Fair play di Tove Jansson: un piccolo capolavoro

In ottanta pagine si può rivoluzionare la filosofia moderna, come ci insegna il Tractatus logico-philosophicus di Wittgenstein. In centotrenta, invece, si può scrivere un capolavoro della narrativa contemporanea: è il caso di Fair play di Tove Jansson, la scrittrice finlandese più amata nel mondo.

L'autrice e la sua compagna, Tuuliki Pietilä

L’autrice e la sua compagna, Tuuliki Pietilä

Fair play non è esattamente un romanzo breve, e nemmeno un racconto lungo. È piuttosto una serie di episodi, un ciclo di affreschi che racconta la vita quotidiana di Jonna e Mari, due donne ormai anziane che stanno insieme da alcuni decenni, attraverso piccoli accadimenti, semplici gesti, dialoghi ordinari. Un quadro da riappendere, un uccellino da proteggere, una scenata di gelosia, un ospite da accogliere, un film western di serie B da guardare, un bisticcio per via dei genitori, un giro in barca, un cimitero in cui perdersi.

E in tutto questo il delicatissimo equilibrio della convivenza a fare da filo conduttore, che trasforma la narrazione della vita comune delle due donne in una specie di parabola su come stare insieme senza abbandonare se stessi, cioè su come essere metà di una coppia senza rinunciare a essere individui interi. O su come stare in mezzo agli altri senza smettere di essere soli. Di qui il titolo, Fair play, a dirci che il gioco corretto è il gioco di squadra che non richiede il sacrificio del singolo e, anzi, lo realizza mentre si realizza la vittoria comune. E di qui l’explicit del libro, in cui la possibilità di una perfetta solitudine viene definita come «una specie di gioco che ci si può permettere quando si è nello stato di grazia dell’amore».

La possibilità di una perfetta solitudine, nel libro, è rappresentata da un’offerta di lavoro a Parigi, perché, come spiega Ali Smith nell’appassionata postfazione al romanzo, l’urgenza di Tove Jansson di combinare solitudine e presenza è sempre stata strettamente connessa al tipo di lavoro che svolgeva. Nel corso dei quarant’anni trascorsi con la grafica Tuulikki Pietilä, l’autrice aveva ricercato con determinazione un’isola di solitudine che conservasse intatta la sua creatività senza isolarla e, insieme, una penisola di profonda e stabile unione, familiarità con la compagna che non l’allontanasse da se stessa.

Tove Jansson e il suo autoritratto.

Tove Jansson e il suo autoritratto.

Quest’elemento,  unito a molti altri del romanzo – a cominciare dal carattere e dalle passioni delle due protagoniste – farebbe pensare a un romanzo autobiografico, ma non è davvero così. Non del tutto, almeno. Dietro la voce narrante di Jonna, dentro lo stile nitido, piano e sobrio di Jansson c’è un’altra possibilità di perfetta solitudine, che si può intuire solo pensando all’età dell’autrice al momento della stesura del romanzo (settantacinque anni): la morte.

Ripercorrere una vita di vicinanza e rispetto reciproco; raccontare una convivenza disordinata dall’imprevedibilità degli eventi eppure regolata da norme tacite, da parole da non dire e atteggiamenti da tenere, è un pretesto per parlare dell’importanza di lasciare spazio all’altra persona, e dell’amore che sottende questa libertà di spazio, compresa quella di andarsene per sempre, prima dell’altro, altrove. Per se stesso.

«Ci sono spazi vuoti che vanno rispettati, periodi spesso molto lunghi in cui non si arriva a vedere l’insieme del disegno o a trovare le parole giuste e si ha bisogno di essere lasciati in pace», viene detto a un certo punto. E questo, forse, è l’amore: essere soli senza sentirsi abbandonati, conoscere i vuoti e non cercare di riempirli attraverso l’altro, accogliere con la stessa gratitudine la presenza dell’altro e la solitudine a cui siamo destinati, perché di tutte e due queste cose è fatta la vita: partecipazione ed esclusione, continuità e interruzione, vita e morte. E in mezzo i giorni, uno dopo l’altro, ognuno fatto di  circostanze o vicende apparentemente insignificanti, eppure ognuno a suo modo parte necessaria di un mistero più grande, più importante e forse inenarrabile.

Il capitolo Cimiteri è emblematico, in questo senso, perché indugia sul concetto dell’esaurirsi del tempo e dell’ineluttabilità del destino e tuttavia finisce col dirci che, per quanto trascurabile appaia in proporzione a temi esistenziali di portata universale come questi, sia la straordinaria e delicatissima bellezza di vivere insieme con semplicità e sobrietà, a dare valore reale alla nostra vita. E così, dopo che Mari sviluppa un morboso interesse per i cimiteri e, viaggiando, ne visita diversi insieme a Jonna, arrivando in una nuova città rinuncia a cercarne di nuovi.

 Quando arrivarono alla città successiva, Jonna aprì la cartina per trovare il cimitero.
«Non c’è bisogno che lo cerchi», disse Mari. «Non mi interessa andarci»
«Come mai?» chiese Jonna.
Mari rispose che in realtà non lo sapeva, solo non le pareva necessario.

Fair play è un’opera buffa e poetica che rivela la portata dell’amore con la sua stessa natura giocosa, semplice, implicita e calibrata. È un omaggio di Tove Jansson all’amore della sua vita, Tuulikki Pietilä, ma è innanzitutto un inno all’amore vero, ch’è l’amore che lascia all’altro lo spazio di muoversi, di agire e, soprattutto, di essere se stesso.

Assolutamente da leggere.

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