Amelia Rosselli. Un contatto

Un giorno ho incontrato Amelia Rosselli e l’ho toccata. Era la prima volta, sapete. Io consumavo le mie centocinquanta ore di part time presso la Biblioteca della Facoltà di Lingue e Letterature Straniere Moderne dell’Università di Viterbo e lei era lì. Nel 2012, anno in questione, la Rosselli era già morta suicida da sedici anni. Eppure ho potuto toccarla. Presso quella biblioteca è custodito, con una certa gelosia, il Fondo Amelia Rosselli, praticamente l’intera biblioteca privata della poeta. Così, quando potevo, scendevo le ripide scale che portano ai depositi sotterranei, un tempo prigioni del complesso di Santa Maria in Gradi. Lì sfruttavo il piccolo privilegio di essere impiegato, scorrendo il dito sul dorso consunto dei libri e sfogliandone uno, di tanto in tanto. Libri ormai vecchi, consumati da dita di poeta. Ma, soprattutto, libri vivi di note e sottolineature, appuntati con grafia intima e minuta. Pagine intessute e stratificate, allora. Ho toccato la Rosselli, l’ho fatto fisicamente. E mi ha sussurrato della sua poesia.

Perché quella tessitura di letture è immagine perfetta della sua stessa poesia, che è sempre una realtà complessa e stratificata carica però di una propria geometria essenziale. I testi della Rosselli sono entità corporee e tangibili: così la sua lingua. Non potrebbe essere altrimenti per l’opera di chi si definisce <<poeta di ricerca>>, per la quale la poesia è luogo d’esperienza, è terreno di esistenza e complessità, di cristallizzazione di energie vitali. Leggere criticamente porta sempre con sé una certa pretesa normativa, di comprensione degli elementi costituenti una poetica: ciò è spesso difficile e ingiusto nei confronti della vitalità di un’opera, lo è ancor di più se il confronto è con la parola della Rosselli. Luogo d’accesso alla comprensione è sempre la formazione di un autore, quel percorso originale di sintesi di spinte eterogenee e casuali. Se è così, allora è facile intuire quanta delicatezza ci venga richiesta per approcciarci ad Amelia Rosselli. La poesia vive nel linguaggio ed è primariamente ed essenzialmente nella dimensione linguistica che la poeta ha vissuto e amalgamato la complessità delle proprie coordinate biografiche ed esistenziali.

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Amelia Rosselli alla finestra della sua casa di Via del Corallo, nel centro storico di Roma. Foto di Dino Ignan.

Il padre era l’italiano Carlo Rosselli, antifascista e socialista liberale; la madre l’attivista inglese Marion Cave. Nel 1930, Amelia nacque in esilio a Parigi e ancora bambina dovette trasferirsi a Londra, in seguito all’assassinio politico del padre e dello zio per ordine di Mussolini. Al di là del peso psicologico ed esistenziale di vicende tanto drammatiche, su cui torneremo, questi pochi cenni biografici ci sono sufficienti a comprendere la varietà delle realtà linguistiche nelle quali la poeta si è formata. E queste sono solo le lingue della formazione di Amelia Rosselli, che non esauriscono la totalità dei suoi linguaggi. Fondamentale fu infatti la dedizione allo studio della musica; altrettanto la sua passione civile e politica, viva anch’essa d’un proprio linguaggio. Ma il linguaggio è anche l’orizzonte di strutturazione dell’identità, di familiarizzazione consapevole con le prospettive pronominali. La contrattazione identitaria che porti il soggetto a poter dire <<io>> (anche per poterlo eliminare) è sempre anche contrattazione linguistica, che di quel soggetto faccia affiorare la lingua propria che quel pronome sappia pronunciarlo. Per farlo, è necessario dissacrare e desacralizzare le lingue ricevute in eredità, uccidere e tradire i padri per glorificarli nella vitalità di un’esistenza originale. Questo aspetto è essenziale e strutturale nell’opera della Rosselli, se è vero, come afferma Giovanni Giudici, che “[tema portante della poesia di Amelia Rosselli è] la lingua: intesa nel senso generale di linguaggio, in quanto facoltà umana, mezzo di esplorazione, sperimentazione e (appunto) invenzione” ¹.

Possedere la propria esistenza non poteva non essere atrocemente doloroso per Amelia Rosselli. Un’esistenza fatta di peregrinazioni e fughe, lutti, la fatica continua d’un riconoscimento culturale e identitario e la tragedia della propria coscienza politica: eppure un’esistenza da possedersi, necessariamente. Un’esistenza tanto violentemente complessa da disperdere energie psichiche incontenibili, che presero la forma drammatica della schizofrenia, della paranoia, della depressione. E che, l’11 febbraio 1996, la portarono a gettarsi da una finestra del proprio appartamento romano in Via del Corallo.

Tali energie turbolente, che sono l’io stesso della poeta, presero spesso, sul foglio, la forma del gioco. Un gioco simulatorio, fatto di accumulazioni, analogie e utilizzi parodici dei registri linguistici; un gioco atto a rendere reintegrabili le grandi ferite della propria vicenda biografica. In questa scrittura ludica, come vedremo, le parole sono sapientemente deformate nella propria dimensione semantica e sintattica, nonché spesso anche morfologica. Un gioco tanto calibrato e naturale da spingere Pasolini, in una celebre nota introduttiva pubblicata sul “Menabò” nel 1963, a rilevare nella poesia della Rosselli un’ingente presenza di lapsus. Ma se nella propria quotidianità Amelia Rosselli tragicamente non riusciva a governare tutte le spinte che la componevano, nella scrittura poetica era finissima direttrice d’orchestra e, a tal ragione, ogni eccentricità linguistica è da leggere in una studiata dimensione ludica più che nell’analisi di lapsus incontenibili. Lì, tra i fili del gioco, si ritrova l’io della poeta, che muove il meccanismo e dal quale si irradia l’incredibile libertà espressiva dei suoi componimenti. Prima di seguire il percorso poetico della Rosselli, fermiamoci un attimo sulla lettura di un passo di una sua celebre poesia, pubblicata nel 1959 nella sezione Poesie della raccolta Variazioni belliche.

[…] Tarda arrivavo alla pietà – tarda giacevo fra
dei conti in tasca disturbati dalla pace che non si offriva.
Vicino alla morte il suolo rendeva ai collezionisti il prezzo
della gloria. Tardi giaceva al suolo che rendeva il suo sangue
imbevuto di lacrime la pace. Cristo seduto al suolo su delle
gambe inclinate giaceva anche nel sangue quando Maria lo
travagliò. […]

Attraverso un meccanismo incredibilmente sapiente di riprese lessicali (che ho voluto rendere evidenti attraverso i colori), la poeta riesce a traslare in un modo atrocemente naturale dal proprio io all’espressionistica figura del Cristo morente (passando per ulteriore un cambio di soggetto: da <<io>>, sottinteso, a <<pace>>), dal particolare della propria biografia al significato universale dell’essere umano che si immola a se stesso. È in una sorta di sfumare semantico che la ripresa quasi ossessiva del verbo <<giacere>>, del <<suolo>>, del <<rendere>> e della coppia <<tarda>>/<<tardi>> permettono la creazione di questa immagine così perfetta e dolorosa. Il proliferare di variazioni non è allora un’energica liberazione psichica mediante lapsus, ma un continuo gioco di innesco di significati nuovi e rinnovati che consentono all’io della poeta di esistere, eliminandosi.

Seguiamo però Amelia Rosselli nel proprio percorso, provando a toccare, è il caso di dirlo, il corpo della poesia nel suo sviluppo. Assidua sperimentatrice in molteplici arti – fondamentale l’esperienza musicale -, la Rosselli si confrontò con la scrittura poetica sin da giovane, in inglese e francese. Il primo approdo all’italiano avvenne nel 1953 con Cantilena, sorta di litania funebre, insieme di brevi e musicali recitativi, composta in occasione della scomparsa dell’amico Rocco Scotellaro. Ma la prima opera in versi propriamente compiuta in italiano è il poemetto La Libellula, scritto nel 1958 e pubblicato solo undici anni dopo. Tra parentesi compare una sorta di sottotitolo, una specificazione preziosa: (Panegirico della Libertà). Prezioso, dicevo, poiché ci fornisce una chiave interpretativa importante, per un testo tanto lieve da rischiare di sfuggirci come una libellula, appunto. Quella contrattazione con la tradizione tradita (nella totalità dei significati di <<consegnata>> e, poi, <<rinnegata>>, secondo la splendida storia semantica di questo participio latino) dei padri, di cui prima parlavamo come di un percorso ineludibile nella strada per la costituzione di una propria struttura identitaria, è esattamente il punto di partenza del poemetto.

La santità dei santi padri era un prodotto sì
cangiante ch’io decisi di allontanare ogni dubbio
dalla mia testa purtroppo troppo chiara e prendere
il salto per un addio più difficile […]

Tradire il padre è sempre difficile. Lo è ancor di più per chi, come la Rosselli, vive con dolore estremo il proprio rapporto con l’immagine del padre. Ma, come sempre nella sua poesia, il dato biografico si traspone nella dimensione dell’universalmente umano. Così quei padri non sono solo il padre e lo zio uccisi, ma anche i padri spirituali e intellettuali consegnati dalla tradizione letteraria di tre diverse culture. La santità dei padri è per la Rosselli qualcosa di cangiante e dunque instabile e inaffidabile per la costruzione dell’io e come tale da tradirsi per necessità, per sopravvivenza. Cangiante perché un omicidio politico confonde drammaticamente i piani del pubblico e del privato, rendendo impossibile da possedere un rapporto intimo e costruttivo con il ricordo; la morte, poi, consegna di per sé al dominio della mitizzazione coloro che perdiamo. Ma cangiante anche perché i padri -letterari, questa volta-, non erano per la Rosselli padroni di una casa, ma di tre diversissime dimore linguistiche e culturali: arduo, per la poeta, riconoscere la propria residenza. Se poi ci si lascia suggerire dal termine <<cangiante>> il rimando alla celebre Pied beauty: la bellezza cangiante di G. M. Hopkins, nella traduzione di Eugenio Montale, la complessità di un tale incipit ci appare più chiara. In quell’opera Hopkins, poeta fondamentale per Amelia Rosselli -e forse proprio uno di quei santi padri-, canta la drammatica varietà delle manifestazioni di Dio, che è l’unica bellezza fissa ma che solo per le proprie concretizzazioni imprendibili ci si offre. In questo smarrimento vertiginoso, la Rosselli non può che tentare il salto più difficile, l’addio più doloroso. Ovverosia la costruzione di un’io senza l’appoggio a un <<tu>> in riferimento al quale costruire e costruirsi. Decide di crescere, nonostante tutto: e la fatica di tale balzo avrà risvolti drammatici nell’intero corso della sua esistenza. Guarda caso, particolarmente seri furono i malesseri della poeta legati a una struttura psichica fortemente paranoica. Perchè è nella relazione con l’altro, nel dialogo con un tu, che si costituisce l’io: è per l’alterità, come lucidamente ha rilevato Lévinas², che deve passare. Questa alterità non è solo quella dei soggetti umani, ma anche quella, terribile e sacra, di Dio (pensiero costante, nella travagliata religiosità della poeta). E quando al v.10 (“[…]. E tu le tue sante / brighe porterai ginocchioni a quel tuo confessore / […]“) la Rosselli si rivolge a un tu, lo fa con un tono ironico e quasi sprezzante, riferendosi all’assenza di un referente più che a un referente; alla presenza-assenza che, pur partendo dal suo dolore biografico, risiede nell’assoluta alterità divina ed è uno dei grandi elementi della sensibilità moderna. E’ un tu apparentemente inutile, giacchè poco dopo la poeta scrive “[…] Dunque / come dicevamo io ero stesa sull’erba putrida / e le canzoni d’amore sorvolavano sulla mia testa / […]“: si prende gioco di quel tu, lo squalifica in quella ripresa di discorso che pone al centro, mi verrebbe da dire con il vitale egoismo della giovane innamorata, l’io. Personalmente, sostengo con assoluta fermezza che quel tu tanto inconsistente sia però tutt’altro che inutile, anzi fondamentale: inconsistente e intangibile, sì, cangiante anche, certo, ma necessario per provocare nella poeta -e nei poeti in generale- quella stizza o quel dolore che soli danno forza alla parola io.

La libertà, abbiamo visto, è centrale nella ricerca della Rosselli e la scrittura ne è esercizio costante. Questa ricerca fortemente solitaria si appoggia sulla strutturale tendenza a riprodursi in figure altre, anche dal punto di vista sonoro. A variare sul tema, allora, in quello che può essere visto come un lapsus, un gioco o forse ancor meglio un proliferare di sempre perfettibili tentativi dell’io. Variazioni Belliche, edito da Garzanti nel 1964, è il titolo della raccolta forse più famosa della poeta. La mutuazione dal gergo musicale rende subito ragione di quanto detto e rimanda a uno scritto del 1962, Spazi metrici, che è una vera e propria dichiarazione di poetica. A sua volta, mi si permetta questo gioco di rimandi fra titoli, forse un po’ azzardato, <<spazi>> ci porta alla dimensione della fisicità, della corporeità. Questa parabola riassume perfettamente, però, l’essenza della poesia di Amelia Rosselli. La poesia è musica, ma è anche corpo, è tangibile. Per questo mi son permesso di affermare di averla toccata: perchè chi legga con apertura la poesia di Amelia Rosselli non può che avere con essa un vero incontro fisico. L’essenza della sua poesia è in definitva, come la sua dichiarazione stessa suggerisce, energia psichica, che produce fintanto che non si sia esaurita. E che, in quanto energia, riproduce se stessa di continuo in forme nuove ma di egual natura e vive ambiguamente nella dimensione del corporeo e dell’aereo, proprio come la musica: il cerchio si chiude.  Ma lo <<spazio metrico>> è anche la grande innovazione teorica e stilistica di Amelia Rosselli, atta a governare quell’energia che va armonizzata come un flusso musicale e resa solida come un corpo materiale. La riflessione teorica della Rosselli elabora allora l’idea di una <<poesia cubica>>, solida e corporea, fondata non più sulle nozioni prosodiche tradizionali, ma sul verso come nuova unità di misura che va a costituire un solido geometrico, all’interno del quale, in ogni verso, si riproduce e si varia armonicamente la particolare cadenza impressa dal primo. Cosicché, alla fine, la poesia sia una struttura solidissima, corpo emozionale unico e portatore d’un senso complessivo. I testi qui contenuti sono canti di guerra, il titolo lo suggerisce. Ma sono anche canti d’amore passionale per l’esistere. Sottolinea Ambra Zorat, che lungamente ha frequentato la poesia della Rosselli, che in Variazioni  “aboliti i confini tra privato e pubblico il tema della guerra, che pure è in qualche modo da rapportarsi alla crisi di quegli anni e al clima teso della guerra fredda, si diparte dai concreti riferimenti contestuali e diventa metafora di un conflitto e di una condizione umana universali”³. I piani dell’esistente si compenetrano e dunque belliche sono le esperienze relative alla Seconda Guerra Mondiale, che costituiscono in qualche modo, con Benjamin, il contenuto reale dell’opera; ma belliche sono anche le tensioni insolvibili tra io e tu, che fondano l’inafferrabile dialogo poetico della Rosselli. La lingua di queste poesie, lo vedremo, è dura e aspra, difficile. Non potrebbe essere altrimenti, poiché all’interno di quei cubi si gioca la libertà contrattuale ed espressiva dell’esistenza linguistica della poeta. Tanta è la complessità che i curatori della pubblicazione, Pasolini e Vittorini, il primo dei quali parlò appunto di lapsus in riferimento al proliferare di variazioni (ma che la poeta, in più di un’intervista, definì del tutto intenzionale), chiesero all’autrice un Glossarietto esplicativo di supporto alla lettura. Leggiamo qualcosa.

Se dalle tue protese braccia scorgevo un’altra irrequietudine
se dal tuo amore tutti i lumi si spegnevano: se dall’amore
nasceva disordine ed immoralità; se per il tuo occhio lucido
e la tua fronte perlata io scorgevo un altro cielo ed un’altra
luce nel cielo ed i colori farsi più vividi: se dal tuo
amare le amare ozie della vita scorgevo in me un difetto
allora correvo ai ripari.

Nella tempesta seguiva una corsa ai ripari. Nella notte
riparavo. Se nella tempesta sparavo se nell’incontro ascoltavo
altri che te; se nella tela che tutto sbiadiva capivo d’esser
stata tradita: – se nell’amore strascicavo parole forse
amarissime: – era per te che con il tuo filo di ragno aspettavi
era per te che con la mia rivoltella puntata velocemente su
delle mie tempie aspettavo in vano. Se dalla tua crudele
libertà aspettavo altro che la prigionia; se nell’amore
schiamazzavo; se nella tua pupilla scorgevo altro bene
oltre il tuo affanno: – allora era caduta la stella dal
cielo e le mie ironie si diffondevano sinuose per le tue
rimembrate braccia acute.

La poesia inizia con un’ipotetica; ben 24 poesie, nella raccolta, seguono questa scelta, andando a comporre un corpus solido di variazioni all’interno del libro. Variazioni di variazioni, dunque, in un gioco che può protrarsi all’infinito. Sarebbe difficile individuare il motivo di un numero così ampio di componimenti inizianti in questo modo, ma certo l’utilizzo dell’ipotetica dava alla poeta la possibilità di sfondare il muro crudele della realtà fattuale, consentendo all’io di germinare nell’infinità delle proprie ipotesi esistenziali e ricostruirsi nella propria complessa vastità. E il dramma, violentissimo, della poesia sta proprio nel dialogo tra finito e infinito, al quale la serie di ipotesi è funzionale. E, nuovamente, è necessario appoggiarsi al dialogo con un tu: dialogo necessario e violento, poiché limitante. La grande tragedia dell’esistenza, che si vive sacrificandosi al cospetto dell’Altro e soltanto così si può vivere, è resa con lucidità sconvolgente e intima nel periodo spezzato da enjambement “[…]. Se dalla tua crudele / libertà aspettavo altro che prigionia. […]“. La libertà del tu è crudele, non solo perché circoscrive l’io, ma perché è inevitabile, è fatale. Nella costruzione del sé, che è spinto da pulsioni libertarie, l’io rimane sempre prigioniero del tu, dell’Altro. L’amore, come la poesia ci mostra, è la massima realizzazione di questo copione tragico che è l’esistenza. L’irrequietudine dell’io (v.1) urla proprio allorché è accolto dalle braccia protese del tu. E questo tu è sempre anche Dio, lo è anzi essenzialmente. Ed è nel Sacro che posa sulla relazione religiosa, che vive nella relazione con l’Altro e con gli altri, che l’esistenza può riscoprirsi autentica e, dunque, tragica. Tanto che la poeta, nel componimento che ora leggiamo, è contro gli dei che si scaglia; quegli dei che sono anche i <<santi padri>> che abbiamo già incontrato e contro i quali brandisce una piuma immobile: a rappresentare l’inutilità del gesto di ribellione al binomio sacro, la relazione io-tu, che però in quanto gestus crea e mostra allo stesso tempo, consentendo in altre parole l’emergere dell’io.

Contro degli dei brandivo una piuma. Brandivo a vuoto
una piuma che non scendeva nell’aria. Nell’aria vibrava
un megafono: – era iddio che parlava senza farsi vedere.
Nell’aria vibrava un megafono: – era iddio che bramava troppi
piaceri era iddio che studiava la legge della prosperità.
Contro d’ogni deo sorrideva la fortuna.

Nel 1969 la Rosselli pubblicò Serie Ospedaliera, insieme, finalmente e contestualmente, al poemetto La Libellula. Rispetto all’energia espressiva e programmatica della prima raccolta, Serie Ospedaliera rappresenta certo un certo posarsi dell’impeto della poeta. Un’opera di convalescenza anche in senso stilistico, nel suo distendersi delle forme dopo la tensione estrema di Variazioni, contenente poesie che la stessa autrice definì esitanti.  Quel procedimento di esaurimento energetico da lei stessa individuato nella creazione del testo poetico, sembrerebbe allora esser stato valido per la sua intera produzione. La potenza di Variazioni Belliche non fu più liberata, nella scrittura successiva. Nemmeno quando, nel 1976, la Rosselli pubblicò Documento (1966-1973), nel quale tentò il recupero del fuoco dei primi anni, pur lavorando a una veste formale più equilibrata. Il risultato è una raccolta complessa e oscura, dove quei piani dell’esistente – e dell’esisteza – di cui parlavamo tendono verso una sovrapposizione ancor più insolubile. Sin dal titolo della raccolta, la scrittura si fa documento della esistenza biografica dell’autrice, introducendo una distanza quasi cinica dal mondo. Anche l’energia di uno sguardo proiettato sul mondo, allora, sembrerebbe ritirarsi, nel flusso di risacca. Contemporaneamente, però, la poesia mantiene la propria tensione a essere esperienze umana e non solo individuale, mantenendo ancora vivo quel centro vitale della poesia della Rosselli che è la tensione dell’io tra definizione e smembramento. Tensione sempre assolutamente presente e vissuta con dolore dalla poeta, che in un’intervista rilasciata per Il Messaggero nel 1984 disse: <<Tendo all’eliminazione dell’io. L’io non è più al centro espressivo, va messo in ombra o da parte. Credo che solo così si raggiungono risposte poetiche e morali valide, valori utili anche alla società. Ma bisogna evitare il tran-tran montaliano: non parlare né dell’io né del tu». Eppure la piuma è brandita a vuoto, come detto: è nella consapevolezza di una certa ineluttabilità di quei centri gravitazionali d’identità che si trova la ricchezza  profonda della scrittura rosselliana.

E’ una soneria costante; un micidiale compromettersi
una didascalia infruttuosa, e un vento di traverso
mentre battendo le ciglia sentenziavo una
saggezza imbrogliata.

Conto di farla finita con le forme, i loro
bisbigliamenti, i loro contenuti contenenti
tutta la urgente scatola della mia anima la
quale indifferente al problema farebbe meglio
a contenersi. Giocattoli sono le strade e
infermiere sono le abitudini distrutte da
un malessere generale.

La gola nella montagna si offrì pulita al
mio desiderio di continuare la menzogna indecifrabile
come le sigarette che fumo.

La profonda delusione domina l’ultima produzione della Rosselli. Un lento distaccarsi dal mondo che tanto l’aveva fatta soffrire e appassionare. Un salutare, pian piano. Ma la delusione era anche per la sua scoperta poetica, per quella rinascita della metrica, ovvero, che aveva propugnato attraverso l’elaborazione della poesia cubica. Un metro personale, certo, ma pur sempre necessario, in osservanza al bisogno di darsi una forma d’innanzi al magma – interiore ed esteriore – dell’esistente. Delusione, dunque, per una forma che, per quanto personale, si rivela sempre incapace di rendere conto della totalità della propria esistenza, continuamente soffocata da quelle regole mendaci.  Desiderio di vita, di autenticità. Ma la <<menzogna indecifrabile>> è un vizio: si rimane intrappolati nel poetare. Così come avviene con le sigarette. Dalla delusione al disincanto, consapevole dell’impossibilità di rendere totalmente concrete ed essenziali quelle poesie che lei aveva immaginate solide e volumetriche.

Così Amelia Rosselli, a poco a poco, si fece più silenziosa. Scrisse sempre e pubblicò ancora, certo, come per esempio il pometto Impromptu che nel 1983 chiuse la sua attività poetica; ma ormai qualcosa era finito, l’energia si era asciugata. Visse allora, la Rosselli, tentando di stare al mondo; dedicandosi frequentemente, per tutti gli anni Ottanta, alle letture pubbliche delle sue poesie, attirata, per sua ammissione, dai chachet. Non amava quel far spettacolo della poesia, ma la realtà è cruda.

Un distacco graduale; un flusso di risacca. Sino a quell’11 febbraio 1996.

Cercatemi e fuoriuscite.


 

¹ Giudici, Giovanni, Prefazione a Rosselli, Amelia, Le poesie, Garzanti Editore, Milano, 1998, p. VIII.

² Lévinas, Emmanuel, Dall’altro all’io, Meltemi Editore, Roma, 2002.

³ Zorat, Ambra, Intorno a libertà e prigionia: alcune riflessioni su Variazioni Belliche di Amelia Rosselli, RiLUnE, n. 2, 2005, p. 1-11.


 

In copertina: Piet Mondrian, “Natura morta con vaso di zenzero II”, 1912.