A colpi di tweet: l’intervento del web nella logica del conflitto (II)

L’impatto mediatico del messaggio equivale davvero all’informazione che contiene?

Il web ha estremizzato tutto: i siti di informazione online hanno iniziato a mandare in rete notizie nel momento stesso in cui avvengono, ogni notizia viene riportata prima ancora di aspettare conferme e approfondimenti come per la carta stampata: si scrive l’articoletto con scampoli della stessa in attesa di nuove e poi nelle ore successive lo si amplia o lo si corregge con le informazione ottenute. Questo ha alleggerito la notizia: non c’è più tempo di elaborare un articolo, di contattare la fonte, di aspettare la conferma. Se lo si fa, si viene anticipati da altre testate e si perdono lettori. Nella storia del giornalismo c’è sempre stata una guerra contro il tempo e contro gli altri professionisti, ma il tempo si contava in ore, non in minuti, quindi si potevano ancora curare gli elaborati. Si sa di inviati di guerra che per avere l’esclusiva della notizia bloccavano il telegrafo del fronte per ore, inviando anche la genealogia della Bibbia, pur di far scorrere il tempo e mandare fuori stampa i concorrenti. Dati i tempi dilatati gli articoli erano approfonditi perché, a parità di tempistica, ciò che valeva era la qualità e l’autorevolezza della fonte. Erano i giornalisti capaci di appassionare con la loro prosa i più quotati, quelli che attraverso il loro modo di scrivere riuscivano ad attirare i compratori. Oggi, lavorando sul minuto, poco importa della veridicità e della qualità, anche perché il web permette aggiornamenti continui e quindi anche la correzione di pezzi erronei o mal presentati.

Fruizione e potenza dell’informazione nel web. Quando il web prese vita, questo fenomeno era stato ancora più estremo. La corsa all’oro della notizia come obiettivo fondamentale causò un calo qualitativo. Emblematico il caso sexgate riguardante Clinton, in cui anche il New York Times, il giornale più famoso al mondo, si fece prendere dalla foga e lanciò notizie prive di fondamento. La paura di perdere colpi rispetto alla concorrenza portò anche le testate più autorevoli ad accantonare fondamenti deontologici della professione. Col tempo però il fenomeno si è ridimensionato, ed i principali giornali hanno iniziato a comprendere come il web potesse divenire uno strumento utile all’informazione ma se supportato da un cartaceo, in grado di rendere la notizia al meglio e di offrire al lettore approfondimenti e certezze su ciò che leggeva. Primo fra tutti fu il Washington Post, che adottò la politica di non lanciare la notizia online prima di averne avuto una conferma affidabile, anche a rischio di arrivare dopo gli altri. Così si sono create le redazioni online che affiancano un giornale. Tutte le più grandi testate sono arrivate a capire le possibilità offerte dal web e non a vederlo come un sostituto. Nel frattempo però i più malevoli e i più pessimisti si divertivano a profetizzare la pubblicazione dell’ultima copia del Times – in questo gioco ha preso parte anche l’attuale direttore del suddetto giornale, ipotizzando il 2014 – preoccupati soprattutto dalla nascita di giornalismi alternativi.

Infatti, la democraticità del web ha portato alla possibilità per una notizia d’esser letta da chiunque con conseguente popolarizzazione delle testate online. Nella lotta a ricevere il click in più si è cercato di rendere la notizia basilare e semplice, in modo da poter destare interesse nel laureato come nel quindicenne che ci capita per caso. Questo ha permesso la nascita di un sottobosco di giornalisti non necessariamente di professione. Alcuni, essendo querce o ulivi, sono divenuti immediatamente punto di riferimento per l’informazione online come @Breaking News, nato dalle mani di un hacker di 15 anni che fu il primo a mandare online il video di Bin Laden nel 2007. Altri invece hanno avuto lo stesso effetto delle erbacce senza fusto. Notizia, in questo modo, può anche essere considerato un messaggio di Facebook o un tweet – come quello di Olesya – che senza un preventivo ideale giornalistico permette di renderci partecipi a un evento un corso.

Olesya ha lanciato un messaggio facilmente comprensibile usando solo due paroline, significative però in quel contesto di guerra. Nel corso degli anni si è notato come, da eventi catastrofici e luttuosi, emergano tante piccole fonti alternative tra quelle più attendibili: si pensi al caso emblematico delle Torri Gemelle, in cui le prime immagini arrivarono tutte da cellulari privati. Questo perché in casi di estrema urgenza o violenza soltanto chi si trova sul posto è in grado di dare notizia immediata, o, come nel caso di Olesya, soltanto chi si prende na pallottola alla gola può far capire davvero la drammaticità dell’evento.
Simile all’episodio dell’infermierina ucraina è un altro che risale a qualche anno fa. Durante le contestazioni iraniane del 2009, alla sospetta elezione di Ahmadinejad, la giovane studentessa Neda Agha-Soltan era stata uccisa da un membro della milizia armata. Un video amatoriale che documentava i suoi ultimi istanti di vita divenne ben presto noto al web e la giovane fu da quel giorno «la voce dell’Iran», simbolo di libertà rivendicata.

Un anno dopo, con la Tunisia, la Libia e l’Egitto, il web è entrato ufficialmente nell’arsenale di chi vuole protestare superando quella fase di altoparlante del mondo. Impossibile da controllare totalmente, permette di diffondere tutto ciò che si vuole mostrandolo in tempo reale, questo grazie alla sua struttura assolutamente democratica in cui tutto è potenzialmente fruibile a chiunque. La primavera araba – come sono state rinominate queste rivolte – ha sfruttato il web sia per lanciare al mondo il suo grido per la libertà sia, però, per organizzare i manifestanti in mobilitazioni di massa. È il caso della Tunisia, con le proteste in piazza organizzate via Facebook e altri social network, mentre in Egitto avevano provato a oscurarli ma i giovani avevano risposto con stencil poi diffusi nel web. Tutti ne avevano parlato: la primavera araba era stata definita una «rivoluzione 2.0». I giovani avevano creato la rivolta con le loro armi, i loro comuni mezzi ma che sono anche i più potenti: tutti ammettono l’impossibilità reale di controllare e comandare un’entità gigantesca come il world wide web, che permette di essere usato come un gigantesco amplificatore nonostante si possano anche trovare banalità e inutilità (ma quelle si trovano ovunque).

In fondo, non aveva avuto una brutta pensata il Primo Ministro egiziano quando tentò di oscurare i principali social network: nel ventunesimo secolo sono loro che vanno repressi se si vuole zittire davvero la cittadinanza; tant’è che la risposta fu furente e massiccia. Limitare la libertà d’espressione non significa più imporre una televisione succube del potere, ma impedire di accedere a quei siti che permettono una facile comunicazione col mondo. L’assoluta democraticità del web e la possibilità quindi di inserire qualunque tipo di file e renderlo accessibile la si intese qualche anno prima, quando il mondo venne a conoscenza di Osama Bin Laden tramite i suoi video: in quei filmini tramessi da una grotta sperduta tra le montagne afgane, si vedeva il più pericoloso terrorista al mondo intento a lanciare minacce al mondo occidentale. Come dice Mimmo Càndito, inviato di guerra con molta esperienza in Afghanistan, parevano dei messaggi provenienti da un’altra epoca, da un medioevo a noi sconosciuto. Anche questo permise il web: di poter vedere un terrorista sanguinario, chiuso nel suo mondo di secoli fa, e sentirlo estremamente vicino a noi tramite un pc e una connessione internet. L’ ironia giornalistica fu assoluta quando, nel 2007, il primo a intercettare nel web un suo video, fu un ragazzo di 15 anni olandese, Marco Van Poppel, che si divertiva tramite Twitter a fare il giornalista e a mandare le notizie prima delle testate più famose. Prima di una grande testata un adolescente aveva intercettato una notizia di risonanza mondiale. Ci riuscirà spessissimo.

Utilizzo da parte dei giornali del web. I media hanno vinto la loro sfida contro il web e contro i Van Poppel quando sono riusciti a comprendere e a sfruttare l’efficacia di tutti i siti in cui l’informazione viene fatta a livello amatoriale. Sono state create rubriche riguardanti le particolarità del web, vengono scritti articoli che commentano i tweet dei personaggi famosi o le loro foto postate sui social network. Molti video di YouTube vengono ripresi dai giornali e caricati sui propri siti: il web non è solo un mezzo per comunicare, è anche fonte di notizie potenzialmente interessanti, e i giornali si immergono nella ricerca di esse come qualunque altro utente. In fondo, c’era da aspettarselo che un contenitore così enorme di informazione offrisse moltissimo materiale grezzo in grado di far notizia. Ma la cosa più affascinante e che ha proclamato la vittoria dei giornali è un’altra: oggi ogni testata offre sul proprio sito la possibilità di commentare i singoli articoli, a volte creando veri e propri forum in cui i lettori possono dire la loro. Se inizialmente il lettore voleva unicamente soddisfare la voglia di sapere cosa accadesse nel mondo, ora cerca di avvicinarsi maggiormente agli eventi di cui legge affiancandosi innanzitutto a chi ne scrive. In questo modo i giornali online hanno incanalato la voglia di giornalismo amatoriale che è emersa prepotentemente col web. Si chiede al lettore di commentare la notizia, di dire la sua, di poter criticare ciò che legge e ciò che scrivono altri. Ciò che si fa con gli stati di Facebook o i tweet, ora un giornale permette di farlo direttamente sulla notizia, lasciando aperto il confronto tra persone con opinioni più o meno simili.

Questa voglia di potersi confrontare col giornale per poter esprimere il proprio parere esiste sin dagli albori: da sempre si inviano lettere personali ai giornali in merito a notizie riportate. Tuttavia, in passato, si aveva nessuna certezza che fosse letta, presa in considerazione. Anche con le e-mail il rischio era identico: si trattava di un rapporto privato tra te e qualcuno della redazione in cui rischiavi spessissimo di non ricever risposta. E difficilmente si inviava una lettera per poter esprimere unicamente la propria opinione, quello lo si faceva al bar o con gli amici. Il modus di Internet, invece, è differente perché non si scrive a qualcuno in particolare ma a tutti i lettori, così che la propria opinione abbia risonanza. Più la notizia è importante più i commenti vengono letti da altri che rispondono e il bisogno di farsi sentire, il desiderio di avere la propria voce forte come quella di un Michele Serra, per un attimo viene soddisfatto.
Per i giornali questo è stato un passo decisivo perché finalmente è stata colmata quella distanza con il lettore che rimaneva ineliminabile col cartaceo. Fare del sito di un giornale una semplice copia online del suo cartaceo si è rivelato un fallimento, una cosa lontana e immodificabile che non potrà mai essere sopportata da gente che vive in un ambiente open-source.

Olesya ne è la riprova, l’ultimo esempio di come il giornalismo sia entrato e abbia trovato spazio nel mondo di Internet. L’informazione, quella con la I maiuscola che a volte pare cadere dall’alto per mano di una penna autorevole o per bocca di un presentatore dalla faccia nota, non è più possibile. Internet ci rende tutti vicini, ci pone nella condizione di poter sapere cosa accade nel più piccolo degli stati africani in questo istante con una navigazione approfondita, e non ha più senso credere che soltanto chi lo fa per professione sia in grado di informare. Anche una semplice frase grammaticalmente elementare può essere notizia e appassionare. Lottare per mantenere il monopolio della distribuzione di notizie è stata, come si è visto, una sconfitta. Prima si trattava di una questione pratica: quando i giornali nacquero la gente voleva conoscere, ma era più difficile colmare le lunghe distanze, non si comunicava con un altro stato se non impiegando settimane. Si affidava così il compito a specialisti pagati per viaggiare e far sapere cosa accadesse al di fuori della propria città e a volte anche all’interno della stessa, ma ora non è più così.
Oggi, quello che il giornalismo sta facendo – o dovrebbe fare – è tornare a fare ciò che ai non professionisti è impossibile: rendere chiara anche la notizia più complicata, informare in maniera seria, puntuale e non faziosa la gente, fare inchiesta su quegli argomenti che toccano la comunità, su quei fatti che lasciano interrogativi. Tutto ciò senza arrogarsi inesistenti autorità a rispondere a priori a ciò che la gente chiede ma a dare tutte le informazioni possibili, permettendo a chi chiude il sito di sapere di più di quando lo ha aperto, di avere una visione più chiara di ciò che lo interessava. È fondamentale infine il lavoro di cronaca, di rendere pubblici i fatti, di capire quali dei migliaia di input che si hanno ogni istante sono degni d’esser citati: ed è qui che il sito interviene essendo un contenitore molto ampio, in cui si può trovare dalla notizia frivola all’evento luttuoso. Il giorno dopo poi si potrà comprare il giornale e capire davvero di più, grazie ad un lavoro di indagine e ricerca, sulle dieci notizie importanti del giorno prima, della settimana, o di un’inchiesta che va avanti da mesi. In America ha avuto fortuna l’inchiesta del giovane giornalista sulle case di riposo tramite un lavoro sia informatico che di indagine sul campo. Bell’esempio italiano è quello dell’inchiesta de l’Espresso sui centri d’accoglienza, ancora oggi consultabile online.

Il tweet di Olesya ha sconvolto il web e ha meritato la prima pagina dei giornali perché è stata una testimonianza diretta di ciò che stava accadendo in quei giorni a Kiev. Lei ha reso brutalmente vere tutte le parole che descrivevano una vera e propria guerra civile ma che arrivavano deboli, poco incisive. Ora le rivolte di Kiev si sono concluse, le tensioni si sono spostate in Crimea dove si parla di focolaio per una terza guerra mondiale. Quello che si chiede ai giornalisti è di continuare ad informare e di poter far comprendere, capire cosa sta accadendo, dare tutti gli strumenti per capire cosa significa Olesya, cosa significa il colpo ricevuto al collo.
Càndito, nel suo libro, ha scritto della Prima guerra del Golfo e del fatto che ciò che riportava non era considerabile giornalismo poiché non si avevano notizie dirette: tutto ciò che avevano in mano erano i bollettini ufficiali dell’esercito statunitense. Non poterono indagare e dare una ricostruzione dei fatti che potesse aiutare a comprendere almeno in parte quel conflitto anche se era quello il loro ruolo, il motivo per cui fossero li. Oggi, tredici anni dopo, sono sicuro che tutto questo è possibile: la copertura mediatica è totale grazie alla voce dei non addetti ai lavori. Ma ai giornalisti rimane il compito fondamentale di indagare, far luce e poterci così far comprendere, e non soltanto sapere.

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