Il Disperso – Eugen Ruge

«Io volevo raccontare la realtà in cui si è formata la mia identità, in cui ci sono le mie radici, in cui sono diventato adulto» – Eugen Ruge

Il Disperso (edito per Libri Mondadori e uscito quest’anno) è ambientato nel settembre 2055 in Cina, dove il protagonista Nio Schulz viaggia nel paese per promuovere il true barefoot running l’ultimo ritrovato commerciale della sua azienda, un prodotto di nuova concezione con cavigliere come corredo per controllare battito cardiaco, acido lattico e pressione sanguigna (sono segni di appartenenza come dice la sua capa, una donna bulgara fredda e calcolatrice, che può raggiungerlo in ogni momento tramite una connessione criptata sottolineando sempre la bassa considerazione che ha di lui). Eugen Ruge (Soswa, Unione Sovietica, oggi Russia, 1954) ci catapulta in questo ambiente futuribile dentro una struttura narrativa complessa, quasi rischiosa, in cui si tira la corda fino all’estremo destabilizzante, vulcanico e politicamente scorretto.

Nio, l’ultimo erede della saga di In tempi di luce declinante (2013), si muove in un mondo fatto di costanti informazioni, di big data, dove si comunica a colpi di tweet e post, e la priorità di tutti è l’ottimizzazione tecnica di sé, le bistecche sono create in vitro, le donne vestono guaine superaderenti simili a tatuaggi. La sua quasi-fidanzata Sabena, lavoratrice nel tessile a Minneapolis a contatto con startupper e magnati del tessile, discute con lui sulle possibilità e i costi di affittare una madre per il figlio che vogliono avere.

«(…) si dice Schulz buttando giù il burger XXL anche se a dire il vero è sazio, continua a mangiare, mangia per pura ostinazione, in fondo ha sempre voluto un figlio, saranno le cipolle ad avergli fatto  venire il mal di pancia, ha sempre voluto una famiglia, la famiglia che non ha mai avuto perché il suo cazzo di padre ha pensato bene di andarsene in India o in Indonesia, adesso Schulz teme di essere risultato troppo poco convinto, per l’ennesima volta, anziché dire sì e basta, anziché mostrarsi contento, anziché dire felice, perché  in qualche modo lo è, a prescindere da certi dettagli che si possono chiarire in seguito, in fondo può dirsi felice , o è la carne, non che soffra di una strana ipersensibilità alla carne in vitro, pensa Schulz ed era meglio che non lo pensava perché adesso si sente dentro un affare che si espande, si gonfia, gli ricorda il taglio cesareo, è un’idea assurda che il bambino possa metterlo al mondo lui: ma a ogni modo così risparmierebbe il costo della madre a nolo, e sarebbe anche equo, visto che alle donne è toccato partorire per millenni (…)» [1]

Nio è un progressista, teso alla prestazione ottimale di sé in un universo ridotto ad aree commerciali nel quale si sforza di restare all’altezza dei tempi in cui vive. Un mattino si sveglia in una camera d’albergo, non sa dove si trova, non sa nemmeno se quella camera è reale. Prende i suoi Glass – occhiali speciali che sostituiscono lo smartphone e sono il suo cordone ombelicale con la realtà –, ma quando il sistema digitale di identificazione non lo riconosce, Nio non riesce ad attivare la sua connessione con il  suo mondo (l’account di posta, i social, l’agenda, le foto), né tutto un sistema complesso e sofisticato di app e impostazioni, playlist, profili, filtri, link che costituiscono la sua identità. Non si riconosce più, mette in discussioni la sua posizione sociale e la sua identità.

«(…) Schulz si bloccò per un attimo davanti allo specchio appannato del bagno al quattordicesimo piano dello Home Inn, esaminò il proprio corpo che di colpo era meno imponente rispetto a come lo sentiva dall’interno, benché pur sempre accettabile, verificò la rasatura delle parti intime con la sinistra, avendo la destra impegnata dall’asciugamano, e ancora prima di essere giunto a una decisione sulla rasatura si chiese se non fosse gay, o quanto meno gay a sufficienza da – per usare la definizione della sua insegnante di educazione sessuale, la dottoressa Leim – poter fare emergere le componenti omosessuali del proprio sé, e nei pochi secondo che gli ci vollero per prendere la schiuma da barba e spruzzarla nel pube, Schulz passò in rassegna le implicazioni di una scelta simile, a cominciare dalla confessione del martedì successivo, quando, con sorpresa di tutti, avrebbe confessato di essere gay, ponendo così fine alla propria carriera negli ACriBi, o meglio negli ACriBiE, gli Anonimi Critici Bianchi Eterosessuali: in quel caso a contare era proprio la E che gli affiliati in genere omettevano, si vedeva già davanti la faccia basita di Stony, sentiva scrosciare l’applauso tributato alle confessioni riuscite, scendeva con il pensiero lo scalone di pietra della scuola media Steve Jobs dove si tenevano le riunioni periodiche del gruppo, ma così sarebbe finita anche la sua relazione con Sabena, pensiero che per un momento lo innervosì e persino lo spaventò, sebbene, e questo lo spaventò quasi di più, allo stesso tempo lo alleggerisse: la prospettiva di una vita senza il classico stato d’attesa fra i loro incontri, senza il senso di colpa latente che provava nei confronti di lei, senza le preoccupazioni, la gelosia, i sensi di inferiorità per le volte in cui, come il giorno prima (o erano due giorni?) aveva fatto cilecca: d’un tratto ci sarebbe stata una spiegazione, d’un tratto il suo fallimento non sarebbe più stato un fallimento ma, al contrario, uno sfogo, una liberazione l’unico problema era che gli uomini non lo attraevano, anche se sarebbe stato auspicabile per contenere la crescita della popolazione mondiale, come aveva spiegato la dottoressa Leim – e anche se il piacere sessuale è possibile senza penetrazione vaginale, a quanto pare lui, Schulz, restava irrimediabilmente fissato sulla penetrazione vaginale, già solo la fantasia di una penetrazione vaginale gli provocava una certa eccitazione, benché, per quanto imbarazzante la fantasia non vertesse su Sabena ma su una delle playgirl con cui andava a letto ogni tanto, o meglio: con cui era andato a letto, di fatto dopo la sua ultima confessione AcriBica non era più stato sui siti cyber-porno (…)» [2]

Senza i Glass, Nio non è niente. E mentre si sta recando al suo appuntamento di lavoro in un centro commerciale scompare dal radar degli onnipresenti addetti alla sorveglianza. La narrazione è un susseguirsi di paranoie ad esempio quando per sfortuna gli capita di finire in ascensore con una ragazza, sprofonda nell’angoscia temendo che quella donna possa scambiare qualche suo comportamento – uno sguardo, un sorriso – per un approccio sessuale senza esplicito consenso: le conseguenze legali sarebbero nefaste.

Il Disperso è un libro su un futuro che stiamo già vivendo, su un mondo che potrebbe appartenere alle prossime generazioni. Si lega molto all’autore Eugen Ruge, matematico e geofisico di studi. Il padre, Wolfgang Ruge, è stato uno storico marxista tedesco che lavorava nella DDR (Deutsche Demokratische Republik) e aveva provato sulla propria pelle il terrore staliniano. L’autore prima di lasciare la DDR per la Germania Federale nel 1988 è stato sceneggiatore e regista cinematografico. La fuga è un evento che segna la sua vita. Dal 1989 scrive e traduce per il teatro e il cinema, insegnando anche all’Università delle Arti di Berlino.

Il suo precedente romanzo, In tempi di luce declinante, ha vinto il premio Döblin e il Deutscher Buchpreis. È stato anche finalista al Premio Strega Europeo nel 2014. È la storia di tre generazioni di una famiglia della Germania dell’Est in cui si consuma il fallimento della grande ideologia che ha dominato il secolo scorso. Il personaggio centrale della narrazione, Alexander, disorientato e disilluso, che fugge a Ovest poco prima della caduta del Muro, assiste alla fine della vita di suo padre malato di Alzheimer e anche alla sua, dato che è affetto da tumore incurabile. In mezzo, un pezzo della nostra storia recente, come la caduta del muro di Berlino, raccontata nel modo migliore possibile attraverso generazioni di personaggi di cui non è difficile innamorarsi. È un libro di fatto sulla paternità, sull’introspezione, sulla fine di una famiglia, sulla fine di un’utopia fallimentare.

L’autore ha vissuto sulla propria pelle l’irritazione e la fuga dalla mania del gigantismo sovietico. I suoi libri sono nuovamente la critica di una imminente gigantomania, quella dei gruppi industriali internazionali, del capitale finanziario e del libero commercio. Lo scenario è quello di una Unione Europea, che fa del libero commercio e della globalizzazione il proprio nucleo, dispensando benessere, democrazia e tutela ambientale. Bruciamo il pianeta per consumare sempre di più e sempre più velocemente senza renderci minimamente felici. La folle produzione di beni di consumo non serve in alcun modo a contrastare povertà e miseria, come affermano i profeti della crescita. Al contrario la produzione massiccia e a basso costo dei Paesi industriali provoca nel tempo nei Paesi sottosviluppati dipendenza, fame e significativi problemi ambientali. È questo che Ruge intende denunciare nei suoi libri, tracciando una stretta connessione fra ideologie del passato e ideologie del presente.

Note

[1] Il Disperso (Libri Mondadori, 2018), pagg. 132-133

[2] Ibidem, pagg. 20-21

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