A scuola di libertà

Un testo da avere sempre a portata di mano durante il proprio percorso scolastico e/o professionale è “A scuola di libertà. Formazione e pensiero autonomo” di Luigina Mortari (ed. Raffaello Cortina, 2008).

Si ha spesso l’impressione, per lo meno in Italia, che le parole vengano progressivamente svuotate di senso e così il linguaggio delira, diventa sterile o peggio una ragnatela di significati che intrappolano e smentiscono la realtà, anzi che finiscono per rivestirla ed intrappolare le menti e le azioni. Se il valore della parola è in pericolo, tanto più è il caso di interrogarsi sugli effetti fuorvianti e devastanti dei discorsi che combinano significati e significanti ed i riverberi sulla identità di chi li impara. La parola viva, cioè rielaborata e potente nella sua portata trasformativa, è una possibilità mantenuta aperta da coscienza e pensiero. E coscienza e pensiero sono nutriti dalle idee e dalla conoscenza. In paesi cosiddetti “civilizzati”, la conoscenza e la costruzione dei metodi e delle materie del pensiero passano per i modelli proposti dalle istituzioni che curano la crescita degli individui: dalla prima forma di socializzazione familiare, alla scolastica elementare, fino, all’università, senza considerare gli input che ci vengono dai media e dalle nuove tecnologie.

L’università è una grande conquista e, ormai, pare che l’accesso alle carriere professionali passi di lì.  L’università, però, sembra lasciare spazio, più che altro, a tecnicismi e a linguaggi, scientifici o umanistici che siano, non più in grado di dialogare tra loro e, peggio, non più in grado di comunicare ad un pubblico più esteso. Ecco la frammentazione che nasce dall’abdicare totalmente ad una lingua sorgiva e materna che elimina la possibilità di circolazione, trasmissione, rielaborazione dei i significati sottesi agli enunciati o ai ragionamenti. Semmai le parole sono manipolate per creare slogan, formule orientate al marketing, così la comunicazione e la politica derubricate a compravendita o, comunque, a scambio di beni attraverso modalità suggestive o emotive. La paralisi del pensiero o il confinamento delle idee a ragioni di mercato è un procedimento pericoloso, perché destinato ad un dialogo conscio-inconscio con un’autorità introiettata a livello psichico e non elaborata, trasposta poi nell’orientamento di massa, sponda dell’agire, del credere, del reagire. Più facile obbedire che pensare, meno doloroso soprattutto.

Una “massa” sprovvista della sua capacità di pensiero, di libertà e di valutazione-decisione non può che perdere la sua identità e la sua libertà.

L’incremento continuo di conoscenza (anche attraverso le invenzioni tecnologiche) non è indizio del manifestarsi del pensare; segnala piuttosto una forma di pensiero che viene definito ‘calcolante’, cioè il pensiero che si occupa di garantire il dominio sulle cose, ma non si cura di accedere al loro senso. Perciò,  è fondamentale pretendere che il sistema della formazione, ad ogni livello, assuma l’obiettivo primario di promuovere la capacità e la passione di pensare: “una civiltà che ha cura di sé, e dunque tiene in massimo conto il valore della libertà, non può non dedicare risorse alla formazione di un pensiero autonomo”.

Di questa priorità ha voluto occuparsi Luigina Mortari, docente di epistemologia della ricerca pedagogica presso la facoltà di Scienze della formazione dell’Università di Verona, aprendo il volume con una fiaba in epigrafe.

Una fiaba africana narra che un giorno, nella foresta, scoppiò un incendio devastante. Tutti gli animali si diedero alla fuga. Un leone scorse un colibrì che volava in direzione dell’incendio: preoccupato, cercò di fermare il colibrì per fargli cambiare direzione, ma l’uccellino spiegò che stava andando a spegnere l’incendio. Il leone, meravigliato, replicò che era impossibile spegnere l’incendio con la goccia d’acqua che portava nel becco, ma il colibrì con decisione replicò: “Io faccio la mia parte”.

Ogni goccia di pensiero serve a spegnere quegli incendi di conformismo che disseccano il pensare rendendo impraticabile la libertà.

La formazione al pensiero autonomo è una spinta che tende all’acquisizione pratica del come pensare senza volerne prescriverne contenuti, o indicare verità a cui credere. E questa è una premessa fondamentale, che va pronunciata ogni giorno.

Quali pratiche porre in essere? Interrogare le questioni di significato; esaminare criticamente; dialogare per imparare a pensare nella sua qualità duale e collettiva; problematizzare; cooperare; praticare l’arte maieutica nel radicamento al reale; deliberare; giudicare; comprendere; sentire per agire; coltivare le virtù politiche.

Tutti questi verbi sono da scoprire nel loro più intenso significato attraverso un viaggio illuminante che fa riscoprire il piacere della conoscenza e della partecipazione attiva relazionale, pubblica e privata.

«La politicità del pensare: sentire il mondo»

Tra i passaggi più folgoranti del testo ritengo ci sia un riferimento alle qualità del pensare e dello stare con gli altri nel mondo che dovrebbe essere trasmesso con forza, a dispetto delle attuali politiche di tolleranza nella costruzione comunitaria nazionale, europea, extraeuropea: ne L’umanità dei tempi bui, la filosofa Hannah. Arendt ha sottolineato l’importanza del sentimento di “gratitudine che dobbiamo al mondo” perché esso congeda dalla negatività distruttiva e tiene aperta la mente all’orizzonte del possibile, ciò significa accettare la vita pur nella sua estrema fragilità, ed è questa accettazione, che disinnescando il rischio del risentimento, ri-orienta il pensare e il desiderare in senso positivo, istituendo un antidoto nei confronti della tendenza a cercare modi di vita estranei alla qualità ontologica della condizione umana.

In altre parole: mettere la centro la vita ed il piacere di stare fra le cose e di abitare insieme agli altri nel mondo. Keith Oatley, in Psicologia delle emozioni, ha restituito il significato di questo sentire in stretta connessione con la dimensione cognitiva della mente considerando necessario coltivare la speranza di giustizia e la passione per la cura: sperare di trovare il modo per ridurre la sofferenza provocata dall’ingiustizia e dalla mancanza di cura, e nutrire la passione di rendere il piacere di esistere il più diffuso e condiviso possibile.

Nel senso che – come ha scritto Simone Weil in Giustizia – è primario quel sentire politico che dà espressione a “quella parte di cuore che grida contro il male”, perché considera insopportabile ogni azione che produce sofferenza rendendo disumana l’esperienza e di fronte al male non si può stare in silenzio: non solo di fronte al male radicale, ma anche al più piccolo dei mali.

 «l’essenza del pensare: essere presenti»

Heidegger aveva rilevato e problematizzato l’assenza di pensiero che si insinua ovunque nel mondo attuale, a ciò può ricondursi la crisi che accompagna l’insensatezza e l’inefficacia, o efficacia inquietante, dei discorsi e delle azioni di cui spesso siamo spettatori o portatori.  A muovere il pensare, invece, non è l’ansia di dominio, ma il desiderio di significato, ossia la tensione a cercare modi esistentivi incapaci di inventare l’esistenza. In questo senso, pensare è – come scrive Arendt in Quaderni e Diari“l’assoluto essere desti”, cioè stare con consapevolezza radicati nel presente per dare un’impronta originale al proprio esserci. Solo essendo presenti non ci si lascia depredare, perché è depredando i cittadini delle loro capacità di inventare mondi nuovi che si affermano i totalitarismi: la democrazia ha necessità vitale di cittadini che pensano in modo imprevisto e non si fanno mai trovare né con il pensiero né con l’azione là dove li vorrebbe chi detiene forme di potere mirate a governamentalizzare gli altri.

Dove si trova l’individuo quando inizia a formare e a intravedere questa necessità e passione per il suo confronto con il mondo? Almeno, fino a quasi trent’anni  per ora, all’interno di istituzioni che trasmettono il sapere nozionistico, oppure tra precarietà e lavoro, con nuove prerogative di “incanalamento” sociale. Allora, è importante per quei giovani – donne e uomini – interrogarsi sul ruolo fondamentale dell’istruzione e del tempo necessario per formarsi, che non significa solo professionalizzazione, certificazione, attività performative. In queste pratiche, infatti, l’autorità è un contraltare necessario e costitutivo che impedisce, a lungo andare, il generarsi di un’autonomia responsabile di fronte alla vita ed agli altri.

In quali “luoghi”, dunque, il soggetto può mantenersi mobile e recettivo? in quei luoghi da cercare o creare che rendano fertile la sua attività cognitiva. In un passaggio di Democrazia ed Educazione, per citare John Dewey, si legge:

Un’oncia di esperienza è meglio che una tonnellata di teoria, semplicemente perché è soltanto nell’esperienza che una teoria ha significato vitale e verificabile. Un’esperienza, un’umilissima esperienza, è capace di generare e contenere qualsiasi quantità di teoria (o contenuto intellettuale), ma una teoria all’infuori dell’esperienza non può essere in definitiva afferrata neppure come teoria”.

Il pensiero o l’apprendimento sradicati dalla realtà, insomma, sarebbero devitalizzati, così il pensare diventerebbe non solo inutile, ma anche pericoloso, in quanto si ridurrebbe tutt’al più ad un esercizio di “incameramento” di nozioni (e di metodi), un’intellettualismo colto, ma svuotato di realtà. Questo atteggiamento e quel prodotto, se coltivati troppo a lungo, farebbero precipitare la mente in un mondo illusorio, distante.

La generosità di questa riflessione sta anche nelle sue conclusioni, affidate a tracce e piste che possono essere trovate e lasciate nella contingenza dei passaggi e delle esigenze formative, rilanciate, poi, verso nuovi orizzonti: scrive, Luigina Mortari, “ogni discorso è contingente, dunque, anche questo. Forse avrà solo la durata di un giorno, o solo il tempo necessario al lettore ed alla lettrice per decifrarlo. Ma l’importante non è che perduri sopravvivendo al tempo della lettura, ma che abbia svolto la funzione seminale di dare da pensare”.

 

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