Taglia la mela con il coltello Idina Cortesi

Taglia la mela con il coltello

di Idina Cortesi                                                                                                                         Illustrazione di Silvia Governa

 

 

Al buio la città trattiene il fiato. All’alba libera il respiro.
Di notte gli autobus sono meglio delle persone. Elisa e Stefano giocano a un gioco che si chiama così: mano nella mano trattieni il respiro finché non arrivi a casa, scappa dalla gente, per le strade, di notte.

Si tengono stretti fino all’insegna della panetteria. Un’ insegna che dice: Il pane del passato: pane e pasticceria, ma anche: inizia a rovistare nelle tasche, trova adesso le chiavi di casa.
La strada non è altro che una lunga distesa di cemento.
Stefano e Elisa escono dall’Abbey mezzanotte dopo mezzanotte, ogni singola notte. Ne escono diversi, con diversi argomenti di discussione. Soprattutto per via di Tommaso che studia Antropologia e dice cose del tipo: questo pub non dovrebbe avere un nome, in origine si chiamavano tutti Public House. Da qualche parte in Africa c’è un deserto di sale. Uno studio genetico dice che siamo banane, condividiamo con loro il cinquanta per cento dei geni.
Allora Stefano parla delle banane per tutto il tragitto, Elisa finge di ascoltarlo e ridacchia. Entrambi guardano prima di attraversare, i semafori spenti agli angoli delle strade, una macchina che corre veloce. Dove si va a quest’ora di notte? Magari a sudare in un posto rumoroso. Salgono le scale di fretta e si sudano addosso, si baciano con la lingua e poi le mani sul culo, le labbra appiccicate al collo. Elisa sgancia il reggiseno da sotto il maglione. Stefano grida: tette libere. Infila la testa sotto la canotta, prende a succhiare. I vicini dormono. Dormono quelli che con il giorno hanno qualcosa da perdere. Loro finiscono sul letto bagnati e storditi, fuori è quasi mattina.

C’è il gioco della paura e c’è il gioco degli zaini. Il gioco della paura si gioca di notte, il gioco degli zaini di giorno. Il gioco degli zaini si gioca di giorno perché fa luce.

Stefano ha letto su una rivista che per conoscere qualcuno è necessario guardare dentro il suo zaino. Dentro lo zaino di Elisa c’è solo un computer, in questo caso sarebbe utile guardare dentro il computer.

Lo zaino di Stefano è un ecosistema in equilibrio dinamico. Nell’ordine: un astuccio pieno di colori e un quaderno, il cartone vuoto di un succo di frutta, il succo di frutta e fazzoletti sparsi, polvere di matite e polvere di tabacco, cartine e cartacce, un coltello usato per sbucciare una mela, pezzetti finissimi di buccia di mela.
Sono mesi che Elisa e Stefano vanno avanti così, tra il gioco della paura e il gioco degli zaini, il gioco della notte e quello del giorno. Stasera all’Abbey non c’è nessuno e loro hanno voglia di una birra lontano da casa.
Il Titanium dista cinque chilometri, aumenta il livello di difficoltà. Durante il gioco del giorno qualcosa è andato storto, hanno litigato tutta la mattina per una questione di finestre, luce e disposizione degli arredi.
«Smetti di svegliarmi tutte le mattine con questa cazzo di aria gelida.» , «Non ti si sopporta più.»
«Non ti si sopporta? Ma dove? Ma chi? Parla bene se devi parlare. Non fare quella voce sepolta, aprila bene la bocca e dimmi Elisa, io non ti sopporto.»
«Certo, come no, io e il mondo intero non ti si sopporta. Così va meglio?»

«L’hai scelto tu di stare qua. Se ben ricordi. Abbiamo il bagno al posto della sala, il letto dove dovrebbe stare il cesso. Mi perdoni signor architetto se alle nove del mattino sento bisogno di luce.»
«Come una pianta carnivora.»
«Si, come una pianta carnivora.»
Ma il gioco della notte è diverso da quello del giorno. Ora si tengono stretti e corrono spediti. L’appartamento capovolto, con il buio, torna a essere un posto accogliente.
Il livello di difficoltà è aumentato, devono attraversare un parco, costeggiare la stazione.
I baristi smontano tavoli e sedie, non c’è più nessuno che fuma sul balcone. Gli sguardi si fanno timidi e veloci.
C’è un uomo steso sulla panchina del parco, sommerso o arrotolato in un groviglio di coperte. I piedi escono dal groviglio, sono indifesi. Elisa avverte l’aria gelida, può sentire le dita dell’uomo staccarsi una a una, le pensa cadute, morte dentro il calzino.
Le dita dei piedi non hanno nome, solo primo, secondo, terzo, quarto e quinto dito.
«Oh, che è?»
«Nulla. Pensavo alle dita dei piedi.»
«E muovili velocemente che ho freddo.»
Stefano spinge Elisa che lo guarda di sbieco e accelera il passo. Le sue spalle dondolano un po’ a destra e un po’ a sinistra, ha acceso una sigaretta.

Quando è nervosa immagina di poter soffiare il fumo in un punto molto preciso della strada. Pensa a un raggio denso e biancastro che va in qualche direzione.
Spesso lo indirizza su un punto lontano da lei, una distanza irraggiungibile.

Camminano sul marciapiede anche se è lunedì, a quest’ora le macchine sono estinte.
Soli sulla lunga distesa di cemento.
I tigli svettano verso il cielo che è nero e incombe e li vuole inghiottire. Un chiarore dietro le nuvole, chissà se è la luna. L’orologio della stazione è inutile, segna le due e un quarto ma nessuno lo guarda. Passa un treno che non si capisce dove vuole andare, Stefano crede in un posto lontano come la Birmania.

Hanno camminato per tre chilometri, iniziano a riconoscere la strada di casa, la strada di casa nella sua versione cimiteriale. L’insegna della panetteria non smette mai di lampeggiare. Stefano si fruga nelle tasche e non trova le chiavi.

«Ehi, bella coppia.»
Un gruppo di ragazzi li supera. C’è n’è uno più alto degli altri che sembra voler chiedere indicazioni.
Elisa lo guarda dritto in faccia, ha l’incedere sicuro di chi sa bene cosa vuole.
«Ehi bella coppia.»
Una difficoltà intrinseca nel trovare le chiavi di casa, non sono mai nel posto dove Stefano crede che siano.
Ha la testa infilata dentro lo zaino, lo maltratta, le chiavi della bici, le chiavi della cantina, pennarelli, tabacco e gomme da masticare.

«Ehi bella coppia.»

Quello alto non ha il giubbotto, indossa solo una felpa scura. Si ferma a un metro da loro, sembra gentile.
Li osserva per qualche minuto, nessuno sa cosa dire. Stefano alza la testa, Elisa lo strattona per la manica. Lui alza la testa e l’altro lo guarda fisso negli occhi. Con una mossa rapida afferra lo zaino che cade. Sull’asfalto si rovescia un universo di cose inutili e utili.
In un attimo Stefano è al muro, il coltello alla gola.
«Cercavi questo? Ti ho fottuto.»
Elisa gratta dietro l’orecchio con l’indice della mano destra, si scortica viva. È muta, paralizzata, tranne che per quel dito che gratta e gratta e sembra voler arrivare al cervello. Vorrebbe dirgli cosa fai, quel coltello è per la mela. Invece sta zitta e gratta.
Elisa non fa in tempo a girare lo sguardo, quattro braccia la stringono da dietro.

Pensa il gioco della paura finisce stasera, pensa non ricordo come ho smesso di giocare a nascondino.

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