Suggestioni: Calcio e Tragedia

Viene qui ospitato un articolo di Gerardo Iandoli su calcio e tragedia. La mia risposta è questa

Intendiamoci: io non seguo il calcio. Per una questione molto semplice, a dire il vero: mi annoia. Non ho dei pregiudizi nei confronti di questo sport, semplicemente i miei interessi si rivolgono verso altre forme di attività agonistica. I gusti son gusti, diremmo barbarizzando una famosa massima latina. In realtà, ho intenzione di parlare di un elemento parallelo e ciò nonostante essenziale dell’universo calcistico: il tifo.

Da sempre, quest’ultimo elemento viene considerato il dodicesimo giocatore in campo. Il giocare in casa è un fattore preso in grande considerazione da chi deve decidere le quote per le partite, quindi si può dire che il tifo, in questo caso, assume un vero e proprio valore matematico. Alla luce di ciò, non si può negare la sua importanza. Il tifo, è sotto gli occhi di tutti, è protagonista ormai da molti anni di atti di violenza che in più occasioni hanno permesso che ci scappasse il morto. Per molto tempo ho sentito dire che questi episodi non sono direttamente collegabili al calcio, ma derivano dall’inciviltà di determinate aree delle tifoserie. Il problema, quindi, dovrebbe essere fuori dal sistema calcistico. Di seguito cercherò di dimostrare che, in realtà, numerose colpe derivano dal modo di concepire lo sport da parte della nostra società.

Che cos’è il calcio, da un punto di vista astratto? Una lotta tra due contendenti. Questi contendenti, però, sono unità complesse poiché sono formati da undici elementi. Ora, in ogni lotta è innegabile che ci sia una certa quantità di dolore potenziale. Nel calcio questa potenzialità non si trasforma in realtà per un semplice motivo: il calcio è la rappresentazione di una lotta, non una lotta in sé. Per essere una vera e propria lotta dovrebbe comportare un danneggiamento fisico per il perdente che di fatto non c’è.

Rappresentazione, questa parola mi rievoca un altro mondo, quello del teatro. Il teatro, ben più complesso da un punto di vista artistico, è da sempre uno dei modi più amati per rappresentare la realtà.

Ritorniamo al mondo del calcio: una cosa che mi è stata sempre ripetuta è che il calcio fa bene perché permette di sfogare quelle energie irrazionali che appartengono ad ogni uomo. Anche questo, pensandoci, mi ricorda qualcosa: il concetto di catarsi nella Poetica di Aristotele. In questo trattato, il concetto di catarsi sta ad indicare la separazione da determinati stati d’animo da parte dello spettatore di una tragedia, separazione che viene resa possibile dalla visione di una particolare scena capace di suscitare tali emozioni. Un modo, in sostanza, di scaricare le forze irrazionali presenti in tutti noi. Un modo sano di scaricarle, perché altrimenti ci si potrebbe lasciare andare ad atti di violenza capaci di destabilizzare la quiete pubblica ( e la dimensione pubblica era particolarmente cara agli uomini della polis greca). Da non dimenticare che la Poetica parla di tragedia, particolare forma artistica teatrale.

Il quadro inizia a prendere forma: il calcio è una rappresentazione di una lotta che produce un effetto capace di scaricare elementi irrazionali, elementi che appartengono ad ognuno di noi. Abbiamo parlato di teatro in generale e poi nello specifico di tragedia. Il calcio e la tragedia in comune hanno il fatto di essere due forme di spettacolo. Parliamo di tragedia: la tragedia mette in mostra un uomo né di particolari virtù, né particolarmente vizioso, che subisce inevitabilmente il fato. Quanti di noi possono rispecchiarsi in ciò? Appunto, questo avviene allo spettatore della tragedia. Si immedesima nel protagonista, uomo quanto lui.

Eppure, secondo quanto afferma Gianluca Garelli, lo spettatore, anche se si immedesima nel protagonista, riesce a mantenere un certo distacco perché non assiste alla sua di colpa, bensì alla colpa di quel particolare personaggio messo in scena (Carlo Gentili – Gianluca Garelli, Il tragico, Il Mulino, Bologna 2010, p. 91). In sostanza: lo spettatore si sente umano quanto Edipo, ma la colpa di patricida e di incestuoso appartiene esclusivamente a Edipo.

Ma cosa c’entra tutto ciò col calcio? Bene, anche il calcio mette in scena un qualcosa in cui noi tutti possiamo immedesimarci: le piccole lotte quotidiane per poter affermare la propria forza e tenacia. Nel calcio, però, non si crea quel distacco che invece avviene nella tragedia, il perché sta nella nostra carta d’identità. Aprite una qualsiasi carta d’identità della Repubblica Italiana: una delle voci è il luogo di nascita, un’altra è il luogo di residenza. E quante squadre hanno il nome della nostra città natale o della città in cui viviamo? Carta d’identità: cosa si potrebbe pensare di più intimo? Il nome della città è sulla nostra carta d’identità, quel nome è noi. La squadra Avellino rappresenta Avellino città e io, che sono nato in quella città (che è parte della mia identità), sono rappresentato da quella squadra. L’immedesimazione è totale. Da ciò, quindi, il pericolo di eventuali violenze.

Non tutti hanno la capacità di accorgersi che quella rappresentazione è solo una rappresentazione, anche perché il mondo del calcio, in certe aree della popolazione, condiziona determinati ritmi di vita: l’acquisto del giornale per aggiornarsi sulle news calcistiche, organizzarsi per eventuali trasferte, organizzare i festeggiamenti per le vittorie. Addirittura produce certe forme di canti che assumono un valore popolare, ma che diventano parte integrante della cultura di una determinata area. Il calcio, quindi, diventa parte della nostra vita.

Ma che cosa sono le squadre? Sono delle semplici associazioni che il più delle volte non hanno nulla a che fare con la città in cui si trovano: giocatori provenienti da tutte le parti d’Italia o del mondo, proprietari che non hanno nessun legame con la città della loro squadra. Alla fine, l’unico legame col territorio risulta essere lo stadio in cui queste squadre disputano le loro partite in “casa”. Però, se il nome della mia città, parte integrante della mia identità, figura sul gagliardetto di una squadra, io mi immedesimo in essa. A volte, però, l’umiliazione di essa può risultare la mia stessa umiliazione. Per alcuni ciò si trasforma in qualche brontolio contro la televisione, per altri in veri e propri atti vandalici. La partita da che doveva essere momento di sfogo diventa causa di frustrazione per la sconfitta. E non a caso la tifoseria violenta è composta dalla maggior parte da uomini: il senso di virilità persa nella sconfitta è talmente grande da volere riaffermarla di nuovo, attraverso un nuovo atto di forza.

Soluzioni? Certo: per limitare l’identificazione del tifoso con la propria squadra basterebbe sradicare la città dal territorio e mostrarla così com’è: un’associazione sportiva. Così, ogni persona, può decidere di tifare per la squadra che lo soddisfa di più (per bravura, spettacolarità, tecnica, ecc.), non per la squadra che dovrebbe rappresentare attraverso il nome della propria città una parte della propria identità. E questo accade, ora, solo in quei casi dove si decide di tifare per una squadra lontana da noi: ma quanti sono i milanisti che abitano nel Sud Italia? E questo, oggi, non comporta neanche problemi di spostamenti: la tv permette a tutti di godersi la partita dal divano di casa. E per chi vuole vivere l’emozione dello stadio? Bhè, io credo che con il mio consiglio si possa aprire una rosa di opportunità più vasta rispetto ad adesso: oggi un avellinese tende ad andare a vedere la partita dell’Avellino, quanto potrebbe accedere senza troppe difficoltà ad altri stadi: Napoli, Salerno, Benevento, ecc.

 

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