Amabili testi, Amabili resti: a che cosa servono i libri

Se quanto è scritto qui leggi, ti sia
de’ secoli trascorsi aperta innanzi
la serie intera. Del meonio vate
né tu avrai poscia a consultar le carte,
né a ricercar quanto con dolci versi
cantar le muse o in flebile elegia,
o in tremende tragedie. In me qualunque 
cosa il mondo grandissimo comprende
tu troverai; altro a te non sia d’uopo.

Ho iniziato a leggere assiduamente in prima elementare, e il motivo per cui ho sfogliato per la prima volta un numero di Topolino si chiama Giacomo.
Giacomo era un mio compagnetto di classe, e di lui mi ricordo tre cose: la mano perennemente alzata, l’aria di sufficienza e il desiderio cieco di sminuirlo che riusciva a farmi provare.
Lo odiavo. Ho sperato migliaia di volte che la macchina di una mamma qualunque lo investisse. Che un cane randagio gli strappasse gli occhi. Che la maestra lo umiliasse. Nessun adulto può immaginare di quanta ferocia e di quanta violenza si alimenti la fantasia di un bambino. Molti invece possono capire come fosse Giacomo, perché è il classico figlio di amici davanti al quale ti chiedi, tra lo stupito e l’irritato, come si possa essere così stronzi a soli sei anni. Anzi: stronzi già a sei anni.

A ogni modo, ho iniziato a leggere assiduamente per Giacomo, perché volevo leggere meglio e più velocemente di lui.
Ho continuato a farlo, durante l’adolescenza, per sfuggire al disagio che mi causava il contatto con gli altri.
Non sapevo gestire i rapporti interpersonali e, soprattutto, avevo un senso dell’umorismo incompatibile con quello dei miei coetanei. Credo a tutt’oggi che non ci sia niente di più tremendo che avere diciassette anni, essere in gruppo e non riuscire a ridere delle battute di cui ridono tutti gli altri.

La lettura fine a se stessa è stata una conquista degli anni universitari, quando ho cominciato a capire, dentro le biblioteche universitarie e tra decine di casi umani come me, che non c’è niente di strano nell’essere diversi.
In quegli anni, mentre io restavo liquida, ha cominciato a prendere forma la mia biblioteca. Ho contato mille volte, e sempre per motivi di spazio, i libri, e poi le mensole, gli scaffali, gli scatoloni. Ogni volta il cuore mi si riempiva insieme d’amore e d’angoscia.
Perché una biblioteca casalinga è fatta di cura, di gusto, di desiderio, di esperienza, di persone, di voci, ma soprattutto di tempo.

Il tempo mio umano, speso per acquistare i libri, per sceglierli tra una chiacchierata con Gregorio* e l’altra, per leggerli, per metabolizzarli.
E poi il tempo immortale di chi li ha scritti, di chi li abita, di quello che rimane intrappolato nel nostro immaginario (nostro di noi lettori e nostro di tutti noi).

Umberto Eco aveva detto qualcosa di simile nel 2007, all’inaugurazione del Salone del libro di Torino:

Una biblioteca non è una somma di libri, è un organismo vivente con una vita autonoma. Una biblioteca di casa non è solo un luogo in cui si raccolgono libri […] la biblioteca non è solo il luogo della tua memoria, dove conservi quel che hai letto, ma il luogo della memoria universale, dove un giorno, nel momento fatale, potrai trovare quello che altri hanno letto prima di te. È un repositorio dove al limite tutto si confonde e genera una vertigine, un cocktail della memoria dotta.

Umberto Eco tra i suoi libri, a casa.

Umberto Eco tra i suoi libri, a casa.

Ma Eco non è il primo: fa eco a moltissimi altri scrittori che hanno concepito la biblioteca come tempio della memoria universale.
MI vengono in mente Leucippo, la Biblioteca di Pseudo-Apollodoro che si apre con gli stessi versi che ho posto in apertura di quest’articolo, La biblioteca universale di Kurd Laßwitz e, soprattutto, La biblioteca di Babele di Jorge Luis Borges, su cui Eco ha scritto il saggio (poco convincente) Sémaphores sous la pluie, e la più nota opera di Marguerite Yourcenar, Mémoires d’Hadrien. Ma in realtà tutto Borges e tutta Yourcenar: libri e immortalità sono temi ricorrenti in entrambi, fili conduttori di tutta la loro opera.

Borges ipotizza, nel finale del racconto succitato, una sterminata serie di volumi in cui è concentrato tutto ciò che può essere espresso e in tutte le lingue.

M’inganneranno, forse, la vecchiezza e il timore, ma sospetto che la specie umana – l’unica – stia per estinguersi, e che la Biblioteca perdurerà: illuminata, solitaria, infinita, perfettamente immobile, armata di volumi preziosi, inutile, incorruttibile, segreta. Aggiungo: infinita. Non introduco quest’aggettivo per un’abitudine retorica; dico che non è illogico pensare che il mondo sia infinito. Chi lo giudica limitato, suppone che in qualche luogo remoto i corridoi e le scale e gli esagoni possano inconcepibilmente cessare; ciò che è assurdo. Chi lo immagina senza limiti, dimentica che è limitato il numero possibile dei libri. Io m’arrischio a insinuare questa soluzione: La Biblioteca è illimitata e periodica. Se un eterno viaggiatore la traversasse in una direzione qualsiasi, constaterebbe alla fine dei secoli che gli stessi volumi si ripetono nello stesso disordine (che, ripetuto, sarebbe un ordine: l’Ordine).

RIcostruzione in 3D della Biblioteca di Babele ipotizzata da Borges.

Ricostruzione in 3D della Biblioteca di Babele ipotizzata da Borges.

La Biblioteca di Babele è dunque un luogo immortale che ogni uomo, di ogni parte del mondo, può attraversare per recuperare la memoria collettiva, la cultura, persino l’essenza dell’uomo.

È quanto sostiene indirettamente Marguerite Yourcenar nei Taccuini di appunti, la raccolta dei pensieri che ha appuntato sul suo taccuino durante la progettazione e la stesura di Memorie di Adriano.
L’intento di Yourcenar non è ripercorrere la sola esistenza di Adriano o di Antinoo o dei romani al tempo del suo impero, ma

prendere come punto di contatto con quegli uomini soltanto ciò che c’è di più duraturo, di più essenziale in noi, sia nelle emozioni dei sensi sia nelle operazioni dello spirito: anche loro, come noi, sgranocchiarono olive, bevvero vino, si impiastricciarono le dita di miele, lottarono contro il vento pungente, contro la pioggia accecante, l’estate cercarono l’ombra di un platano, gioirono, pensarono, invecchiarono, morirono.

Marguerite Yourcenar.

Marguerite Yourcenar.

E per farlo, parte proprio da una biblioteca: quella dell’imperatore.
Annota sul suo taccuino: «uno dei modi migliori per far rivivere il pensiero di un uomo: ricostruire la sua biblioteca».
Il risultato è il capolavoro che conosciamo e che descrive – come avrebbe voluto Flaubert – un preciso attimo immortale«Quando gli dèi non c’erano più e Cristo non ancora, tra Cicerone e Marco Aurelio, […] un momento unico in cui è esistito l’uomo, solo».

In entrambi i casi c’è una biblioteca, che costituisce come secondo Namer (Mémoire et societé):

una memoria sociale risultato di una accumulazione e interazione di memorie collettive […] memoria di tutti i punti di vista culturali che rinviano a dei gruppi o a delle correnti di pensiero; memoria di tutte le lingue e di tutte le culture […] che si sono succedute e persino coordinate nel tempo.

Ma c’è anche un singolo capace di estrarre dalla memoria un supporto all’elaborazione della propria esperienza, cioè un uomo capace di creare una connessione intima tra i contenuti della propria memoria e quelli della memoria collettiva.

Questo singolo non c’è sempre. L’uomo della mid-cult di cui scrivevano Adorno e McDonald (Dwight) accumula informazioni ma non riesce a tramutarle in pratica particolare della memoria collettiva.
E in questi casi la biblioteca è la famosa polveriera di Gesualdo Bufalino (pensate alla parete attrezzata piena di bomboniere ed enciclopedie che si trova in molti salotti).

Edoardo Albinati, fotogramma estratto dalla terza puntata di Amabili testi.

Edoardo Albinati, fotogramma estratto dalla terza puntata di Amabili testi.

Ma quando il singolo è in grado di elaborare la propria esperienza della vita attraverso la lettura, ch’è l’esperienza della vita intesa nell’assoluto e nel particolare, l’esito è straordinario, e quasi sempre di altissimo valore artistico.

Basta pensare ai grandi lettori che diventano, a un certo punto, grandi scrittori, grandi fotografi, grandi registi. Anzi: basta guardare un programma che dal 31 ottobre va in onda ogni lunedì su Rai 5: Amabili Testi.

Il conduttore del programma è Edoardo Albinati, lo scrittore che conosciamo per il romanzo La scuola cattolica, Premio Strega 2016, e per la sceneggiatura del Racconto dei racconti di Matteo Garrone.
Il format è molto semplice: Albinati visita, per cinquanta minuti circa, la biblioteca privata di un artista, che racconta se stesso, la propria arte e la propria storia facendo riferimento a libri che ha amato particolarmente, che lo hanno ispirato, che hanno avuto un impatto molto forte sulla propria poetica e sulla propria esperienza della vita.

È un programma culturale incredibilmente piacevole e leggero, e tra le altre cose è interessante vedere la diversità d’approccio rispetto all’oggetto-libro: c’è chi li dispone alla francese (impilati sul pavimento), chi li ordina per edizione, chi sottolinea o appunta a margine delle pagine, chi inserisce post-it tra le pagine, chi disegna qua e là…

Finora Albinati ha visitato le biblioteche di Paolo Fresu, Gianni Berengo Gardin, Luigi Ontani e Marco Bellocchio, cioè, nell’ordine, di un musicista, di un fotografo, di un pittore-scultore e di un regista. E nella puntata di lunedì prossimo ci sarà Antonio Marras, uno stilista.
Nessuno scrittore, dunque, come a voler dire che i libri non servono solo a chi li scrive o si interessa di scrittura per motivi professionali, ma a tutti, e di più: all’umanità intera.

Locandina di Amabili resti.

Locandina di Amabili resti.

Rimane il titolo del programma. Perché Amabili testi, ch’è il metagramma del potentissimo romanzo di Alice Sebold Amabili resti (2002)?
Per capirlo servirebbe leggere il libro (o per i più intuitivi guardare il film che ne ha ricavato Peter Jackson), e credetemi che questo è solo l’ultimo dei buoni motivi per cui farlo.

La trama, in breve, è questa: la quattordicenne Susie Sandon viene sequestrata, stuprata e fatta a pezzetti nel nascondiglio sotterraneo di un vicino di casa. Finisce in un luogo che chiama Cielo, dove incontra una ragazza morta di morte violenta incaricata di guidarla in paradiso, ma la ragazza l’avverte che per poter raggiungere il paradiso deve lasciarsi alle spalle ogni cosa che riguarda la vita: il dolore, la rabbia, il desiderio di vendetta, il rimpianto. Tutti i sentimenti umani che prova, compresi quelli per i suoi familiari che Susie, dal limbo in cui è finita, può continuare a osservare e seguire.

La correlazione tra il programma e romanzo è dunque espressa, almeno in parte, dal sottotitolo della trasmissione: un curioso tra i libri degli altri. Albinati, come Susie Salmon, curiosa nella vita degli altri. Lei guarda la vita di chi ama dall’alto, Albinati lo fa guardando dentro le librerie.
Ma non si tratta solo di questo. Nel romanzo, Susie dice di voler raccontare la storia della sua famiglia perché «l’orrore sulla Terra è reale e accade tutti i giorni. È come un fiore o come il sole, è qualcosa di incontenibile». E certo, di ineluttabile.

La famiglia di Susie accetta la sua morte, a un certo punto. E lei accetta che la sua famiglia sopravviva alla sua assenza, che il mondo continui senza di lei nella sua immutata bellezza.
Lo leggiamo in questo passo dalla struggente delicatezza:

Mia madre aveva affidato i fiori a nonna ed era salita quasi subito di sopra, adducendo la scusa che doveva andare in bagno. Tutti sapevano qual era la sua meta: la mia vecchia camera da letto. Si fermò sulla soglia, sola, come se fosse sull’orlo del Pacifico. La camera era ancora color lavanda. I mobili, a parte la poltrona reclinabile di nonna, erano gli stessi. «Ti voglio bene, Susie» disse. Avevo udito mio padre pronunciare queste parole tante di quelle volte che per me fu uno shock; senza saperlo, avevo sempre aspettato di sentirle da lei. Le ci era voluto tempo per capire che questo bene non l’avrebbe distrutta e io, mi resi conto in quel momento, le avevo dato tempo, avevo potuto darle tempo, perché di tempo ne avevo da vendere. […] Stava cominciando a chiedersi quanto le fosse servita in tutti quegli anni la sua tattica di far sempre terra bruciata intorno a sé. […] Quanto le ci voleva ancora per rassegnarsi, per imparare ad accettare non solo i morti ma anche i vivi?
Io non ero nel bagno, non ero nella vasca, né nel rubinetto. […] In qualche modo non riuscivo a spiegarmelo: avevano raggiunto uno stato di grazia? I miei erano tornati insieme per sempre? Buckley aveva cominciato a confidarsi con qualcuno? Le ferite di mio padre si sarebbero rimarginate davvero? Avevo finito di aver nostalgia di loro, e di sentire il bisogno che loro avessero nostalgia di me. Anche se non mi sarebbe passata. Anche se non gli sarebbe passata. Mai.
Guardando la mia famiglia brindare a champagne, pensai al fatto che dalla mia morte le loro vite si erano trascinate avanti e indietro; ma poi, mentre Samuel prendeva l’audace decisione di baciare Lindsey in una stanza piena di parenti, le vidi sollevarsi e lasciarsi portare via lontano.
Queste erano le bellissime ossa cresciute intorno alla mia assenza: i legami – a volte esili, a volte stretti a caro prezzo, ma spesso meravigliosi – nati dopo che me n’ero andata. E allora cominciai a vedere le cose in un modo che mi lasciava concepire il mondo senza di me.
Gli avvenimenti cui la mia morte aveva dato luogo erano semplicemente le ossa di un corpo che in un momento futuro imprevedibile sarebbe divenuto intero. Il prezzo di quel che ormai vedevo come un corpo miracoloso era stato la mia vita. Papà guardò la figlia che aveva davanti. La figlia ombra non c’era più.

Amabili resti è un inno all’accettazione, un invito a conciliarsi con il dolore del mondo e ad accettare ciò che ci fa soffrire come qualcosa di inevitabile e immutabile, non di ingiusto.

Mentre lo leggevo, mi è capitato di piangere. Perché tra le righe, e nelle pieghe della storia di Susie e della sua famiglia, affioravano le assenze, le pene, le microfratture interne. E le elaboravo, come fino a quel momento avevo evitato di fare per paura: le ombre sono specchi che non tagliano.
So che Alice Sebold piangeva mentre lo scriveva, perché affiorava il dolore di uno stupro subito durante l’università e mai realmente superato.

È questo che fanno i libri, le storie: raccontano quel dolore che accomuna ogni singolo a un altro singolo e tutti i singoli a quelli che si sono succeduti nell’intera storia dell’umanità. Raccontano come e quanto la vita possa essere dolorosa. E nel raccontarcelo, se siamo capaci di creare una connessione tra il nostro dolore e quello espresso, tra la nostra storia e quella narrata, ci insegnano ad addomesticarlo, a conviverci, ad affrontarlo.

Quando Susie incontra nel libro Flora Hernandez, un’altra bambina violentata e uccisa dal suo stesso stupratore, dice:

La nostra pena si riversò dall’una all’altra come acqua versata di tazza in tazza, e tutte le volte che raccontavo la mia storia ne perdevo un poco, una minuscola goccia di dolore.

È quello che mi capita quando leggo un buon libro, quello che – a guardare Amabili testi – capita a tutti. E fa bene al cuore mentre lo spezza, talvolta ci salva persino.
Fosse anche solo da noi stessi.

*Gregorio era il libraio della Libreria delle Moline di Bologna. Dico era perché, purtroppo, è morto nel 2011. Marta, la compagna di una vita, ha tentato di portare avanti la libreria da sola, ma ha chiuso l’anno scorso tra debiti e libri invenduti. Ora al posto della libreria c’è un ristorantino radical-chic, mentre al posto di Gregorio, nei nostri cuori, c’è ancora Gregorio.

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