Ancora in viaggio: dieci anni senza Terzani

28 luglio 2004: nel suo rifugio in Orsigna si spegne, poco prima di compiere 66 anni, Tiziano Terzani. Lascia il suo corpo, secondo l’espressione che preferiva per riferirsi alla morte, nella piccola gompa costruita appositamente per ospitarlo durante la fase finale della  malattia. Si tratta dello stesso luogo che da bambino gli aveva offerto una via di fuga dalla vita fiorentina, mettendolo in contatto con la natura ancora semi selvaggia di una valle abitata da gente malinconica e poetica: «La prima cosa che feci con i primissimi soldi che ho mai avuto in mano fu di comprare un pezzo di terra da Guidino, il poeta del paese, ed è questo qui. […] Questo era il rifugio dal mondo che cercavo»¹. Una vita che prende forma in Orsigna e che qui si conclude, ma nel mezzo cosa c’è stato?

Mi piace tantissimo questa idea del grande viaggio, che poi è il viaggio della vita, ma è anche il viaggio in un’epoca. Cercherò di raccontarti questa storia al massimo della sincerità che mi sembra sia l’unica vera qualità su cui tu devi poter contare. Non ci raccontiamo delle balle. Non facciamo letteratura. Pensa, tutta la vita ho manipolato parole, potrei manipolare parole fino a che voglio, è così facile ormai. Quello invece che mi piacerebbe riuscire a raccontare è… è la verità dietro le parole. Che poi è il senso di tante cose che ho fatto.¹

Nel frattempo, Terzani ha viaggiato: la continua curiosità, che definisce addirittura «fisica», di andare a vedere e di essere testimone lo ha spinto fino all’altro capo del mondo, letteralmente; il desiderio di documentare era talmente forte che non ha mai lavorato affiancato da un fotografo, ma “scattava” in prima persona ciò che serviva alla sua stessa storia. Agli inizi della sua carriera ancora non poteva immaginare che il raccontare sarebbe stato il gesto salvifico di un’intera vita, fino alla fine: a dieci anni dalla sua scomparsa, esce infatti per Longanesi la raccolta dei suoi diari, Un’idea di destino, che coprono vent’anni, dal 1984 al 2004, appena prima della partenza dal corpo. Allinizio, invece, a trascinarlo c’è solo la sua prepotente voglia di evadere e scoprire: «Andare avanti, cercare, cercare l’altro. Occuparsi di tutto quello che è diverso. Uscire dalle righe. Viaggiare per me è stato importantissimo. Importantissimo, questo senso della scoperta»¹.

Peregrinare. Il primo viaggio importante Terzani lo compie in Sudafrica a spese della Olivetti, l’azienda per cui comincia a lavorare dopo la laurea in Giurisprudenza: partito con il compito di controllare le quattro filiali locali, si trattiene invece per parecchie settimane, scattando fotografie e raccogliendo testimonianze, e così nasce la prima sua raccolta di articoli sull’apartheid, pubblicata come “L’Africa divisa” dall’Astrolabio. Poco dopo è la volta degli Stati Uniti, in cui riprende gli studi alla Columbia University, imparando il cinese e prendendo una seconda laurea, scoprendo che «C’era qualcosa di importante nel fare il giornalismo»¹. Tornato in Italia, comincia a scrivere per Il Giorno, ma il suo desiderio di fuga e di esplorazione comincia a farsi più pressante: quando gli viene negato un viaggio in Asia, comincia a suonare alle porte dei maggiori quotidiani europei, come L’Express, Le Monde, il Manchester Guardian, e infine Der Spiegel, dove ottiene un contratto. Parte per Singapore nel dicembre del 1971 e dal Vietnam comincia a scrivere anche per L’Espresso. Comincia così la sua vita fatta di inchieste e di testimonianze, la sua vera vita da giornalista: «Salomon Bouman […] disse “Viaggiare per il mondo alla ricerca della verità”. Questo è il giornalismo. Io l’ho fatto con molta determinazione, con grande gioia anche, perché cercavo la verità nei fatti, nel passato, nell’esattezza dei fatti» ¹. Il viaggio-lavoro prosegue in Cambogia, dove Terzani viene anche catturato dai khmer rossi, e riesce a tornare in Vietnam in tempo per essere testimone della caduta di Saigon:

Quella notte sentivi la Storia. La Storia, Folco. E quando vidi i primi carri armati entrare nella città, e la prima camionetta carica di ribelli, di vietcong, venire giù per rue Catinat con loro che urlavano Giai Phong! Liberazione! per me era la Storia. Piansi. Non soltanto all’idea che la guerra era finita, ma perché sentivo la Storia. Quella era la Storia.¹ (p. 143)

Terzani decide di rimanere e di muoversi tra quei Paesi, per essere testimone anche della situazione postbellica, ovvero  il fallimento della rivoluzione e il regime di Pol Pot, che in Cambogia porta il clima di  fanatismo a livelli inimmaginabili: «Pol Pot fa distruggere anche tutte le pentole, perché pentola vuol dire famiglia, vuol dire un gruppo che si riunisce segretamente»¹. Con l’arrivo del 1980, Terzani è finalmente in Cina: è il viaggio che sogna di fare da almeno 13 anni, addirittura prima della partenza per gli Stati Uniti. E gli tocca un incarico non da poco: fa parte del gruppo dei primi giornalisti che ottengono il permesso di entrare in territorio cinese dal 1949, e per conto dello Spiegel intervista Hua Guofeng, il successore designato di Mao.  È in questa ulteriore prova sul campo delle grandi ideologie socialiste che Terzani comincia a entrare in crisi con la politica e, per sua stessa ammissione, smette di concepirla come una possibile risposta e a farne argomento dei suoi pezzi. Nel clima della post-rivoluzione Terzani abbandona l’idea di cercare l’uomo cinese nuovo e comincia a rintracciare invece le vestigia del Grande Impero Cinese, di ciò che di storico e tradizionale rimaneva e si salvava raccogliendosi negli angoli, spinto ai margini da una nuova cultura totalitaria e uniformante. Questo sguardo più attento ai dettagli e alla tradizione coincide anche con il primo, clandestino, contatto con il Tibet.

«E se guardi tra quella pila di foto, ne trovi una di me, bellimbusto, seduto all'alba su un masso con dietro il Potala»

«E se guardi tra quella pila di foto, ne trovi una di me, bellimbusto, seduto all’alba su un masso con dietro il Potala»

Con la testimonianza diretta della dissoluzione dell’URSS raccolta anche attraverso numerose sue fotografie in Buonanotte, signor Lenin e l’espulsione dalla Cina, Der Spiegel gli propone dapprima di raggiungere l’America Latina, proposta che viene rifiutata, e poi il Giappone, il suo «grande fallimento». Sono anni bui per il giornalista, che comincia a riprendersi in Thailandia durante alla permanenza, insieme alla famiglia, nella Casa della Tartaruga. Qui, alla fine del 1992, incontra il caporedattore dello Spiegel a cui spiega che durante l’intero anno successivo non potrà continuare i viaggi in aereo a causa della predizione di un indovino. Il caporedattore non fa ultieriori domande, e così cominciano gli spostamenti di Terzani per treno e nave in tutta l’Asia, che danno origine a Un indovino mi disse. È durante questa nuova serie di viaggi che matura l’allontanamento definitivo dal giornalismo, riprendendo il gusto per l’esplorazione e il contatto con la natura e l’umanità: «Poi, nella giungla della Birmania, in cerca di Khun Sa, il re della droga, a passare le notti all’addiaccio sotto cattedrali stupende di alberi altissimi attraverso i quali filtra la luce della luna… Tutto questo mi ha messo, inconsapevolmente se vuoi, o almeno a un livello di coscienza di cui non ero cosciente, in cammino per tutt’altro»¹.  Cammino che si riflette anche nella scelta di attraversare il Mustang a cavallo o di raggiungere le Isole Curili e Sakhalin, dove cercava «le vite sprecate, la tragedia umana»¹.

Con la fine di Un indovino, Terzani viene richiamato dallo Spiegel ad Amburgo, con l’offerta di un posto in India. Contro il parere di tutti, anche dell’ambasciatore italiano, che vedevano la proposta come alla portata di un freelance e non di una firma affermata, Terzani torna in India, dopo che l’aveva salutata nel ’78, durante il viaggio di regalo dei suoi quarant’anni: «Io avevo scelto l’India perché volevo metterci le radici di un’altra vita»¹. Tuttavia, quest’avventura rappresenta l’ennesimo scontro con il lavoro giornalistico: ci si aspetta da lui la stesura di articoli sul boom economico e sulla modernizzazione, ma  con ostinazione e curiosità Terzani se ne andava invece «in giro per i deserti del Rajashtan a scrivere di un tempio dove si adoravano i ratti»¹. Il nuovo cammino che vuole intraprendere, come giornalista e come persona, si fa sempre più evidente e pressante.

 Un cammino senza scorciatoie. Così² Terzani definisce la scoperta della sua malattia. È il 1997, quando gli viene diagnosticato il tumore all’intestino.

Viaggiare era sempre stato per me un modo di vivere e ora avevo preso la malattia come un altro viaggio: un viaggio involontario, non previsto,  per il quale non avevo carte geografiche, per il quale non mi ero in alcun modo preparato, ma che di tutti i viaggi fatti fino ad allora era il più impegnativo, il più intenso. Tutto quello che succedeva mi toccava direttamente².

Improvvisamente, si trova a dover fare i conti con delle scelte che riguardano il suo corpo, che fino ad allora lo aveva sorretto  fedelmente in situazioni pericolose e spesso al limite dell’incoscienza: i cambiamenti, i gonfiori, gli acciacchi, ma anche la scelta delle cure e i trattamenti fatti in America dai medici-aggiustatori. In realtà, la prima cosa con cui deve fare i conti è l’improvvisa dilatazione del tempo: «Mi resi conto di come, fino ad allora, avendo lavorato per un settimanale, il mio ritmo biologico e i miei stato d’animo erano stati determinati dalle scadenze – e spesso dall’angoscia – dell’articolo da scrivere» ². Nel periodo americano fa anche la conoscenza della Ragna, l’orribile macchinario a cui deve sottoporsi durante la terapia e con il quale si sente in balia come una mosca in una ragnatela, e che è gestito dall’Irradiatore, il medico che lo rassicura sul fatto che i suoi pazienti vivano minimo due anni, e in fondo è solo da due anni che sta testando la terapia. Comincia a rafforzarsi in Terzani l’idea di distaccarsi, partire anche fisicamente e andare alla ricerca di altre cure, più umane, alla ricerca non di qualcosa di alternativo, ma di «complementare». Ricominciano allora le peregrinazioni in India, in Thailandia e in Cina, raccontate fedelmente in Un altro giro di giostra; in particolare i tre mesi passati in un ashram a studiare il sanscrito e a interrogarsi sulla filosofia indiana e la domanda “Io, chi sono?” a cui Terzani risponde, anche scherzosamente, di essere “Anam”, il Senzanome: «nome appropriatissimo, mi parve, per concludere una vita tutta spesa a cercare di farmene uno!»²

Tu mi chiedi chi sono. Bene, sono stato innanzitutto tante maschere, ognuna vera, ognuna falsa perché cambia col tempo e diventa altra. E qui dico una verità che tutti i saggi hanno capito, che non c’è permanenza. Niente è permanente, niente è permanente in questa vita. Che vuoi essere permanente tu? Oh, ma chi te l’ha detto?! […] Ho il senso che non mi tocca più nulla, perché non sono quella maschera, non sono questo corpo, non sono i miei ricordi, non sono… Sono una cosa molto più grande, molto più piccola, molto più particolare, ma non sono niente di tutto quello. E proprio perché non sono niente di specifico, mi posso permettere di pensare che sono tutto.¹

A un certo punto della lunga chiacchierata che costituisce La fine è il mio inizio, il figlio Folco chiede a Terzani cosa sia l’illuminazione. È forse solo «un’illusione che ti tiene in riga», ma ancor meglio: è «quel viaggio per cui parti perché aspiri a una diversa visione del mondo». Tutta la vita di Terzani è stata quindi una perenne, inconsapevole illuminazione: ogni passo, ogni ricerca, ogni scoperta, ogni Paese conosciuto, ogni uomo incontrato. «È tutto un costruire» ¹, e di questa costruzione sente di far parte quando si stabilisce dal Vecchio, un indiano colto in ritiro sull’Himalaya. Passano le notti in meditazione, si scambiano domande e risposte, condividono silenzi e nevicate, ma è soprattutto nei momenti in cui Terzani è solo, in raccoglimento, all’esterno, che sente di essere arrivato a un punto importante, di essere parte di quella costruzione che è il Tutto. «E poi, devo dire, la natura dell’Himalaya è stata parallela al Vecchio. La natura in sé. Di tutti i discorsi del Vecchio, che mi affascinavano, che trovavo interessanti, la cosa per me più bella era, all’alba, salire sul crinale. Sai, alto su quel crinale dell’Himalaya, davanti a un oceano di montagne godi di sentirti vivo, di sentire la tua carne trafitta dalle ondate di vento. Alla fine dei conti era questo che mi dava grandezza. Mi sentivo così pieno di immenso»¹.

Il ritorno in Orsigna, rinnovato rifugio nella natura (proprio come quella sua casupola sull’Himalaya), corrisponde anche alla volontà di raccogliere  la sua vita in una sorta di summa da «mettere in un pacchetto», perché qualcun altro ne possa fruire. Non si sente eccezionale, Terzani, ripercorrendo la sua vita a parole: il racconto epico delle sue avventure serve a far presente soprattutto a se stesso che non è stato tutto merito di qualche eccezionalità, ma soprattutto di volontà, di curiosità e di carattere. In particolare, si rafforza la percezione che ogni scelta sia stata un passo importante verso la costruzione di qualcosa e che ora, finalmente, gli sia possibile non solo vedere il filo, ma tenerlo in mano, fisicamente reggerne un capo, arrivando a contemplare la decisione che l’ha sempre guidato e condotto e accompagnato: la decisione di essere, irrimediabilmente, fortemente, anche dall’altra parte del mondo, se stesso.

Tiziano: Vorrei che il mio messaggio fosse un inno alla diversità, alla possibilità di essere quello che vuoi. Allora, capito? È fattibile, fattibile per tutti. Folco: Cosa è fattibile? Tiziano: Fare una vita, una vita. Una vera vita, una vita in cui sei tu. Una vita in cui ti riconosci. ¹

¹  Tiziano Terzani, La fine è il mio inizio,  a cura di Folco Terzani, Longanesi, Milano 2006

²  Tiziano Terzani, Un altro giro di giostra,  TEA, Milano 2004

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