Alba de Céspedes, una donna col vizio di scrivere

Per fortuna sono solo le femministe frustrate o i nerd letterari a interessarsi alla letteratura femminile; per fortuna l’accademia e la critica – le solite smemorate – hanno rimosso l’esistenza di gran parte della produzione letteraria femminile; per fortuna esiste un pregiudizio collettivo verso le donne che scrivono, ché tanto o scrivono d’amore o scrivono male (in genere tutt’e due).

Per fortuna, penso e dico, perché altrimenti i romanzi di Alba de Céspedes diverrebbero introvabili tanto alle bancarelle che vendono libri Harmony a 1€ quanto negli scaffali delle librerie riservati a chi può permettersi d’acquistare un’edizione dei Meridiani Mondadori. Quest’ultimo, non è il mio caso. Ma – ancora per fortuna – è quello della biblioteca in cui prendo da anni libri in prestito, quella che mi invia sms minatori almeno due volte al mese perché sono smemorata anch’io (non come l’accademia e la critica, eh!), ma che mi ha dato la possibilità di conoscere Alba de Céspedes e di leggerne tutti i romanzi.

Illustrazione di Claudia Berardinelli

Illustrazione di Claudia Berardinelli

Chi sia Alba de Céspedes è una domanda a cui tutti, settanta anni fa, avrebbero saputo rispondere; oggi, non lo sa quasi più nessuno. E non giova a nulla che sia stata una delle intellettuali italiane più fascinose e popolari del ‘900, che sia stata contemporaneamente scrittrice, poetessa, radiocronista, giornalista, inviata speciale, direttrice responsabile, partigiana e sceneggiatrice: resta laddove è stata gettata, nel miscuglio omogeneo, trascurabile e informe delle donne che hanno fatto qualcosa di bello, di grande e di importante, ma non abbastanza perché fosse celebrato, riconosciuto, valorizzato, diffuso, inserito nelle antologie, discusso nelle aule, studiato. E’ un po’ come la storia per cui la mamma è sempre la mamma ma si tramanda da secoli, per cultura, solo il nome del padre. Noi donne ci siamo abituate, siamo assuefatte all’usanza Made in Italy di far andare avanti, sulla linea diacronica e sincronica, gli uomini perché uomini, mentre noi restiamo indietro. Non abbiamo bisogno nemmeno di farci squallide battute sopra, di sindacare sulle prestazioni sessuali dell’altro sesso, di disprezzare il lavoro che fanno o i soldi che guadagnano – mese dopo mese – più di noi, di rispondere con acredine al successo che ottengono o di scagliarci contro di loro per ciò che non sono, perché sappiamo fin da subito come funziona, fin da quando litighiamo la prima volta con nostro fratello e ci rassegniamo che sia lui a vincere. Ciò non toglie che ogni tanto una donna si alzi in piedi e dica di no. Un no netto, caldo di sfida e di rabbia, alle usanze che la usano, alle tradizioni che la tradiscono, alle formalità che non la contengono mai, ai nomi che non la chiamano, alle vie che non le indicano (sulla toponomastica che non contempla le donne scriveremo presto un post). Un no che manifesta l’indisponibilità ad accettare un’ingiustizia diffusa come una ferita, che si dilata e approfondisce da millenni e che viene spacciata – come tutte le forme di violenza che non sanno giustificarsi razionalmente – per Natura, nella sua versione 2.0 chiamata anche “inclinazione”. Cosa fa una donna

Alba nella sua casa romana

Alba nella sua casa romana

scocciata? Quello che si spera le donne non facciano mai: parlare.

E parlare con ogni mezzo è quanto Alba de Céspedes ha fatto ogni giorno della sua stessa vita e giorno dopo giorno, al fine di raccontare quel percorso infinitamente lungo e straordinario e sofferto ch’è l’esistenza di una donna.

Nata a Roma nel 1911, figlia di quello che poi sarebbe divenuto per un breve periodo Presidente della Repubblica Cubana e di un’italiana, Alba si istituisce presso due istitutrici senza mai frequentare alcuna scuola. A vent’anni ha già alle spalle un matrimonio di cinque anni sull’orlo del divorzio e un figlio di due; a ventitré, ancora  sconosciuta come scrittrice, pubblica sul «Giornale d’Italia» il suo primo racconto, che notato in ambito giornalistico le vale la collaborazione a diverse testate quali «Il Piccolo», «Il Mattino» e «Il Messaggero»; a venticinque uno dei suoi testi rappresenta la letteratura italiana all’Olimpiade di Berlino del 1935 e frattanto viene arrestata per antifascismo; a ventisette ottiene uno straordinario successo di critica e di pubblico con Nessuno torna indietro, vincendo il Premio Viareggio ex aequo con Vincenzo Cardarelli (vittoria annullata a entrambi nel giro di qualche ora per motivi politici ).  Durante la seconda guerra mondiale Alba si sposta ripetutamente da Roma, soggiornando in Abruzzo (esperienza che trasparirà nel suo secondo romanzo), a Bari – dove con lo pseudonimo di Clorinda sperimenta la Resistenza dirigendo per Radio Bari la trasmissione Italia combatte – e fino a Napoli.

"Alba de Céspedes rappresenta il cuore pulsante di questa rivista. Quali caratteristiche e specificità di questa donna emergono nell’analisi della rivista?" intervista a Laura Di Nicola

“Alba de Céspedes rappresenta il cuore pulsante di questa rivista. Quali caratteristiche e specificità di questa donna emergono nell’analisi della rivista?” intervista a Laura Di Nicola

Nel ’44 torna a Roma e riprende l’attività giornalistica, ma con una novità: fonda la rivista Mercurio. Mensile di politica, arte e scienza, che si propone di rinnovare e risvegliare la coscienza italiana e che resterà attiva fino al ’48, vantando la partecipazione di artisti del calibro di Natalia Ginzburg, Alberto Moravia, Mario Luzi, Sibilla Aleramo, Aldo Palazzeschi, Renato Guttuso, Giorgio Morandi, Toti Scialoja e persino Sartre. Frattanto, non tralascia il versante letterario: nel ’49 pubblica l’elaboratissimo – poi revisionato – Dalla parte di lei, e, tre anni dopo, Quaderno Proibito. Sono anni in cui Alba fa la spola tra L’Avana e l’Italia, scrivendo su giornali statunitensi e intrattenendo una fitta corrispondenza con l’ambiente intellettuale italiano. Nel ’54 tiene un ciclo di conferenze dal titolo “Confessioni di una scrittrice” a Zurigo e si realizza una svolta tanto nella sua vita quanto nella sua scrittura. Scriverà lei stessa:

Direi che quest’anno è essenziale per me perché ormai sono in possesso della maturità dei miei mezzi d’espressione, di un notevole senso di autocritica e di un sicuro buongusto che mi guida a discernere, a sceverare il mio lavoro. Freddamente giudico che tutte le mie esperienze personali mi hanno reso anche abbastanza infelice da considerarmi salva dalla imbecillità che procura il fatto di essere soddisfatta e felice.

Nel ’55 esce Invito a pranzo. Racconti – che raccoglie i pezzi scritti tra il ’36 e il ’54 – e qualche mese dopo Prima e dopo, che a detta della stessa Alba segna la conclusione di una fase della sua scrittura.I ricordi della Resistenza, l’ostinazione nella pratica culturale e politica, la forza di scrivere la vita e la convinzione di poter educare la coscienza collettiva si affievoliscono progressivamente, mentre si fa spazio in lei una sempre più cupa riflessione sull’esistenza, sull’esperienza e sulle relazioni umane: “temo di non avere più la forza, peggio, la passione necessaria per scrivere”, confessa all’amica Paola Masino.Tale sensazione si acuisce dapprima per l’improvvisa morte della madre, nel ’56, e poi, al suo ritorno da Cuba, per la fine dell’amore travagliato con Franco Bounous, e per la degradata situazione italiana, che ritrarrà nelle sue contraddizioni e nella sua corruzione nel romanzo Il rimorso – non a caso tra i più riusciti – e che la spingerà a lasciare sempre più spesso Roma per Parigi.

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Alba a Parigi

Alba sente svuotarsi ogni cosa della linfa vitale che prima la animava: denuncia l’impossibilità di lavorare in Italia in quanto intellettuale e la stessa classe intellettuale dell’epoca, fatica a scrivere, i rapporti interpersonali – pur fitti e numerosi – le causano spesso disagio e i rapporti con la sua casa editrice cominciano a incrinarsi per la poca pubblicità offerta al suddetto romanzo al momento della pubblicazione. Negli anni successivi e fino alla pubblicazione della Bambolona, nel 1967, Alba oscilla tra la capitale francese e Roma, tra momenti di grande gioia e soddisfazione e momenti di estremo sconforto, dovuti anche alla precarietà della condizione economica sopraggiunta con il termine degli incarichi giornalistici. Uniche costanti sono la curatela delle edizioni straniere o nuove dei suoi precedenti romanzi e la fitta corrispondenza con numerosi intellettuali dell’epoca. Dopo la pubblicazione del romanzo La Bambolona, che viene presto trasposto in versione cinematografica e teatrale e che tuttavia viene scarsamente distribuito nelle librerie italiane, Alba comincia la stesura di Sans autre lieu que la nuit, suo primo romanzo francese sia per la lingua impiegata – francese, appunto – che per l’ambientazione parigina, cui affida il compito di dimostrare la “maturità della sua sapienza di scrittrice” e di sovvertire la forma del romanzo, segnando un passaggio nella sua produzione quanto in se stessa. Ne interrompe la scrittura per dedicarsi alla composizione di una raccolta, Chansons des filles de mai, in cui fa convergere venti poesie contestualizzate alla contestazione giovanile del ’68 parigino, poi la riprende. Pubblica il romanzo nel ’73 presso la casa editrice Seul e poco più tardi si occupa della sua traduzione italiana per Mondadori. Contestualmente, spinta dalla necessità economica, scrive per il cinema e la televisione e lavora come consulente editoriale, promuovendo incessantemente il suo lavoro precedente. Negli anni successivi, si avvicina sempre più alle sue origini: pensa di creare un museo dedicato al nonno, segue le iniziative fatte in suo nome e si dedica, dopo due decenni di tormentata ideazione, alla realizzazione di Con gran Amor, romanzo storico spiccatamente autobiografico che si propone di narrare le vicende di Cuba e della stessa famiglia de Céspedes. A questo progetto – e alla curatela delle riduzioni e degli adattamenti dei suoi romanzi per la tv – rivolge l’ultimo decennio della sua esistenza. Nonostante ciò, il romanzo  resterà inconcluso per l’ossessivo scrupolo della De Céspedes alla forma, al genere letterario e alla struttura stessa del romanzo, scrupolo dovuto all’ambizione dell’autrice di scrivere un romanzo che costituisse contemporaneamente il suo memoriale, il suo testamento e il suo massimo capolavoro. Alba morirà nel novembre del 1994, nella sua casa di Quai de Bourbon. Con gran Amor verrà presentato nella sua prima edizione spagnola nel 2012, in ricorrenza del centenario dalla nascita di Alba de Céspedes, a Granma.

Alba a Parigi

Alba a Parigi

Una vita indissolubilmente legata alla scrittura, quindi, quella di Alba, in cui le esperienze personali si fondano con quelle collettive e si trasfondono nei testi; in cui la finzione del personaggio e la realtà del narratore si mescolano per necessità. E la necessità di Alba è quella di giustificare la propria esistenza di scrittrice, di affermarla superando l’ancestrale senso di colpa che deriva dalla scrittura ad ogni donna. Nella produzione decespediana vi è una puntuale simultaneità tra il momento storico in cui si conclude la narrazione di ogni romanzo e quello reale vissuto dall’autrice, come se alla fine del romanzo seguisse il presente nella realtà. Questo dettaglio apparentemente trascurabile, che si ripete in tutti i romanzi dell’autrice, è importante per chiarire il rapporto tra la vita dell’autrice e la sua narrativa. Philippe Lejeune definiva autobiografico «il racconto retrospettivo in prosa che un individuo reale fa della propria esistenza, quando mette l’accento sulla sua vita individuale, in particolare sulla storia della propria personalità.». Per quanto abbiamo detto a proposito del tempo della narrazione che si esaurisce nel presente, sembrerebbe che la scrittura di Alba de Céspedes sia retrospettiva, procedendo dal passato verso il presente e non sfiorando mai il futuro, quasi l’autrice ripercorresse il suo passato prossimo e raccogliesse i cambiamenti incorsi in sé e nella società connessi ad esso, fino al momento storico e personale in cui si colloca realmente. Al tempo stesso, l’autrice pone senza dubbio l’accento sulla vita individuale e sulla personalità, come richiesto dai parametri evidenziati da Lejeune, ma non lo fa con la propria vita né con la propria personalità: lo fa attraverso quella dei personaggi. A ben vedere, i parallelismi tra i suoi personaggi e la sua vita sono tali, nella quantità e nella qualità, da rendere impossibile la negazione di una presenza autobiografica nel testo, ma è una presenza che pur restando sempre intuibile non diviene mai esplicita. L’autrice ha motivato questa tacita presenza dicendo di vedere la propria vita e se stessa sempre «attraverso un’altra cosa», nella pratica della scrittura, quindi precisando che non s’è mai trattato di una scelta consapevole quanto di un’incapacità («Non so farlo», ammette nella medesima intervista), ma, come segnala Monica Cristina Storini, quest’affermazione di de Céspedes deve ricondursi alla sua «visione romantica e istintiva della scrittura» che non è sufficiente né adeguata a spiegare la continuità della tecnica di fusione tra autobiografia e narrativa cui ricorre per la scrittura di tutti i suoi romanzi. Sembra lecito, piuttosto, pensare che il mescolamento tra biografia e invenzione, lo scarto effettuato dalla scrittura sulla vita, abbia avuto in primis il compito di fare del particolare l’universale, attraverso la trasposizione di peculiarità, idee ed episodi propri dell’autrice nei suoi personaggi e nel contesto in cui questi ultimi sono inseriti; in secundis quello di costruire l’identità dell’autrice attraverso la costruzione del testo stesso e dell’identità dei personaggi. In tal modo si spiegano la ragione per cui Alba de Céspedes, nel processo creativo, stabilisca unicamente l’esito finale («Nel romanzo c’è questo, che io so sempre dove cado, io so che cosa significa e quindi conosco la fine, e certe volte addirittura le parole della fine, ma se non so dove vado a cadere non parto»[5], dichiara), e l’esito finale si collochi sempre nel presente dell’autrice; il tema della scrittura come processo di conoscenza e coscienza che sorregge tanto la poetica dell’autrice quanto la narrazione e la sua narrativa in generale; la continuità dei temi e dei motivi, nonché di specifiche tecniche epistemologiche, cui si oppone la variazione negli stili e nella forma, a confermare il passaggio dal particolare all’universale. Il tessuto narrativo è lo speculum – nel senso di Irigaray e in quello psicanalitico – di quello metanarrativo: la scrittrice si emancipa e impossessa della propria identità attraverso il percorso della scrittura che i suoi stessi personaggi femminili compiono allo stesso scopo. L’analisi dei diari e del carteggio di Alba de Céspedes rivela questa analogia, data l’identificazione dell’autrice nei suoi personaggi[6], e lei stessa in un’intervista del ’73 dichiara:

J’écris et je réécris sans cesse le même livre, toujours semblable et toujours different. C’est le monde qui est autour de moi que je regarde quelquefois dans une femme et quelquefois dans une ville.

 Lo «stesso libro» che l’autrice scrive e riscrive «senza tregua» e «sempre uguale» è quello di se stessa e della propria esistenza di donna in fieri nel contesto storico e sociale del tempo progressivo, tradotto in un testo «sempre diverso». Nulla di diverso da quanto sosteneva Proust, in fin dei conti. Ma come avviene questa traduzione? Con una conversione  della rappresentazione d’oggetto in rappresentazione di parola, secondo il sistema già teorizzato da Freud, che riconosce un’importanza di primo piano al carattere preverbale della scrittura, quello che Kristeva avrebbe chiamato «vocalico», la voce che presiede e costituisce parte necessaria del processo della scrittura e che si palesa con un’attenzione spasmodica allo stile qual è quella di Alba de Céspedes.

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L’autobiografismo di Alba de Céspedes si traduce trasfigurato in tutte le sue opere, che si adattano e riflettono il suo stesso percorso di soggettività femminile rispetto a se stessa e rispetto alla società tra gli anni ’30 e gli anni ’70 del ‘900. Nessuno torna indietro è il primo esempio di questo processo, ed è anche il più esplicativo, insieme al Rimorso, del processo di universalizzazione che si compie a partire dal particolare biografico dell’autrice. In ogni storia vi è un frammento della personalità dell’autrice, uno spaccato di società dell’epoca così come si proponeva al suo sguardo e alla sua percezione che è sapientemente femminile. «Tutto è mio, tutto è esperienza», afferma Alba de Céspedes, e difatti Nessuno torna indietro contiene in sé il percorso dell’autrice fino al ’38 e lo stesso potrebbe dirsi di ognuno dei suoi romanzi successivi. La scrittura di Alba de Céspedes è al tempo stesso prova d’emancipazione e percorso emancipativo della soggettività femminile. E questo incessante e graduale progredire si compie simultaneamente su due piani diversi: attraverso e dentro la scrittura. Il progresso che si compie attraverso la scrittura riguarda la stessa genesi di essa, è dato dallo stadio in cui l’immaginario femminile si ascolta e modula la propria voce, stadio che presiede, eccede e costituisce parte del processo narrativo (la voce narrante, il soggetto del discorso); il progresso che si compie dentro la scrittura riguarda essenzialmente il narrato: è quello del personaggio ma è anche quello del contenuto, l’oggetto del discorso, potrebbe dirsi la parte variabile dei romanzi decespediani. In sostanza, l’attraversamento della scrittura fonda la scrittura femminile, cioè sessualmente connotata; la narrazione la palesa.  La de Céspedes, che non aveva aderito all’emancipazionismo dei primi anni del ‘900 e che si era mostrata critica nei confronti del femminismo degli anni ’60, a suo parere mosso da un criticabile sentimento di rivalsa, condivideva inconsapevolmente il principio su cui si poggia il femminismo differenzialista, avendo la convinzione che uomo e donna fossero profondamente diversi e dunque avessero percezione e punti di vista distinti, ed era pienamente consapevole di poter raffigurare la donna sia secondo la donna che secondo la scrittrice, offrendo un punto di vista specifico e pressoché assente in quello letterario tradizionale.“Io sono una donna, profondamente donna”, diceva di sé, e poiché credeva che “noi [scrittori, ndr.] non possiamo parlare di cose che non conosciamo”, sapeva che la sua natura, coadiuvata alla sua naturale inclinazione per la scrittura le dava la garanzia di poter rappresentare la figura femminile dal suo stesso punto di vista.

L’autrice filtra il contesto storico, culturale e sociale che fa da sfondo nei romanzi attraverso la vita intima dei suoi personaggi femminili, che registrano cambiamenti e sperimentano un lungo processo di introspezione, rielaborazione e sviluppo, alla fine del quale compiono una scelta (e un’azione) radicale – che non sempre inverte la condizione iniziale – in quello stesso contesto. La lunga e graduale maturazione volta alla totale autocoscienza permette alla soggettività femminile narrata e narratrice di ridefinire i contenuti della realtà circostante secondo la propria esperienza e di restituire alla storia un senso che è proprio, del proprio vissuto, altrimenti irrintracciabile. In definitiva si assiste alla storia “dalla parte di lei”, la si legge e interpreta attraverso i suoi occhi.

alba1L’operazione binaria di cui sopra insieme al coscienzioso punto di vista adottato, alla radice e nel corpo di tutte le opere della de Céspedes, è indubbiamente l’elemento più importante della sua poetica e quello più innovativo e straordinario della sua produzione letteraria, ma è anche la fonte primaria delle critiche che le furono rivolte: gli strutturalisti attaccarono ferocemente lo psicologismo e l’umanizzazione di personaggi fittizi effettuata dall’autrice; molti videro nella sua opera una forma di proto-femminismo patetico e chiuso in se stesso; altri interpretarono la sua letteratura come rosa, banalmente rosa.

Critiche semplicistiche, inconsistenti, superficiali, ma incredibilmente diffuse, al punto che la letteratura e la personalità di Alba sembrano volersi difendere ad ogni costo da esse e lo fanno attraverso lo stesso strumento: la lingua.

“È lo stile che attraversa il tempo”, scriveva Alba de Céspedes negli appunti per l’ultimo del suoi romanzi, Con gran amor, riassumendo la sua posizione sulla funzione stilistica, ch’è quella di garantire la continuità di un’opera letteraria nel tempo e contemporaneamente quella di riflettere realisticamente sia le vicende narrate contestualizzate a uno specifico periodo storico che le tipologie di personaggio presentate. Alba de Céspedes ha sempre mostrato una certa insofferenza verso il “vizio” della critica a lei contemporanea di interpretare la scrittura femminile nei termini di una denuncia fine a se stessa o di mera narrativa rosa, poiché riteneva –  non a torto – che quest’atteggiamento implicasse la negazione di un qualunque valore artistico della produzione scritta delle donne. Nell’intervista a Piera Carroli è lampante come l’autrice difenda strenuamente l’universalità della sua opera, al costo di risultare poco consapevole: non ammetteva che fosse letta in una chiave di lettura puramente femminista e non voleva che venisse collocata nello spazio parziale della letteratura femminile anziché in quello totale della Letteratura. Tanto era radicato in lei il rifiuto di vedere il proprio sesso anteposto alla propria arte che si faceva chiamare “scrittore” e “poeta”, rigettando le nozioni di scrittrice e poetessa per la consapevolezza che in Italia entrambi i termini avessero valenza negativa o dispregiativa. In questo quadro di idee, lo stile diventa per de Céspedes uno strumento di riscatto dal pregiudizio collettivo che le donne scrivessero malamente e comunque sempre peggio degli uomini, proponendosi come innegabile prova di valore letterario e in quanto tale destinata ad attraversare il tempo e ad accompagnare lungo la linea diacronica della Letteratura la sua opera.

Incipiti di "Non si torna indietro"

Incipiti di “Non si torna indietro” (foto di Sarah Sivieri)

La cura che l’autrice rivolge allo stile si manifesta nella sua adattabilità ai mutamenti sociali e culturali intercorsi tra le pubblicazioni e alla varietà dei personaggi che si profila come varietà di caratteri e come varietà di condizione sociale e culturale. Se motivi e temi rimangono invariati, all’interno della produzione decespediana, la forma evolve insieme ai tempi e ai personaggi descritti, in una progressione che conferma la continuità della scelta stilistica di matrice realista dell’autrice. “Certe parole, anche non sai quel che significano, ti fanno capire subito con chi hai a che fare”, dice Irene in Prima e dopo, veicolando una convinzione dell’autrice che viene ribadita, ancora da Irene, quando specifica che “ogni mondo, ogni classe, si esprime con un suo gergo, un suo vocabolario”. Pertanto tutta la costruzione narrativa dei romanzi viene operata attraverso un’attenta selezione lessicale, l’uso di specifiche espressioni linguistiche, la reiterazione di formule o la ricorrenza di lemmi che supportano e confermano la verosimiglianza dei personaggi inseriti nel testo.Ma c’è un altro aspetto di fondamentale importanza, e cioè che Alba de Céspedes attribuisce centralità alla lingua perché è persuasa che la parola abbia funzione emancipativa, proprio come per i suoi stessi personaggi. Emanuela, principale personaggio del romanzo corale e di formazione Nessuno torna indietro,  deve parlare ed esplicitare la sua condizione di ragazza madre per poter realizzare la sua evoluzione al di fuori dello spazio della sua interiorità, nei racconti successivi le protagoniste ricorrono alla scrittura per poter evolvere e dal punto di vista metanarrativo la stessa de Céspedes si emancipa progressivamente attraverso la scrittura, che le dà lavoro, autonomia, indipendenza, popolarità. Scrivere e parlare sono atti linguistici che hanno il potere di cambiare la propria posizione nel mondo o quantomeno la propria percezione del mondo e di se stessi: lo dimostra Valeria (Quaderno Proibito) che non può ignorare il quaderno ma deve bruciarlo, per continuare la vita che aveva condotto fino al giorno in cui l’aveva acquistato; lo dimostra Francesca (Il Rimorso) che scegliendo per l’indipendenza nel finale comincia a scrivere un libro; lo dimostra Irene (Prima e dopo) che è costretta a fare un bilancio della propria vita con e per mezzo della scrittura e Alessandra (Dalla parte di lei) che ha bisogno delle parole per poter spiegare se stessa e i suoi atti, portandoli nella realtà.

A sostegno della funzione emancipativa della lingua, Alba de Céspedes inserisce in Prima e dopo un piccolo ed emblematico episodio: Erminia, la donna di servizio di Irene, chiede a Irene che cosa significhi “fornicare”, e quando Irene le chiede sorpresa se davvero non lo sappia, Erminia risponde:

«No. La leggo sempre quando ripasso i Comandamenti prima di confessarmi, ma non mi sono mai curata di saperlo. Tanto, se non so neppure che cos’è, è un peccato che non posso fare

Se Erminia per il solo fatto di disconoscere il termine non può peccare, a tutte le protagoniste servono le parole per potersi definire, per poter prendere forma in senso letterale, e per potersi collocare nella realtà, in un preciso punto dello spazio esterno. Lo stile quindi veicola la percezione, il processo di acquisizione di consapevolezza e in ultimo l’emancipazione, poiché la parola, la scrittura, è strumento di espressione ed esplicitazione, e come indica la radice di entrambi i termini svolge e imprime “fuori”, cioè nella realtà, in un processo ch’è valido tanto nella narrativa quanto nella vita dell’autrice.

Parola e scrittura costituiscono dunque l’emancipazione dell’individuo, cui fa da contraltare il silenzio che gli richiede la società, la tendenza borghese a mistificare, camuffare, occultare evidenza e verità, pulsioni intime e viscerali attraverso il silenzio. “La società è silenzio“, denuncia la prima delle protagoniste decespediane, ed è l’accusa che viene puntualmente rivolta al clima politico (ad esempio quello fascista) o appunto cultural-sociale, in cui ognuno non può essere ciò che desidera poiché deve incarnare l’immagine del ceto a cui appartiene e della morale vigente nel Belpaese. Alba de Céspedes non rispetta nessuno dei suoi doveri sociali o presumibilmente morali e in questo senso la sua scrittura diventa il mezzo attraverso cui riesce a perdonare a se stessa d’essere tanto libera. La stessa opposizione parola-scrittura/silenzio, torna in quella tra legge morale/legge statale, che ricorre in tutti i testi e che diventa spesso una critica al sistema legislativo italiano, a cui la de Céspedes rimprovera l’orripilante dicitura “doveri coniugali”, l’apposizione del nomen nescio sui documenti dei figli naturali, l’assenza totale di diritti intramatrimoniali per la donna che diveniva col matrimonio mera proprietà maschile, la negazione alle donne di accedere alla carriera di magistrato, l’impossibilità di divorzio etc. Non a caso Alba de Céspedes, il cui neorealismo è stato ampiamente riconosciuto, è stata definita da Elisabetta Rasy come la fautrice del romanzo psicologico borghese al femminile, definizione calzante ma certo parziale, data la natura ambigua e la materia eterogenea e ricchissima dei romanzi dell’autrice, uniti dalla stessa difesa di un ideale di “democrazia sociale“, di filantropia, di giustizia e di onestà e dallo stesso stile raffinato e ricercato.

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Alba

A tutto questo, come abbiamo detto, s’aggiunge la militanza cultural-politica di Alba de Céspedes: l’esperienza Resistenziale, l’arresto per antifascismo, il proposito di riformare la coscienza italiana, la collaborazione a “Epoca”, l’importante rivista diretta da Enzo Biagi (mini-gossip: Alba denunciò lo stesso Biagi per averla licenziata in tronco senza preavviso e ottenne un indennizzo di ben 8 milioni di lire), la partecipazione sentita alla cronaca del paese e specialmente alla sfera del diritto individuale, la presenza nel panorama intellettuale dell’epoca (conosceva Montale, frequentava assiduamente Moravia e la Morante, Natalia Ginzburg, Sibilla Aleramo e moltissimi altri). Un’intellettuale a 360°, circondata da un’aura quasi leggendaria e dal respiro internazionale, Alba de Céspedes. Eppure, nonostante sia stata tradotta e venduta più di Pirandello e il suo primo romanzo in soli undici anni fosse già alla quarantaduesima edizione, oggi non se ne parla più.

Nella sua ultima intervista, l’autrice aveva dichiarato con una certa amarezza di essere stata spesso intesa come una scrittrice rosa «perché lo si dice di tutte le donne che scrivono», ampliando la dinamica anche alla sottovalutata Matilde Serao. Ma per tutta la vita Alba de Céspedes reagì con forza alle accuse e alle critiche e non diede mai alcun segno di cedimento:

Non bisogna dar ascolto ai cretini, se tutti avessero ascoltato i critici, le critiche, in famiglia non avremmo fatto niente. […] Tutte le donne che fanno delle cose serie saranno sempre criticate, chissà per quanti anni ancora, mentre se una donna fa quello che è considerato femminile va benissimo. Perciò bisogna continuare, in modo sferzante ma senza polemica.”

Diceva, ed era il suo modo di dire di No.

fucsia e bianco per un ottimo Harmony!

fucsia e bianco per un ottimo Harmony!

Lo stesso che pronunciamo noi, distintamente, ogni volta che ripercorrendo i passi delle donne del passato o facendone di nuovi affermiamo una presenza storica, simbolica, reale: quella delle donne nel mondo. Quella di donne eccezionali come Alba de Céspedes, dall’innegabile talento e barbaramente dimenticate o fraintese.

Per concludere, scelgo una pagina da Rimorso, romanzo di Alba de Céspedes del 1963 in cui l’autrice indaga accuratamente e argutamente il ruolo dell’intellettuale e dello scrittore nella società capitalistica e consumistica italiana degli anni ’60. Dopo averlo letto, vorrei si osservasse la copertina del medesimo romanzo: il contrasto dell’immagine col contenuto costituisce l’innegabile prova di un errore valutativo nella lettura e nell’interpretazione dell’opera decespediana, operato da buona parte della critica e specialmente dall’accademia.

«Lo so: dal momento in cui accetto i vantaggi di un determinato sistema economico – in qualunque proporzione, a qualsiasi livello – implicitamente rinuncio alla mia condizione di dissidente; così come, rifiutandoli, assumo quella del relitto sociale. In quest’ultimo caso, tra l’altro, rimarrei escluso da ogni compagnia stimolante; giacché oggi la maggior parte di coloro coi quali posso avere un utile scambio di idee, vive a un livello economico che, per mantenerlo, richiede la totalità o quasi del tempo disponibile. Inoltre l’ordinamento cosiddetto borghese non attribuisce alcun valore etico al rifiuto del continuo moltiplicarsi delle nostre necessità e dei nostri desideri: al contrario, lo reputa una colpa. 

decespedes1< La giustificazione è nella mia condizione di scrittore, nella mia volontà di continuare ad esserlo > , ho detto: < Li conosci, no?, certi nostri amici, romanzieri, poeti – un tempo – e oggi funzionari: delle case editrici, della radio, della televisione, persino delle aziende industriali, o di quelle organizzazioni internazionali le cui sigle misteriose per molti non significano altro che un lauto stipendio. Sostengono di aver accettato quell’incarico per difendere certi interessi, certe idee: si dichiarano martiri dell’altruismo che li ha spinti a sacrificare la propria vocazione.»

(l’estratto continua, qui)

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