarono troppo fragili per reggere a più utilizzi.   In questi due primi momenti, Calder si stava ancora confrontando con l’idea di un background incluso nell’opera d’arte: per questo realizza sfondi di metallo o di legno colorati a tinte piatte, intense, su cui le altre forme spiccano e rimangono sospese.   Quando comincia ad abbandonare questa idea e prova a inserire le proprie opere in un contesto più grande, decidendo inoltre di tornare al movimento “naturale” degli oggetti, arriva il Calder che conosciamo tutti: quello dei mobile grandissimi, spesso giganteschi, fatti di forme di metallo dipinte tenute assieme da fili di metallo e attaccati al soffitto, sospesi sopra i visitatori, che magari hanno incorporati dei gong in modo che col vento suonino, che hanno nomi bellissimi come Arc of Petals, che sono delle nevicate.

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Con queste opere sospese e con quelle a terra (chiamati stabile), Calder ricomincia a confrontarsi con l’idea della scultura come oggetto che fa parte di uno spazio. In più, l’idea del movimento naturale delle cose porta a progetti che sembrano più degli esperimenti, come Small Sphere and Heavy Sphere (1932/3), dove le sfere potrebbero colpire tutti gli oggetti disposti lì attorno o uno solo o nessuno. Ed è anche per questa casualità dei movimenti che molti dei suoi mobile hanno nomi che richiamano cose leggere che cadono e volteggiano, come i petali, appunto, o la neve, o le foglie.   Tutto questo converge in una direzione più grande: quella del cosmo − e non è così difficile capire perché. Nasce così la serie Constellations, particolarmente sostenuta e apprezzata da Duchamp, e ispirata alle Constelaciones di Joan Mirò. Quando A Universe fu esposto per la prima volta al MoMA di New York, Albert Einstein rimase fermo quaranta minuti (o almeno così hanno raccontato a Calder) aspettando che il meccanismo compisse tutti e novanta i giri prima di ricominciare daccapo.

«Ero interessato a una composizione aperta, estremamente delicata… E ho sperimentato una sensazione davvero strana: guardavo le mie opere e non le vedevo muoversi.»¹ AC

Per quanto strano possa apparire, a un’arte così sottile e poco ingombrante (nel senso di visivamente invadente) fu chiesto più e più volte di partecipare a delle esposizioni di stampo politico o di denuncia. Il 1937, da questo punto di vista, è un anno importante: viene chiesto a Calder di presentare un’opera per il Padiglione della Spagna Repubblicana, a cura di Josep Lluis Sert, all’Esposizione Internazionale di Parigi. Decide di realizzare una fontana a mercurio, materia estratta nelle miniere di Almadèn, per sottolineare le risorse economiche e strategiche su cui la nuova Spagna avrebbe potuto contare. L’opera di Calder viene addirittura posizionata davanti a Guernica.
Due anni dopo, partecipa anche alla New York World’s Fair, per la quale crea un modello-ballet con tre oggetti principali attorno ai quali ruotano altri elementi, in una complicata coreografia che doveva coinvolgere anche gli spruzzi della fontana all’esterno del Consolidated Edison Building, cosa che non avvenne per, così si lamenta Calder, il poco interesse dell’altro ingegnere coinvolto nel progetto.      Nel 1948, invece, realizza Black Widow, donato all’Institute of Architects di São Paulo, in Brasile, durante una visita che lasciò un forte segno su artisti allora giovanissimi come Hélio Oiticica e Lygia Clark.
La produzione di stabile e la scelta delle grandi dimensioni portano Calder anche a sperimentare sempre più con le opere monumentali, che chiamava agrandissements, in particolare a partire dagli anni Cinquanta: tra cui anche lavori per l’UNESCO (The Spiral, 1958), per l’Aztec Stadium di Città del Messico (El Sol Rojo, 1968), per la città di Grand Rapids in Michigan (La Grande Vitesse, 1969) o per Chicago, su commissione degli USA stessi (Flamingo, 1974).

Parallelamente a tutto questo, Calder continuava a portare avanti la pittura, che aveva approfondito ai tempi dell’Art Students League, componendo anche lavori grafici di stampo politico, per esempio contro la guerra in Vietnam, e la realizzazione di gioielli,  tra cui un paio di orecchini donati a Peggy Guggenheim, nientemeno.

L’immagine di Alexander Calder che tante volte viene restituita, quella di un bambino che si diverte coi colori mentre confeziona cose fragili che vanno bene giusto come arredamento, non potrebbe essere più lontana dalla realtà. Si tratta di un ricercatore, di un artigiano, di un osservatore, che ha attraversato il secolo più innovativo e trasformista per quanto riguarda l’arte continuando instancabilmente a cercare, con i propri mezzi, di rimanervi in equilibrio − nel senso bello della cosa.

Instagram photo by @professor_ohlsson (click for link)

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¹«I was interested in the extremely deliate, open composition. […] It was a very weird sensation I experienced, looking at a show of mine where nothing moved.» Dal pannello della Stanza 8, Alexander Calder: Performing Sculpture, Tate Modern

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