Giornata internazionale dei migranti – Quali diritti per i migranti ambientali?

L’effetto serra che aumenta, la temperatura che cresce e il clima che cambia. E poi ancora, ghiacci che si sciolgono, suoli consumati e riserve d’acqua sempre più scarse. Il sistema naturale è in crisi e l’uomo deve fare i conti con questa realtà. Ma se anche i media sembrano ormai aver riconosciuto questo dato di fatto, ciò che resta ancora sconosciuto ai più è l’impatto che tale realtà avrà sull’umanità. Infatti, è sempre bene ricordare che non è la salute del pianeta a essere in pericolo, bensì la nostra stessa sopravvivenza. Sempre più individui e comunità, per scelta o per costrizione, si sposteranno come conseguenza di una progressiva perdita di habitat, contribuendo all’emergere di una problematica che non conosce confini, quella delle migrazioni ambientali. Una questione complessa di cui vi parlo, non a caso, in questa diciassettesima giornata internazionale per i diritti dei migranti.

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C’è chi già afferma che questo sarà il secolo dei migranti ambientali, chi li etichetta come profughi o rifugiati, c’è chi dice che è troppo tardi per una soluzione e chi sostiene che la migrazione non è altro che una delle numerose strategie di adattamento a un clima che cambia. Negli ultimi decenni il dibattito sulle migrazioni ambientali è esploso, anche perché ciò di cui oggi siamo certi è che «i disastri naturali fanno più sfollati delle guerre», ci dice Martina Forti su Internazionale. L’Internal Displacement Monitoring Centre (IDMC) calcola che più di 24 milioni di persone sono state costrette a spostarsi a causa degli effetti disastrosi degli eventi climatici estremi, in particolare nel Sudest asiatico. Una cifra che cresce di anno in anno e che suscita molti interrogativi di varia natura. Primo fra tutti: chi sono i migranti ambientali? Ad oggi, non esiste ancora una definizione chiara e soprattutto condivisa. Da quando la problematica ha iniziato a emergere, poco meno di quarant’anni fa, studi e discussioni si sono moltiplicati, ma le difficoltà di categorizzare colui che si sposta per ragioni ambientali non sono certo diminuite. Da un lato, isolare la causa ambientale dal resto dei drivers di spinta è non solo impossibile, ma anche profondamente errato. L’individuo che si sposta, infatti, il più delle volte lo fa a causa di un insieme di motivazioni che possono essere di carattere economico e sociale, oltre che ambientale. Si sposta chi è più vulnerabile, chi vive in contesti già instabili, per esempio colpiti da conflitti o con un basso indice di sviluppo umano. Il degrado ambientale, spesso, concorre ma quasi mai è l’unica ragione di fuga.

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Dall’altro, vi sono diverse tipologie di migrazioni etichettate come ambientali, ma estremamente diverse. Migranti ambientali sono quelli fuggono da alluvioni e terremoti, quelli che lasciano le proprie case a seguito di siccità, risorse sempre più scarse e desertificazione, ma anche coloro che a causa di scellerati progetti di sviluppo, perdono qualsiasi diritto (spesso consuetudinario) sull’uso di una terra che hanno abitato per secoli, divenendo protagonisti di programmi di riallocazione forzata in nome di interessi di mercato che poco hanno a che fare con quelli della collettività. Il progetto delle grandi dighe in Etiopia, ne è un esempio evidente: la Gibe III, la più grande diga africana realizzata dalla società italiana Salini-Impregilo, minaccia centinaia di migliaia di persone che vivono e basano la loro sussistenza sulle risorse del fiume Omo e su quelle del lago Turkana in Kenya. Se pensiamo che è già stata annunciata la costruzione di un’ulteriore mega diga, la Gibe IV, ci rendiamo conto che la situazione è allarmante. Inoltre, come si nota, quando si parla di migrazioni indotte da cause ambientali (environmentally induced migrations) le variabili da considerare sono molteplici e diversificate, un aspetto che rende particolarmente difficile lo studio e l’elaborazione di dati certi su tali movimenti.

httpstudiomasciotta.ititnews112-letiopia-inaugura-la-diga-di-gibe-ii.html

Quello che però è certo è che con l’aumento in intensità e frequenza di eventi climatici estremi anche il numero di migranti aumenterà. A meno che non saranno ideate e attuate al più presto misure di mitigazione e adattamento, sfollamenti e conflitti per il controllo delle risorse naturali saranno sempre più parte di un futuro neanche troppo lontano. Cambiamenti climatici e degrado ambientale sono sempre più dei moltiplicatori di rischi per quanto riguarda la vita di diverse comunità alle prese con il degrado del proprio ecosistema. Eppure, alla domanda sul perché una persona fugge o sceglie di spostarsi dal proprio territorio, quasi nessuno risponderà che la ragione principale è il clima che cambia o l’ambiente naturale che risulta sempre più impoverito. Il nesso logico tra ambiente, degrado e migrazioni non è quasi mai diretto: l’individuo che vede prosciugarsi le acque del lago, che vede ridursi drasticamente la quantità del pescato, che assiste all’aumento di tensioni con i gruppi vicini e al moltiplicarsi di difficoltà economiche, spesso ne ignora le cause reali e profonde. E, anche quando tale nesso risulta più evidente, il migrante è portato a tacere, poiché per le migrazioni ambientali, non esiste di fatto nessuna protezione internazionale. Non vi sono garanzie di tutela né leggi ma solo princìpi che uno Stato può scegliere o meno di rispettare, senza nessun vincolo. Nonostante i numeri crescenti del fenomeno, il migrante ambientale non è ancora legalmente riconosciuto.

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I numeri previsti per il 2050 sono impressionanti. Si calcola, infatti, che circa 200 milioni di persone si sposteranno in seguito all’inasprimento degli effetti del cambiamento climatico. Cifre assolutamente prive di qualsiasi fondamento empirico, ma che comunque ci restituiscono un quadro drammatico della situazione. Sebbene l’uomo si sia sempre spostato per cause ambientali, la società odierna, più complessa e sempre più barricata, non lascia molte opzioni a coloro che vedono sparire le loro terre e con queste le prospettive di un futuro migliore. Identificarli come combattenti e non come vittime è di certo la migliore prospettiva da adottare, ma è pur vero che la lotta contro un sistema così articolato e incoerente come quello in cui viviamo, è estenuante e decisamente squilibrata. Anche se la partita è ancora tutta da giocare, i presupposti per un fallimento generale ci sono tutti: sta solo a noi decidere in che direzione vorremo andare.

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Le immagini sono state prese da: theconversation.com, ethicaljournalismnetwork.org, studiomasciotta.it, minorstranierinonaccompagnati.blogspot.it, internal-displacement.org/global-report,

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