Alla ricerca del libro perfetto di Paolo Nori

Scoperto Paolo Nori mi è sembrato che si rivelasse un mondo. La scrittura finalmente usciva dalla pagina e ridevo, mi commuovevo, mi immedesimavo, non riuscivo a smettere di leggere.

Dietro ciò che sembra estremamente banale nei suoi libri, c’è un grosso lavoro sulla tecnica: come ausilio alla scrittura, usa un registratore; si riascolta e corregge. L’elemento fondamentale per capire Nori è lo scarto che essenzialmente risiede nell’avvicinare, alle estreme conseguenze, la scrittura ai fenomeni che avvengono nella conversazione, nel dialogo. La virgolazione non è più usata per stabilire i rapporti sintattici, bensì esclusivamente ritmici: fenomeno che, insieme agli elementi lessicali e retorici, dà un’idea di scorrettezza in un testo scritto.

Per esempio, Si chiama Francesca, questo romanzo: una virgola tra soggetto e verbo. Un banalissimo errore di grammatica nel titolo di un romanzo, in letteratura, nella roccaforte del linguaggio.

Sempre si tratta di uno scarto, talvolta contenutistico, talvolta riguardo i registri linguistici. E l’obbiettivo non è tanto quello di creare situazioni comiche – anche se alcune volte ciò avviene – ma di creare uno straniamento, per vedere dunque le cose che ormai troviamo ovvie e consuete di nuovo per la prima volta. Un progetto di revitalizzazione, che in letteratura spesso avviene attraverso il linguaggio. Paolo Nori è anche un grande traduttore di letteratura russa e si suppone che conosca bene Sklovskij e i formalisti.

Un altro elemento importante è ciò che chiamerei la poetica del bar. Nei suoi libri si parla spesso del bar come di un luogo in cui succedono cose stupefacenti; tutt’altro che vuoti e stereotipati i discorsi da bar per Nori: interessanti sono le situazioni e non solo il contenuto ma anche la forma dei discorsi. Tutto questo sulla scia di Gianni Celati che è stato forse davvero uno dei primi nella letteratura italiana a pensare che i luoghi comuni avessero un valore. Basti prendere ad esempio questa frase di Celati per capire la distanza di questo mondo dalla letteratura ufficiale: «Il mio lavoro sui racconti quotidiani è stato visto spesso come una fessa nostalgia dei tempi andati. Lo stesso Calvino una volta ha perso le staffe, gridandomi che i racconti orali sono tutti privi di interesse e informi» (Letteratura come accumulo di roba sparsa, in «Riga»).

Mi si conceda ora una confessione di lettore di Paolo Nori. Per usare alcune parole che si trovano nel saggio di Giacomo Debenedetti, Autobiografia e critica, si sa che a stimolare il rasoio della critica è la poesia delle impressioni. Possibile che qualcosa si perda però in questa operazione di selezione e oggettivazione e che magari la strada è un’altra ma la meta è la stessa: il giudizio critico?

Dopo la scoperta di Nori ho continuato a comprare e leggere i suoi libri con trasporto, alcuni ancora mi piacevano tanto; altri meno, lentamente l’entusiasmo iniziale si affievoliva. Dopo Si chiama Francesca, questo romanzo,  ho proseguito con La banda del formaggio, Siamo buoni se siamo buoni, La meravigliosa utilità del filo a piombo. Quando già iniziavo a essere un po’ stanco mi è capitata sotto mano la prima edizione di Bassotuba non c’è: bellino, alcuni vertici inventivi fenomenali, ma un po’ grezzo, non solo nella tecnica ma nelle idee. Uscito quello sulla figlia, Battaglia, l’ho preso, ma era pieno di cose che avevo letto negli altri romanzi – Paolo Nori si ripete e la cosa è in linea con la sua idea di oralità, del cantastorie con un ben preciso repertorio. Oltre che ad annoiarmi perché conoscevo già le storie, cominciavo a vedere un po’ la maniera, ma ero affezionato e per mantenere viva la passione ho deciso di cominciare a leggere quelli più elaborati, dove pensavo di trovare qualcosa di nuovo e meno arrugginito. E quindi Pancetta: per la prima volta con Nori ho abbandonato il libro e non sono arrivato alla fine.

In libreria mi capita di trovare La vergogna delle scarpe nuove. Edizione bellissima, con un particolare da una foto di Ghirri in copertina. Nei titoli di ogni paragrafo c’erano delle parentesi quadre: “le stesse che si usano nelle edizioni critiche?”. Ricordavo di aver visto tempo prima un video che sembrava amatoriale in cui c’erano più silenzi che parole e mi sembrava bellissimo, parlava dell’incomunicabilità – meglio, pensavo, dei film di Antonioni – con anche una punta di leggerezza e ironia. Ho comprato il libro e non mi è piaciuto, mi sono fermato verso pagina cinquanta.

A quel punto ho pensato, avendo vivido il ricordo felice di Francesca, che fosse quello il romanzo perfetto. L’ho ripreso, ma era brutto come gli ultimi libri che avevo letto. O meglio, era bello, ma per trovarlo di nuovo perfetto avrei dovuto dimenticare tutti i libri letti dopo quella meravigliosa lettura d’esordio e il libro non era estraniante a sufficienza per quanto riguarda questa seconda necessità.

Consiglio a tutti di leggere Paolo Nori, ma un libro è sufficiente, poi bisogna passare ad altro.

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L’immagine di copertina è una foto di Luigi Ghirri trovata su questo sito.

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