Iancura, biancore omerico, quiete marina – Intervista a Paolo Casuscelli

Il primo libro che ho letto quest’estate, in ferie, è stato Iancura Brevi racconti dall’isola di Salina scritto da Paolo Casuscelli anni fa e ripubblicato da Mucchi Editore quest’anno in un’edizione ampliata. Mi trovavo a Pola e non tornavo in Sicilia da mesi e mesi. Rivedere il mare dopo mesi passati a Milano sotto la calura estiva era stato magico. Però il mare della mia Sicilia è il mio mare, anche se sono del centro e per arrivare al mare ci vogliono quaranta/sessanta minuti. Nutro sempre una certa mancanza a tratti inspiegabili dato che ho deciso di vivere fuori, quel nostos di cui parla Omero. Sapevo che Iancura sarebbe stata la lettura perfetta prima di tornare in una terra che amo e che odio, come nelle migliori storie d’amore. Grazie mille a Paolo Casuscelli per avere risposto alle mie domande curiose e grazie soprattutto ad Amalia Micali che è un’addetta stampa fantastica.

Come le è venuta l’idea di intitolare il suo libro Iancura?
Questo titolo mi è piaciuto così tanto che non riesco a immaginarne un altro. Avrebbero potuto dirmi: «hai scelto un nome dialettale, incomprensibile ai più, cambialo». Per fortuna, nessuno me lo ha mai chiesto. Tra i racconti, rievoco il significato di questo termine. “Iancura” è una parola semplice, gergale, usata dalla gente di mare delle Eolie: tradotta, risuonerebbe “biancore”. Indica una particolare situazione metereologica, di mare calmissimo, che provoca un biancore diffuso, incantevole. La calma del mare si trasmette, a chi l’accoglie, come una sospensione del fluire del tempo, una strana quiete e una visione di trasparenze. Si crea una diffusa nebulosità, ma tutta la bellezza delle Eolie nella iancura traspare, si riflette tra cielo e mare e, in lontananza, nei contorni sfumati delle Isole. Ho scritto che è il sorriso di un dio, una materna benedizione che tutto avvolge. Potevo trovare un titolo più bello? Forse è anche un po’ pretenzioso, altro che dimesso. Chi pensa al bianco del mare e non sa che cosa essa sia, immagina la spuma delle onde che si frangono. Invece è l’opposto, quiete marina. D’altro canto, il rapporto tra biancore e mare calmo è evocato già in Omero: galéne. Galene è anche, fra i miti esiodei, la divinità del mare calmo, una delle Nereidi. L’ho incontrata su una barchetta, mentre pescavo: una splendida teofania. Ci gioco nel capitolo su Panarea.

Perché – tra le sedi disponibili al Provveditorato, quando doveva prendere la cattedra – ha scelto proprio Salina?
Conoscevo già bene Salina, perché, a diciotto anni, una fidanzatina aveva casa lì (suo padre, intendo). La prima sera in cui sbarcai sull’isola mi portò a fare una passeggiata che ci condusse alla fine di un molo, un luogo reso ancora più buio da un salice, i cui rami occupavano, dall’alto, parte della stradina. Da lì, in quella zona niente affatto illuminata, guardando in giù, mi fece vedere, nel mare, una moltitudine di lucine, intermittenti, nella totale oscurità. Una sorta di luogo magico. Era il plancton che, in serate di particolari condizioni marine, generava una fosforescenza sorprendente. L’effetto aveva tutto un sapore misterioso e bello. Ecco, scelsi Salina al Provveditorato, perché pensai a questo. Poi, molto prosaicamente, per un pescatore subacqueo, le Eolie erano e sono ancora un’attrazione. Una sede “disagiata”? Per me era il biglietto d’ingresso in paradiso, terrestre, marino, ma era già sufficiente.

Salina fa parte delle Eolie, isole che sono a loro volta appartenenti “geograficamente” a un’isola. Eppure, c’è differenza – anche per me che provengo dal centro Sicilia – tra vivere in Sicilia e vivere alle Eolie.
Della vita nell’entroterra siciliano non ho alcuna esperienza diretta, non ho altro che immagini letterarie, quelle che spesso travisiamo in stereotipi. Ho tre immagini, invece, e immaginari, concretamente esperiti, della Sicilia, dalla Sicilia: la visione del mare aperto, che sconfina all’orizzonte, senza limiti, e sospinge verso quella dimensione metafisica che è l’Attesa; quella dello Stretto di Messina, in cui l’immagine del mare è particolarissima (e per questo intorno a essa si conforma una molteplicità di miti): lo guardi e hai davanti la Calabria, riconosci la tua prospettiva sul mare in quanto vedi un’altra terra, che originariamente era unita da un istmo. Vedi doppio. E il “doppio”, che entra in molti miti locali, è un altro tema metafisico, come ha spiegato René Girard. E poi conosco l’immagine del mare delle Eolie, l’arcipelago delle cosiddette “sette sorelle”. Ecco, in mare aperto, da un’isola, ne vedi altre tutte intorno e questo dà, nella lontananza dalla terra ferma, nella dismisura dell’aperto, contemporaneamente, un senso di conforto, di vicinanza, di sorellanza. Forse è anche questo il motivo inconscio per cui i turisti di tutto il mondo bramano le Eolie: il rischio del mare aperto confortato dalla prossimità, nella bellezza.

Nel suo libro scrive: «La natura, che avevo sempre disprezzato, cominciava a imporsi nella sua reale presenza e a risucchiarmi nel suo grembo». Come si è evoluto quindi il suo rapporto con la natura?
“Disprezzo” è una parola troppo forte, avrei dovuto dire “disinteresse”. La mia vita a Salina ha segnato, più che un’evoluzione nel rapporto con la Natura, una rivoluzione. C’è un prima e un dopo Salina: prima, ero tutto compreso in una dimensione intellettuale dell’esistenza, gli studi filosofici giovanili avvolgono, si vive nel pensiero, intellettualisticamente: o almeno, così era per me. Per esempio, una Fenomenologia dello Spirito è lontanissima da ogni inclinazione ecologista. Da studente universitario, seguivo le lezioni di un filosofo, Cesare Valenti, che teorizzava “l’indifferenza della Natura”, nella sua “frontalità”, e poneva l’interesse filosofico reale in quella dimensione “laterale” dell’esistenza che è il sociale. Ma devo dire che, anche quando ero bambino e mio padre tentava di coinvolgermi nella contemplazione delle bellezze naturali, il panorama, per esempio, io vedevo giostre, go-kart, velocità, ebbrezze meccaniche spericolate. Del naturale, da ragazzino, non apprezzavo altro che la bellezza del femminile, quella sì. Ma, quando vivi su un’isola, alle Eolie, la Natura ti risucchia, la tua sensibilità cambia, la dimensione del pensiero e il suo linguaggio se ne stanno nel sottofondo, sei troppo impegnato dal suo assorbimento.

Oltre che insegnante, è anche pescatore subacqueo. Com’è stato, allora, il contatto con il mare?
Ovviamente, per me, pescatore subacqueo, il rapporto con la natura eoliana è stato segnato, soprattutto, dalla simbiosi con il mare. Per otto anni, in ogni stagione, almeno tre volte alla settimana, dall’uscita di scuola al tramonto, mi sono immerso nel mare delle Isole, a Salina, ma anche a Panarea e a Lipari. Quanto tempo trascorso sott’acqua… Pescavo in apnea, senza mezzucci, a trenta metri. Così, la predazione aveva una giustificazione etica, per me: certamente, per un animalista, no. Rischi la vita, se sbagli qualcosa a trenta metri: basta un malessere, un impiglio invisibile come una lenza, una sincope, da soli, e si è spacciati. Chi compra il pesce o la fettina di carne o schiaccia la zanzara che gli ronza intorno, non aveva da pormi questioni di principio. Ci vuole un compagno che ti segua dalla superficie, sott’acqua, lo raccomando sempre ai ragazzi, però io andavo in mare solo. Anche perché, le poche volte che ho portato con me qualcuno, invece di pescare, mi ritrovavo a seguirlo in ansia ad ogni sua discesa.
Ma nella pesca in apnea, insieme all’atto predatorio, si compie, più o meno consapevolmente, un rituale rigenerativo, come un battesimo pagano: entri in uno spazio sacrale, il mare, nettamente separato dallo spazio profano, la terra e l’aria. Non solo: muoversi sott’acqua senza respirare è, sul piano dell’inconscio, ma per nulla nascosto, un ritorno al ventre materno, alla bella solitudine del liquido amniotico, nel grembo del grembo dell’universo. È un’esperienza interiore, ma intensamente esperibile attraverso i sensi.

Direbbe ai nostri lettori un aspetto positivo e uno negativo della vita a Salina?
La mia vita a Salina? Ti ritrovi in quello che è riconosciuto come uno tra i luoghi più belli del mondo, hai questa fortuna, il mare eoliano è quella meraviglia che tutti sanno, c’è un parco naturale con una macchia mediterranea che non ha uguali, hai una barchetta nel porto: che altro vuoi? E tuttavia bisogna dire, l’ho scritto, che non c’è luogo che sia un paradiso terrestre: lo abbiamo perso all’origine, se mai lo abbiamo avuto. I luoghi incidono, ma ognuno si porta appresso la propria condizione esistenziale, il suo personale modo di “essere nel mondo”, le proprie attitudini relazionali e soprattutto la sua solitudine, con cui sei portato ancor più a fare i conti. L’isola, d’inverno, non ti consente di bluffare con le distrazioni della vita metropolitana.
Di negativo, per me, ma non per gli esercenti? Il sovraffollamento dei turisti ad agosto: occupano troppo spazio. E molti non capiscono che l’Isola, fuori stagione, è molto più attraente. Consideri che anche a novembre si può fare il bagno, l’acqua non si è ancora del tutto raffreddata, i profumi dei giardini e dei boschi sono ancora più inebrianti. E costerebbero di meno alberghi e ristoranti.

Quali letture l’hanno segnata durante la sua permanenza lì?
Quando mi trasferii a Salina, portai con me una trentina di libri, una miseria di biblioteca, l’essenziale. Ma per un anno non ne toccai neanche uno. Stavano lì per sicurezza, in caso di una crisi di astinenza, come una stecca di sigarette sta nel cassetto di uno che abbia smesso di fumare, ma non la guarda neppure. Avevo l’esigenza, dovuta a motivi che non dico, di tagliare con qualunque mediazione letteraria e intellettuale, cosa di fatto impossibile. Ma non avrei avuto neanche il tempo per leggere: la mattina a scuola, dopo, esci in gommone a pescare fino a sera, torni distrutto dalla stanchezza e appena vai a letto crolli, nel sonno radicale dei semplici, che giunge con la fatica fisica, “il travaglio del mare”, questo lo racconto. Ma poi, poi si cede, i libri ti chiamano, ti interpellano, ti prendono per l’orecchio. Ho letto molta poesia, soprattutto Rilke, e non so quante volte le Elegie duinesi, perché il tema dell’Angelo è il tema dell’interiorità, ciò che Antonio Prete chiamerebbe una “grammatica dell’anima”. E poi ho seguito ogni traduzione dell’Adelphi di René Girard, l’antropologo famoso che mi interessava già prima che arrivassi sull’isola.
Ma certo non leggevo letteratura di mare. Non passa neanche per la mente a chi il mare lo vive quotidianamente. Questo sentivo: oggi, forse perché la frequentazione dei fondali si va diradando e scema, l’età non la favorisce, invece mi interessa. Mi interessano, per esempio, le esperienze del mio nuovo amico Simone Perotti, che il mare lo vive e lo racconta, con grande umanità. Ha scritto un incantevole Atlante delle isole del Mediterraneo, per Bompiani.

Adesso lei abita ancora a Salina? Se no, ci torna spesso? E cosa le manca del luogo?
No, vivo a Messina, con una moglie che insegna all’Università: se non fosse per il suo lavoro, vivremmo volentieri sull’Isola. Si va d’estate, quando si può, come i turisti, la qual cosa mi procura un certo disagio, perché mi sento ancora isolano. Appena sbarco sull’Isola mi sento meglio anche fisicamente: la somatizzo in salute. Che cosa mi manca? La notte del cielo stellato, che lì ha un’ampiezza e una luminosità che in città non vedi. Mi manca quel mare. Uscire per strada e incontrare persone meno nevrotiche dei cittadini, con cui potere parlare di cose semplici, non sentirmi obbligato a dialoghi necessariamente intelligenti, poter tacere senza per questo offendere, e tante piccole libertà sociali che messe insieme ne fanno una significativa. Quando, tornando dalla pesca, attraversavo il paese scalzo, nessuno ci faceva caso, era normale.

Essendo questa un’edizione aggiornata e ampliata, lei parla di alunni che oramai sono diventati adulti. Ha mantenuto un rapporto con loro? Si dice sempre che sono gli alunni a dover imparare dagli insegnanti, ma non la vedo proprio così. Cos’ha imparato, lei, dai suoi alunni?
Certo che gli alunni di Salina sono ormai adulti, ho insegnato lì dall’87 al ’95. Ancora li incontro, almeno ogni estate, anche se spesso sono indaffarati: lì, per molti, il lavoro si concentra in due mesi, alberghi, ristoranti, noleggi, giri dell’isola sui barconi, officine, pesca professionale. Vede, in una scuola cittadina, finite le lezioni, il rapporto con gli alunni, in genere, si interrompe, ci si rivede il giorno dopo. Ma a Salina non era così: ci si rivedeva per strada, al campetto, dovunque. Nei piccoli centri è così. Ero sempre attorniato da alunni ed ex alunni. Quando passavo dalla Piazza, era inevitabile. Non ero solo un professore, lì, ero parte di una comunità, e un pescatore come altri, quasi una parte del paesaggio. Per stare un po’ solo, mi toccava una circonvallazione. Questa estate, alla presentazione di Iancura tenuta a Salina, è intervenuto il sindaco di Santa Marina, che, ovviamente, è stato mio alunno. Ha ricordato un episodio divertente, che avevo dimenticato. Diceva che gli avevo fatto l’unica nota ricevuta in tutta la sua carriera scolastica. “Strano”, pensai, “non scrivo mai note”. Gli chiesi come mai, perché. Avevo scritto una nota, a lui e a tutti i suoi compagni, diario per diario, non certo sul registro, poiché non avevano imparato a memoria alcuni versi dell’Ulisse dantesco assegnati. Solo che la sera prima erano stati tutti con me, dal pomeriggio fino a tardi, in una passeggiata sulla Fossa delle Felci, chilometri e chilometri a piedi, poveri ragazzi. “E quando dovevamo studiarli?”, mi chiese il sindaco ridendo. “Di notte”, gli risposi, ridendo.
Non sono uno di quegli insegnanti che “imparano” dagli alunni: ne parlo nel mio prossimo libro, Senza cuore. Ma, sul piano delle relazioni umane, una cosa l’ho imparata, da molti di loro, dagli ex alunni: che la gratitudine dà un senso concreto a ogni lavoro coscienzioso, anche a chi, come me, non lo ha mai idealizzato. Non è poco.

Grazie mille!

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