Alberto Manguel, The City of Words | Breve riflessione e molti collegamenti

Le nostre civiltà e comunità sono state soprattutto civiltà della parola; le frasi fondano e abitano le nostre città.
George Steiner, Vere Presenze, p. 91

Non esiste società senza un linguaggio condiviso: su questo deve essere fondata, da questo dev’essere garantita; proprio come una lingua ha bisogno di una collettività che la parli, trasformandola, e la renda norma, consacrandola. Il libro The City of Words dello scrittore e traduttore Alberto Manguel, che raccoglie le sue Massey Lectures del 2007, vuole proporci una diversa prospettiva per ragionare su queste affermazioni, offrendoci, da bravo scrittore, molte domande e poche risposte: per fortuna, perché non sono necessarie. Invece d’indagare il dato politico ed economico che rende una certa società com’è, è messa in luce la capacità relazionale e fondante della lingua letteraria: i cinque saggi − The Voice of CassandraThe Tablets of Gilgamesh, The Bricks of Babel, The Books of Don QuixoteThe Screen of Hal − mostrano come da sempre, cioè dai più antichi reperti letterari che possediamo, l’uomo, per attestare e contribuire alla creazione di una comunità, abbia avuto bisogno di stories, ovvero: di parole diverse da quelle che si utilizzavano ogni giorno, che sapessero raccontare e spiegare fatti straordinari, ma che allo stesso tempo sottolineassero l’appartenenza a una certa società che di quelle parole si serviva. Fino a un attimo prima dell’invenzione della stampa, e fino a molto dopo, quando con la scolarizzazione si ebbe  un’adeguata diffusione dell’alfabetizzazione, la lettura non era una cosa individuale: a tutti gli effetti, la letteratura era un fatto sociale. Era il luogo di uno scambio e di un riconoscimento: comunicare non ha mai significato solo trasmettere, «c’è invece il cum, il communis, il comune e la comunità, e c’è soprattutto il munus, il dono e/o l’obbligo reciproco che concerne i soggetti che condividono un luogo comune. […] Anche la comunicazione, per essere tale, presuppone a suo fondamento un luogo comune, una comunione o un “essere con l’altro”, un essere almeno in due» (R. Ronchi,  Filosofia della comunicazione, pp. 199-200). 

l'autore

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Se oggi è comodo licenziare la questione della narrativa dicendo che tutto ormai è storytelling, Manguel ribatte che questo fa di tutti noi dei lettori. La capacità evocativa del linguaggio, infatti, ci permette di vedere quanto ci viene raccontato: anche quando siamo ascoltatori, noi stiamo leggendo l’immagine che viene creata per noi dalle parole. Numerose civiltà hanno fissato e tuttora basano la loro parola su impulsi visivi: gli Egizi sono forse l’esempio  più celebre e immediato, ma anche la scrittura a ideogrammi dei popoli orientali, ancora attiva e quasi immutata, si basa su una trasposizione e  semplificazione di immagini. Ed è così, inoltre, che funziona la pagina web: per padroneggiarla serve la stessa visual literacy che usavano gli Egizi, ovvero un’abilità visiva che non richiede solo un certo senso estetico, ma che dà la precedenza all’immediatezza percettiva e comunicativa.
La parola quindi, che sia pronunciata o scritta, indica sempre qualcosa;  se manca un referente visibile, tenta di portarlo nel mondo con metonimie, metafore e altre figure che fanno slittare il senso di poco, ma che efficacemente lo portano alla luce: nascono così, per esempio, le divinità, i bestiari, le poesie, gli studi della psicanalisi. Parlando, mettiamo al mondo il pensiero: la conversazione ci aiuta a dar corpo − per quanto sia quello sottile e invisibile della voce − a quel qualcosa che ci roteava nella testa fino a un attimo prima e che, con l’aiuto dell’altro, può finalmente venire espresso. La conversazione è il luogo in cui esiste il corpo della parola: «quel che domina [nel diritto romano e che lo attesta], è il rituale della transazione, il fatto che queste parole siano state pronunciate, quei gesti compiuti» (C.  Castoriadis, L’enigma del soggetto, p. 38).

Fuori dalla lingua esiste il mondo, certo, ma non è a misura nostra, è pieno di minacce e di imprevisti, va padroneggiato in qualche modo: dotato di pollice opponibile e di linguaggio, non a caso la prima cosa che Adamo ha fatto è stato dare un nome alle cose. Il nostro atto di nominare non ci rende solo padroni, ma soprattutto conoscitori del mondo: gran parte delle nostre esperienze le possiamo fare solo per ipotesi, e le ipotesi si formulano a parole o con il supporto di numeri, ed è esattamente così che funziona la letteratura. Se leggiamo per poter vivere più esperienze possibili nel poco tempo umano che ci è concesso, allora anche gli scrittori, dobbiamo immaginare, saranno mossi dallo stesso principio: i loro personaggi sono un tentativo di vita, una prova di reazione su carta, e il testo narrativo una «vaccinazione».  «Words not only grant us reality; they can also defend it for us» (p. 11): la nominano, la circoscrivono, la controllano, la proteggono, la ritagliano dall’immenso caos del resto del mondo creando un cosmo − che ha nella sua etimologia greca il concetto di ordine e armonia. Così l’uomo esce dall’ambiente, che è ciò che la natura gli offre, e crea la cultura: con le parole. Le prime premure del conquistatore (una volta che ha deciso di stabilirsi, chiaro, soddisfatto il corpo, insomma) sono l’imposizione, non a caso, della lingua e della religione:  «un mondo non è davvero nostro finché non lo abbiamo linguisticamente colonizzato» (F. Frasnedi, Lingua e cultura italiana, p. 8).

di Michael Lipsey (stoicmike.tumblr.com)

di Michael Lipsey (stoicmike.tumblr.com)

La stabilità che ci offrono la grammatica e la norma non deve (più) essere percepita come un’imposizione o una distanza: è davvero la nostra possibilità di reinventare continuamente la lingua, parlandola e forzandola, perché, scrive Manguel, è paradossalmente proprio la sua natura, di codificare quello che c’è e dar corpo a quello che non si vede (ancora),  che permette al linguaggio  di essere «reduced to dogma or, on the contrary, to flourish as literature»  (p. 130). Facciamo un esempio facile, perché è nostro. Per la prima volta nella sua storia, l’italiano rappresenta per le ultime generazioni di parlanti la lingua materna: appreso e dominato nella pratica e non tramite una grammatica scritta, il suo funzionamento è basato su e assicurato da un meccanismo percepito come spontaneo. Ciò mette il parlante in una posizione di agio nell’utilizzo e, proprio per questo senso di familiarità con la lingua, si sente autorizzato a un continuo rimaneggiamento dall’interno, per adattarla alle esigenze che si trova ad affrontare quotidianamente. Si riacquista gradualmente la capacità di saper far propria la lingua, quel padroneggiamento che era dato come garantito dai libri di grammatica è messo alla prova e recuperato nella quotidianità, nello scambio con l’altro, per arrivare di nuovo a dire «this is who I am, this is how I see you, these are the rules and transactions that holds together across space and over time» (p. 58).  Il linguaggio è il nostro comun denominatore, dice Manguel, e questa è l’unica cosa che ci possiamo assicurare l’un l’altro. Leggiamo perché le parole parlano anche di noi:  «stories can feed our consciousness, which can lead to the faculty of knowing if not who we are at least that we are, an essential awareness that develops through confrontation with another’s voice»  (p. 10). Se parliamo ci siamo; poiché abbiamo parlato siamo arrivati sin qui.

Language lends voice to the storytellers who try to tell us who we are; language builds out of words our reality and those who inhabit it, within and without the walls; language offers stories that lie and stories that tell the truth. Language changes with us, grows stronger or weaker with us, survives or dies with us.   (p. 124)

 


 tra il 1964 e il ’68, Alberto Manguel fu lettore personale di Jorge Luis Borges, ormai  diventato cieco.
Bonus: I giorni in cui non parli con nessuno.
L’immagine in evidenza è un muro in Sophienstraße, a Berlino, su cui sono scritte solo coppie di opposti.

Bibliografia
Castoriadis, Cornelius L’enigma del soggetto. L’immaginario e le istituzioni, postfazione di Fabio Ciaramelli, traduzione di Riccardo Currado, Dedalo, Bari 1998
De Carolis, Massimo Il paradosso antropologico. Nicchie, micromondi e dissociazione psichica, Macerata, Quodlibet 2008
Frasnedi, Fabrizio La lingua, le pratiche, la teoria. Le botteghe dell’agilità linguistica, Bologna, CLUEB 1999
Frasnedi, Fabrizio Sebastiani, Alberto Lingua e cultura italiana. Studio linguistico e immaginario culturale, Archetipolibri, Bologna 2010
Manguel, Alberto The City of Words, Continuum 2009
Ronchi, Rocco Filosofia della comunicazione. Il mondo come resto e come teogonia, Torino, Bollati Boringhieri, 2008
Steiner, George Vere presenze. Contro la cultura del commento, una difesa del significato dell’arte e della creazione poetica. traduzione di Claude Béguin, Milano, Garzanti 2006

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