Le assaggiatrici – Intervista a Rosella Postorino

A gennaio è uscito Le assaggiatrici, scritto da Rosella Postorino (scrittrice e editor di Einaudi Stile Libero) e pubblicato da Feltrinelli. Il romanzo ci riporta indietro nel tempo, alla Seconda guerra mondiale, e la protagonista, la giovane Rosa Sauer, viene reclutata come assaggiatrice di Hitler.  Insieme a lei, altre nove donne che ogni giorno ingurgitano cibo potenzialmente letale, lo stesso cibo che dopo sarà mangiato dal Führer.  Rosa è chiamata “la berlinese”, è difficile per lei – all’inizio – farsi delle amiche. Poi, nel 1944, arriva  il tenente Ziegler che incute timore, ma non a Rosa che instaurerà col tenente un rapporto intimo e nascosto.
Le assaggiatrici parla di donne, di coercizione, di Storia, di corpo, di cibo, di guerra, ma soprattutto di scelte e dell’impossibilità di scegliere. È di certo un romanzo che fa venire in mente tante domande, ad alcune non riesco ancora oggi a trovare risposta. Ringrazio Rosella Postorino per averlo scritto e per l’intervista.

Ciao Rosella! Intanto grazie per l’intervista. Immagino che in molti te lo avranno chiesto: com’è nata l’idea di questo romanzo? Quando Margot Wölk è diventata Rosa Sauer? E perché hai deciso di scrivere questo romanzo?
Il romanzo è nato, senza che io lo sapessi ancora, nell’istante in cui leggendo il giornale sono inciampata in un trafiletto che parlava di Margot Wölk, una donna berlinese di 96 anni che da giovane era stata un’assaggiatrice di Hitler. Era il settembre del 2014. Prima di tutto il pezzo mi ha incuriosita: ignoravo che il cibo destinato a Hitler fosse quotidianamente assaggiato da un gruppo di ragazze per controllare che non cover_Le assaggiatricifosse avvelenato. Poi mi ha colpita il fatto che Frau Wölk raccontasse non solo l’angoscia della mensa forzata e dell’ora successiva, passata in caserma in attesa che eventuali sintomi di avvelenamento si manifestassero, ma anche il piacere che il gusto di quel cibo sprigionava. Quella donna era una vittima e una colpevole nello stesso tempo, come lo sono tutti i protagonisti dei miei romanzi: ecco perché non potevo non incontrarla, dovevo assolutamente parlare con lei. L’ho cercata a lungo ma, quando finalmente l’ho trovata, è morta. Così non ho potuto scrivere la sua storia. Ma la sua storia mi aveva chiamata a sé come se mi riguardasse. Ed era così: riguarda chiunque. Tutti rischiamo in ogni momento di morire, tutti siamo progettati per smettere prima o poi di respirare. Questa consapevolezza è un veleno che accettiamo ogni giorno. Il cibo in potenza letale era una metafora perfetta per parlare dei temi che mi stanno a cuore: la colpa accidentale, l’ambivalenza dei sentimenti e dei comportamenti umani, la libertà mai completa, l’illusione di poter sempre scegliere, gli effetti del totalitarismo e delle organizzazioni coercitive sugli esseri umani, la Storia che attraversa le esistenze di persone comuni, marginali, l’amore come una negoziazione di fiducia mai definitiva… Margot è diventata Rosa, e Rosa, che si chiama non a caso come me, è diventata il modo in cui io denunciavo la mia possibile meschinità, la mia possibile colpa, il mio possibile antieroismo, le mia paure tutte umane, il mio attaccamento alla vita –  un attaccamento che non è logicamente comprensibile, a ragionarci sopra. Sarei stata così diversa da Margot se mi fosse capitata la sfortuna che è capitata a lei?

Quanto tempo ci è voluto per ideare la trama e scrivere il romanzo? Dietro c’è sicuramente un lavoro accurato, non soltanto per quanto riguarda la trama, ma anche per le nozioni storiche. Tra i ringraziamenti, menzioni Tommaso Speccher e lo ringrazi per la supervisione storica. È stato difficile dover stare attenta a qualsiasi dettaglio, anche il più irrilevante?
Ho lavorato a Le assaggiatrici per più di tre anni. Non avevo una scaletta dettagliata né un piano del romanzo, all’inizio: non ne ho mai, non sono capace di scrivere così. Scopro le cose man mano che accadono ai miei personaggi, e torno continuamente indietro per riscrivere, tagliare, smontare, rimontare, alla luce di ogni nuovo evento, di certi nuovi capitoli, di una piega del carattere del personaggio che non era ancora emersa e che invece si rivela importante. Questo libro mi ha richiesto una documentazione molto ampia, ma anche molto gratificante. Per me scrivere romanzi è una forma di esplorazione, di scoperta: tanto di un mondo nuovo, di cui devo conoscere più elementi possibili, quanto del mondo in sé, del mondo in quanto tale, e dunque di me, che al mondo appartengo. Ogni romanzo è per me l’opportunità di immergermi in un altrove ignoto di cui voglio sapere – è stato così con il carcere, dove è ambientato Il corpo docile, prima che con il Nazismo de Le assaggiatrici – immaginando le reazioni dei miei personaggi proprio a partire dall’atmosfera del tempo e/o del luogo che, studiando, respiro, assorbo. Rispetto ai dettagli, mi piace cercare di essere precisa, o almeno attendibile: mi sono posta per esempio il problema del nome di un certo tipo di colletto di una camicia, e della sua esistenza all’epoca, tanto che ho chiesto aiuto a una fashion designer, nonostante avessi già controllato sulla Storia della moda di Einaudi (volume che ho tenuto sulla scrivania per tutto il tempo della stesura). Ho consultato anche biologi e medici, oltre ad aver fatto leggere il libro a uno storico che vive peraltro in Germania.

Oltre alla costruzione della trama, hai dato vita a personaggi dalle mille sfaccettature, esseri umani veri, con i loro pregi, i loro difetti e le loro debolezze. Sei entrata in empatia con loro? E se sì, chi hai amato e chi detestato?
Non ho detestato nessuno. Non si scrive detestando i propri personaggi, non ha senso. O si capiscono le ragioni del personaggio, attraverso la sua testa, il suo punto di vista (che non significa giustificarlo!), o il personaggio viene fuori monco, non funziona.

Sempre a proposito dei personaggi, ho provato molta tenerezza nei confronti dei genitori di Gregor, i suoceri di Rosa. Nonostante gli eventi, ho notato una certa forza in Joseph, una speranza in Herta. Ideando i tuoi personaggi, hai cercato di immedesimarti in quel tempo e in quello spazio? E, in questo, quanto ti ha dato la letteratura del tempo, le storie che magari ti hanno raccontato o che hai ascoltato riguardo agli anni ’30-’40?
Non avrei potuto scrivere Le assaggiatrici senza tutti quei romanzi che raccontano la guerra o il periodo nazista, ma anche i diari, i memoir, le interviste, le biografie, le lettere, e pure il cinema – rivedere tutto

Rosella Postorino

Rosella Postorino

Heimat di Edgar Reitz, che avevo visto da giovane (forse perdendomene qualche episodio) al cinema della facoltà di Lettere dell’Università di Siena, è stato meraviglioso. Mi hanno aiutato nella ricostruzione della vita quotidiana, ma probabilmente anche del tipo di sentimenti che si provavano in quel periodo. Poi c’è l’immaginazione, il tentativo di immedesimarsi, la domanda: al suo posto io cosa farei? Abbiamo tutti paura. Siamo tutti spinti dall’istinto di sopravvivenza. Tutti siamo scesi a compromessi con noi stessi, almeno una volta. Tutti abbiamo amato e perso qualcuno, o viviamo nel terrore di perderlo. Tutti dobbiamo morire. Il mio libro parla di cose che riguardano chiunque, ma per raccontare la nostra comune condizione di esseri mortali usa una storia estrema, che diventa esemplare perché c’è la guerra: come il veleno può uccidere da un momento all’altro. Una vecchia signora ultra novantenne che ha letto Le assaggiatrici si è molto stupita: è incredibile, ha detto, è proprio ciò che provavamo allora. Questo mi ha fatto davvero piacere.

Parli di un tema di cui non si finisce mai di parlare. Il nazismo, il fascismo e la Seconda guerra mondiale hanno influenzato fin dai tempi della guerra la letteratura. Eppure tu ci mostri tutto quanto da un’angolazione diversa: Rosa è l’assaggiatrice di Hitler. Può mangiare mentre il resto del popolo muore di fame. Allo stesso tempo, ogni volta che si trova davanti al piatto, sa di sfidare la morte. È una situazione complessa. Io, leggendo il tuo romanzo, mi sono chiesta molte volte cosa avrei fatto io. È molto facile parlare a 75 anni di distanza. Tu te lo sei chiesta?
È proprio perché me lo sono chiesta che ho scritto Le assaggiatrici. Come diceva Primo Levi, nessuno può immaginare che cosa farebbe in una situazione estrema. La colpa delle organizzazioni oppressive non è solo quella di opprimere, ma anche quella di spingere gli oppressi a colludere con l’organizzazione stessa pur di sopravvivere o di accedere a un qualche privilegio che possa lenire la situazione di svantaggio, umiliazione, malessere: in questo modo, chi opprime rende l’oppresso colpevole. Pure i clan mafiosi (nel mio secondo romanzo parlavo non a caso di mafia) funzionano così: togliendoti l’innocenza, ti legano a loro. È possibile rimanere innocenti vivendo in un regime totalitario? Questa era la domanda; ho provato a rispondere con la storia di una donna che avrei potuto essere io, se avessi avuto 26 anni nel ‘43.

Le assaggiatrici non legano subito, ci sono i gruppetti e poi c’è Rosa, “la berlinese”. Si dice spesso che è più possibile che nell’amicizia femminile ci siano invidie, rancori, segreti. Allo stesso tempo, queste donne si ritrovano insieme e legano per la sorte comune. Infatti, andando avanti nel romanzo, notiamo come comincino a guardarsi le spalle a vicenda, ma nonostante questo legame, alla fine prevale sempre la sopravvivenza personale. Come la pensi a riguardo?
L’amicizia, e in particolar modo l’amicizia femminile, è una delle cose che mi ha aiutata e mi aiuta a vivere. Per me ha un potere salvifico, e quindi detesto sentir dire che le donne tra loro sono più stronze o più invidiose: è pura misoginia.
Le mie assaggiatrici innanzitutto si comporterebbero così anche se fossero assaggiatori. Si tratta di mettere in una situazione di coercizione – dunque di sospensione di alcuni diritti – e di sospetto, di paranoia (a partire dalla paranoia di Hitler, convinto che il nemico possa avvelenarlo), un gruppo di persone che non si conoscono, che non si sono scelte, che sono affamate dalla guerra, che in guerra hanno perso marito e fratelli, che vivono in uno stato di precarietà da ogni punto di vista, che possono perdere tutto da un momento all’altro, e che davvero non sanno se e di chi possono fidarsi. Sono solidali ma con sospetto, sono amiche ma si nascondono segreti, vorrebbero salvarsi tutte insieme ma nessuna riesce a salvare l’altra: è complicato o addirittura impossibile anche salvare sé stesse.

L’arrivo di Ziegler stravolge la routine a cui le assaggiatrici erano abituate. Il suo arrivo e il legame che stabilisce con Rosa fa emergere la tematica della colpa che è una colpa che si amplifica perché penso che sia provata da entrambi, anche se in maniera diversa.
Incontrando ogni notte Ziegler nel fienile, Rosa tradisce il marito, i suoceri, le compagne: questa colpa – a differenza della colpa di assaggiare il cibo di Hitler, in cui è incappata in modo accidentale, senza sceglierlo – è invece il risultato di una scelta. Perché se è vero che il desiderio accade – non si sceglie di desiderare, o chi desiderare – è anche vero che Rosa avrebbe potuto non andare nel fienile con Ziegler. La sua intimità con il Nazismo, con il Male, non passa più solo per l’intimità con il cibo che le attraversa il corpo e che attraverserà, poco dopo, il corpo di Hitler. Rosa diventa fisicamente intima con un nazista, ama il corpo di un nazista. Nel romanzo è scritto: «La colpa collettiva è informe. La vergogna è un sentimento individuale»: la colpa di questo tradimento metonimizza e simboleggia la colpa più grande, definitiva, di Rosa.
Non so se anche Ziegler si senta in colpa per ciò che ha fatto. Di sicuro, quand’era negli Einsatzgruppen, non ha resistito, ma questo non significa che si sia reso conto del male compiuto. Le fucilazioni di massa fecero vomitare Himmler, per esempio, ma non lo dissuasero dal pensare che fossero giuste. La causa ideale della Germania era più importante di tutto, anche delle reazioni del corpo, incapace di tollerare tanta violenza. Di Ziegler mi interessava raccontare lo scacco, la sua debolezza. Lui non riesce a mettere da parte sé stesso per privilegiare la causa, appunto, come viene invece chiesto alla “razza ariana”. Vorrebbe fare carriera, vorrebbe essere un perfetto tedesco, ma non ha abbastanza coraggio per riuscirci, direbbe un nazista, o non è abbastanza disumano, diremmo noi.

Tu sei editor di Einaudi Stile Libero, quindi sei perennemente in contatto con storie e manoscritti su cui lavorare. Il passaggio da editor a scrittrice è sempre stato fluido fin dagli inizi del tuo lavoro e della tua professione di scrittrice?
Io scrivo dal momento in cui ho imparato a farlo, e quando ho pubblicato il mio primo romanzo lavoravo sì in editoria (ho cominciato nel 2003), ma come ufficio stampa. È il lavoro di editor che si è inserito nella scrittura, ovviamente invadendo molto spazio, perché è infatti un lavoro invasivo, richiede tante energie mentali, creative, persino fisiche, e moltissima capacità di entrare in relazione con gli altri, con l’immaginario, le ossessioni, le paure, i sogni, le ambizioni e anche le idiosincrasie degli altri. Ecco perché io scrivo solo quando non lavoro: devo digiunare da questa folla di storie e personaggi altrui per poter entrare nella mia scrittura. Quindi scrivo in vacanza, usando tutte le ferie estive e natalizie, e nei weekend, ma solo se sono già immersa abbastanza nel romanzo da poterci entrare e poterne uscire senza difficoltà.

La critica ha accolto molto bene il tuo romanzo. Dove sarà tradotto?
Al momento, è stato venduto negli Stati Uniti, in Francia, Spagna, Olanda, Brasile e Grecia.

Photocredit: le foto sono state gentilmente fornite da Feltrinelli

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