Un etto d’amore (lascio?) – Intervista a Luca Gamberini

Tra tutte le varie raccolte poetiche che ho letto negli ultimi tempi, Un etto d’amore (lascio?) edizioni Ensemble – mi ha colpito davvero molto, soprattutto per la coerenza e la competenza con le quali è scritto.  Un progetto editoriale preciso, ben strutturato che non può che lasciare il lettore soddisfatto, se non altro per tutto il lavoro che si percepisce dietro i versi.
Il libro è suddiviso in tre sezioni che ruotano attorno al tema centrale del rapporto di una coppia: il Prima, che raccoglie le poesie dedicate al tema del corteggiamento e dell’innamorarsi, il Durante che mostra sia la passione dell’atto che l’intensità di una relazione, e il Dopo dedicato al lasciarsi e alla fine di un rapporto.
Lo stile di Gamberini è semplice, il verso libero è breve, talvolta veramente essenziale, eppure – e non è cosa da poco – possiamo scorgere una certa ricercatezza nei termini e nell’utilizzo di paronimie che non lo rendono mai banale.

Questi motivi mi hanno spinto a intervistare Luca Gamberini: ne è nato uno scambio piacevole sul suo libro, su Bologna e sulla poesia.

“Un etto d’amore (lascio?)” appare come un progetto coeso e ben strutturato. C’è una sorta di organizzazione interna, una coerenza che lascia senz’altro soddisfatti. Come è nata l’idea di questo progetto poetico?
È nato da una fine, da un amore nato, vissuto e sfinito. La struttura interna ricalca quella che in maniera forse asettica si potrebbero definire le fasi di una storia d’amore. “Prima”, il corteggiamento, la conoscenza e la scoperta; “Durante”, la passione che divampa, e il pieno coinvolgimento; “Dopo”, che volutamente non fa riferimento alla fine, ma passa direttamente a quel che resta dopo la fine di una storia. E mi fa strano dirlo, ma tutto inizia proprio da qui: dal “Dopo”, da quello che era rimasto di me dopo la fine di un amore davvero importante.

Molte di queste poesie sfiorano un’intimità straordinaria, non sono mai volgari o troppo esplicite e questo è un pregio meraviglioso quando si affronta l’intensità di un rapporto; c’è qualche modello poetico al quale ti ispiri?
La passione mi appartiene, in poesia come nella vita. La risposta più schietta sarebbe D’Annunzio. Ma voglio rilanciare, e dico Pasolini, e la sua dolcezza de “L’usignolo della Chiesa cattolica”. Trovo sia disarmante: un amore pieno di fisicità e insieme fragilissimo. Poi non ti nascondo che ho sempre subito il fascino degli stilnovisti, su tutti Guido Guinizzelli.

Leggendo il tuo libro, non si riesce a smettere. Ci si cala completamente nell’io lirico e l’immedesimazione è straordinaria. Quel che colpisce maggiormente però è il lavoro dietro ogni singola parola: spesso leggendo i tuoi testi ci sono interi versi che rimangono scolpiti ed è un piacere rileggere. Se posso chiedere, come lavori quando componi le tue poesie?
Scrivo a macchina, una Olivetti Lettera22. Spesso mi viene criticata la scelta della parola singola a comporre un intero verso. È una scelta voluta, in parte dettata anche da questione metriche, scomponendo il verso in più versi, ma per lo più è una scelta lessicale. È la parola che fa il verso. Perché alle volte è necessario che quella parola resti, come dici tu, scolpita, come un fermo immagine, perché ho bisogno di quella e solo quella parola. E quindi il suono, che è diretta conseguenza delle parole, che lavorando a macchina spesso vengono quasi da sole, una richiama sonoricamente l’altra. E quindi la sintesi. Poesia è dire tanto con poco, almeno per me. E scrivere a macchina mi ricorda la scelta e il peso di ogni singola lettera e quindi parola.

Credi nell’ispirazione?
Sì. Credo nell’attimo. La potenza della poesia è nella sua forza dirompente. Mi piace immaginare la poesia come una sorta di atomo, riducendo al minimo lo sforzo del lettore e della parola, caricando di densità di significato i versi. L’ispirazione è quella: è come mettere le buste (posso dire “sporte”? come diciamo a Bologna) nel bagagliaio dopo la spesa. Non hai mai abbastanza spazio e devi essere bravo a incastrare tutto, addensando, condensando, riducendo.

Sono contento che tu abbia citato Bologna, nome che compare in copertina, ma che è possibile riconoscere qua e là nelle poesie; quale è, dunque, il rapporto che ti lega con questa città?
A Bologna mi lega un filo rosso che è dispiegato sotto i portici. Bologna è la mia prima fonte di ispirazione, è lo sfondo e insieme il primo piano. La amo, come si ama una madre. C’e solo una cosa che mi riporta in pace col mondo quando qualcosa non va: cuffie, Lucio Dalla girando Bologna senza meta di notte.

So che fai parte del Gruppo77, citando dal sito, “un gruppo letterario indipendente, che diffonde la poesia e riunisce chi la ama”; puoi parlarcene?
È un tema essenziale per me. La poesia deve uscire dalle stanze intellettuali, deve dialogare con le altre arti (danza, canto, arti visive) e farsi contaminare come una materia viva e respirante. Ecco. Il Gruppo77 è questo: artisti che si contaminano e portano la poesia fuori dai soliti salotti.

Questa in realtà è una domanda che potremmo considerare quasi obbligatoria leggendo i tuoi componimenti: chi è la donna (o chi sono, perché in realtà potresti anche parlare di più di un rapporto) che descrivi in un modo così intenso, cosa rappresenta per te?
Per quel che riguarda la sezione “Dopo”, lei si chiama Valentina, è la donna che ho amato più di ogni altra e alla quale vorrò sempre bene. Per le altre sezioni, essendo appunto una sezione nata “a ritroso”, posso dirti che sono tutte persone vere, esistenti, con tanto di nomi e cognomi e con le quali sono mediamente ancora in contatto. Sono belle persone, che non per forza ho amato, ma certamente alle quali ho voluto bene. Sono meno di quante sembrino, se posso nominarne una su tutte dico Laura, che continua tutt’ora a ispirarmi nuove poesie.

Hai qualche consiglio per chi come te vorrebbe pubblicare le proprie poesie?
Mai fare il lavoro degli altri: degli editor, dei critici, dei lettori. Non avere pregiudizi verso sé stessi. Che non significa essere presuntuosi, ma essere coraggiosi. E naturalmente non fermarsi al primo rifiuto, casomai chiedersi il perché del rifiuto e pensare sempre al lettore: ma io, una poesia così, la leggerei? Comprerei il libro di un autore che scrive questo? E infine avere fortuna. Ensemble è un editore serio. Ci siamo incontrati per puro caso. E mi hanno dato fiducia dopo mezzo secondo. Non è poco, questo mi ha dato tantissima carica.

Ti faccio questa domanda (citando tra l’altro il discorso di Montale al Nobel), anche se so bene che non esiste una risposta univoca o oggettiva: credi che esista un futuro per la poesia oggi?
Non vedevo l’ora me la facessi. So che mi attirerò ire funeste. Ma io credo che la poesia oggi deve scrollarsi di dosso il Novecento e guardare al Duemila. E per farlo deve riprendere in mano i classici. Sembra un paradosso, ma non lo è. La poesia deve varcare la soglia dei social, deve riportarsi in mezzo alle persone, deve raccontare ai lettori e non ai poeti, deve essere quotidiana e non “laureata”.
Anche perché viviamo nell’epoca più poetica di sempre. I grandi della terra comunicano con un tweet. Che è sintesi e significato. E quindi sì: la poesia ce la farà. Anche perché, perdonami, questa domanda se la sono posta già nei secoli passati e al netto di qualche ruga la poesia mi sembra una donna ancora bellissima, forse dovrebbe cambiare il vestito, la invecchia un po’.

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