La misura imperfetta del tempo, tre generazioni di donne – Intervista a Monica Coppola

Tre donne, tre generazioni, una nonna, una madre, una figlia: sono Zita, Lara e Mia, le protagoniste de La misura imperfetta del tempo, ultimo libro di Monica Coppola edito da Las Vegas Edizioni. È un romanzo intimo in cui le tre protagoniste si espongono senza filtri. In questo romanzo ci sono silenzi (molti), parole (poche), liti (un paio, ma forti), molto affetto e l’amore in tutte le sue forme (familiare, amichevole, passionale…). Le tre generazioni appaiono scombinate fra di loro perché non è detto che la più anziana debba essere per forza la più razionale e non è detto che la più giovane debba sentirsi leggera, piena di sogni, con una vita davanti da vivere. Ci sono alcuni segreti in questa storia che pesano come un macigno per ognuna delle tre donne che, invece di essere impulsive, si tengono tutto dentro e poi scoppiano come una bomba a orologeria. Ci si affeziona a tutte e tre, indipendentemente dall’età. Per conoscerle un po’ di più, ho fatto due chiacchiere con l’autrice.

Ciao Monica! Intanto grazie per l’opportunità. Com’è nata l’idea di questo romanzo? E quanto tempo ci hai messo a svilupparla?
Ciao Cristina! Grazie a te per questo spazio. Allora ti svelo qualche curiosità dal backstage della misura imperfetta. Sono cresciuta nella periferia di Torino: quando ero ragazza spesso si comunicava a “colpi di spray” con scritte sui muri che potevano cambiare dimensione e tono a seconda del messaggio che si voleva veicolare. Magari si iniziava con un semplice e disperato “Anna TI AMO” sotto al portone della prescelta ma, se la prescelta non era d’accordo, qualche giorno dopo la dichiarazione d’amore sfociava nell’odio dell’orgoglio ferito e allora la povera Anna diventava stronza o molto peggio… I graffiti sono stati la prima scintilla di questa storia: ho immaginato la storia che poteva esserci oltre quei messaggi, dietro quel portone, dentro la vita della ragazza che li riceveva. Mia, Lara e Zita sono nate così, quasi tre anni dopo questa prima immagine.

Perché hai deciso di intitolarlo La misura imperfetta del tempo?
Il titolo è stato un lavoro di squadra con Las Vegas e con Davide Bacchilega, il direttore creativo. In realtà questo romanzo aveva già attraversato altri due battesimi precedenti Fuori tempo in bozza e Sottovuoto nella versione inviata alla casa editrice. Il primo sembrava già sentito (nella collana Las Vegas c’era già anche Fuori Stagione di Federico Fascetti, tra l’altro bellissimo libro) e il secondo, nonostante le mie solidissime argomentazioni, continuava a sembrare più adatto per i peperoni sott’olio…
Ho proposto a Davide una serie di idee e stimoli e lui, da buon copywriter, ha sfornato una serie di titoli tra cui spuntava La misura imperfetta dell’amore. Avere la parola “amore” nel titolo mi provocava l’orticaria senza contare che Mia, come minimo, sarebbe saltata fuori dalle pagine come l’omino nel frullatore ( e per capire chi è dovete leggere il libro).
Così abbiamo fatto un brainstorming via mail e siamo arrivati a La misura imperfetta del tempo. E abbiamo capito che avevamo il titolo giusto. E devo dirti che ogni volta che lo leggo penso che mi piace moltissimo!

Zita, Lara e Mia: tre protagoniste femminili, diverse, appartenenti a tre generazioni. C’è una sorta di sovversione dei ruoli, secondo me, in quanto tra tutte, Zita – che è la più anziana – sembra quella più priva di pregiudizi e, soprattutto, più moderna. Cosa ne pensi?
È davvero così. Ciascuna delle tre protagoniste a suo modo sfugge dall’età anagrafica, dall’etichetta sociale, dai ruoli predefiniti. Mia, la più giovane e ansiosa, a tratti sembra “vecchia” ma è anche “materna” con sua nonna Zita. Lara che è madre, di materno non ha nulla ma indossa con disinvoltura quella spensieratezza che sua figlia non ha. Zita è la più istintiva e immediata, sa che di tempo non ne ha più molto e allora vuole fare quello che le va ed è intenzionata a godersi la sua “seconda primavera” senza preoccuparsi di quello che pensano gli altri. La rottura degli schemi di ruolo tradizionali è il motivo che ha reso questo romanzo perfetto per Las Vegas edizioni!

Zita, Lara e Mia hanno in comune il dolore, visto da tre punti di vista differenti. Lo elaborano attraverso il silenzio e un paio di litigate. Scrivendo, con chi sei entrata più in empatia?
Ho indossato, amato e odiato, i panni di tutte e tre. Ho sentito sulla mia pelle, i crampi di Mia ogni volta che si sentiva bloccata, svuotata, sfinita ancora prima di iniziare qualunque battaglia Ho percepito la solitudine di Lara, la fatica interminabile delle sue corse contro il tempo e su quel tapis roulant che non la portava da nessuna parte. Ho accompagnato Zita al cimitero, le ho tenuto la mano mentre chiacchierava con il suo Tore e poi per non farci prendere dalla malinconia l’ho fatta salire su un bus Gran Turismo in cui c’era anche Santo…

Ci sono anche dei personaggi maschili che hanno un ruolo “secondario”, ma che sono molto funzionali alla storia, soprattutto Santo grazie al quale Zita elabora la perdita del marito. Come si può, secondo te, riprendere in mano la propria vita dopo aver perso una persona amata?
Hai toccato un punto centrale del romanzo. Il cuore di questa storia è anche il modo in cui ciascuna delle tre reagisce a un dolore così destabilizzante come il lutto.
Nella nostra cultura la morte è spesso “innominabile” ed è difficile dire come sia possibile sopravvivere ad un evento del genere. C’è un dialogo nel romanzo tra Mia e Andrea, proprio sulla morte.  Sullo squarcio che senti dentro quando arriva di colpo, sul come cambia la tua vita e tu sei lì, attonita, che non ci puoi credere, che vuoi solo tornare indietro e riavere la vita di prima, la persona di prima. Ma non si può. E allora c’è chi, alla morte  non riesce nemmeno a pensarci, e allora scappa via, finge di non aver vissuto niente. Riprende la sua vita, stipandola ancora di più di azioni, una sull’altra; non si ferma mai per non inciampare nel ricordo, esattamente come fa Lara. C’è chi invece a quel ricordo si ancora, nel senso letterale del termine, lo amplifica, ne fa il perno centrale del suo presente e si rifiuta di andare avanti, come Mia. E poi c’è Zita che, a sorpresa, attraversa varie sfumature di dolore, fino ad arrivare ad una forma più lieve simile alla nostalgia che non ti distrugge l’anima ma anzi, qualche volta, addirittura ti fa sorridere, perché ti fa rivivere dei momenti preziosi che ti apparterranno per sempre, anche se la persona con cui li hai condivisi non c’è più. Forse l’unico modo è davvero “provare a cercare l’uscita, anche quando si è intrappolati in un rettangolo di cemento”.

Qual è la cosa che ami della scrittura e qual è la cosa che invece proprio non sopporti?
Vivo con la scrittura un’infatuazione permanente. Amo scrivere. Tutte le volte che lo faccio vado “altrove” e in quell’altrove mi sento “a casa”: la scrittura è la mia “misura perfetta” del tempo. Il momento più intenso è forse quando un’idea prende forma, quando sei pervasa dal desiderio di creare, di dare un’identità a quei personaggi che ti frullano in testa e ancora non sai chi sono. La prima stesura è un traguardo emozionante anche perché potresti non arrivarci mai…
Cosa non sopporto? Mannaggia, la caccia al refuso!

Stai lavorando a un nuovo romanzo?
Sto lavorando ad alcuni racconti: uno è appena uscito sul numero 3 di Crack rivista, Tre giorni, un altro è in valutazione. E sì, ho iniziato un nuovo romanzo…

Grazie mille!

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato.