Appunti: Brecht, Bene, Celati

Autori pur diversissimi come Bertolt Brecht, Carmelo Bene e Gianni Celati presentano in realtà delle somiglianze, che vorrei mettere in ordine. Si tratta di selezionare certi tratti specifici, primari e secondari, e stabilire vicinanze e lontananze. Si tenga conto però che rigorosamente non dovrebbero apparire accostati in un discorso critico, qui perlomeno mancano le categorizzazioni che permetterebbero di farlo. Inoltre non si dovrebbe lasciare il discorso in sospeso come qui si farà, ma non è da escludere che questo livello di studio iniziale possa essere utile a un approfondimento.

In uno scritto teorico, La scena di strada, Brecht pone una fondamentale questione: la recitazione di un attore a teatro deve modellarsi su quella di una persona comune chiamata a riportare con linguaggio verbale e gestuale un evento che ha appena veduto. Posto che quest’evento sia un incidente stradale, per quell’uomo non ci dev’essere immedesimazione perché il suo scopo non è quello di imitare il meglio possibile, ma solamente spiegare ciò che è successo. Inoltre allorché vi fosse imitazione sarà strettamente necessaria alla comprensione del fatto; si darà più importanza alla spiegazione che prevarrà sull’imitazione, perché questa se eccessiva può distrarre. Questo è un passaggio fondamentale per ciò che sarà la recitazione straniata, di cui Brecht è il grande inventore e promotore. Ma qui mi interessa l’adeguamento dell’ordine artistico a un livello popolare. È noto del resto l’interesse che Brecht aveva per le forme d’arte popolare: le fiere e i cantastorie.

Mettere sullo stesso piano la strada e il teatro assomiglia alla volontà di Gianni Celati di modellare la letteratura sui discorsi quotidiani. Ciò è ben visibile in Narratori delle pianure ed è esattamente ciò che spaventava Italo Calvino. Queste sono parole di Celati: «Il mio lavoro sui racconti quotidiani è stato visto spesso come una fessa nostalgia dei tempi andati. Lo stesso Calvino una volta ha perso le staffe, gridandomi che i racconti orali sono tutti privi di interesse e informi». Pur mostrando una certa venerazione per Calvino – considerata l’amicizia e il sodalizio – per lui è pericoloso sostenere che «tutta la letteratura sia questo e soltanto questo, un gioco del linguaggio e basta». Creare lingue puramente astratte che appartengono a una ristretta élite di addetti al mestiere è «un modo di guardare all’altra parte dell’umanità, che vive nell’ovvio e non controlla il gioco del linguaggio, come perduta. Per me l’altra umanità non è affatto perduta».

Allo stesso tempo si vede bene come l’attenzione di Brecht a inserire in maniera dialettica le sue rappresentazioni nelle dinamiche sociali, la sua necessità di prendere posizione riguardo alle questioni della storia (penso a Madre Courage e alla sua ben precisa interpretazione della guerra), questa sua vena politica e engagé: tutto ciò lo allontana a ben vedere da Celati. Per quest’ultimo la convinzione che le parole non abbiano una vera presa sulla realtà – nonostante il suo impegno di scrittore, che a questo punto va visto però nella direzione contraria a quella convinzione – si può spiegare brevemente così. Nel Discorso sull’aldilà della prosa – dove ci si concentra soprattutto sulle Operette morali e lo Zibaldone – Celati mette a confronto Leopardi e Manzoni. L’uno sa che le parole considerate importanti (Virtù, Giustizia, Amore) sono in realtà prive di valore; l’altro fonda la narrazione sulla solidità di queste parole. Di Leopardi elogia una scrittura non premeditata che dà esiti imprevisti; dell’altro critica la volontà di andare da un punto A a un punto B, di voler spiegare come stanno le cose. Tutto questo è vero: si pensi all’ultimo paragrafo dei Promessi sposi, dove si trae il famoso «sugo della storia». Non c’è dunque possibilità di affermare con certezza niente, ma non possiamo sbarazzarci delle parole (anche se Baratto, protagonista di una novella di Celati e Bartleby italiano in un certo senso, fa esattamente questo). Ci si può però intrattenere con le «vane illusioni» delle parole e delle loro menzogne perché «smuovono la fantasia». È come se da una parte si schierasse a favore della chiacchiera – parlo della doxa degli antichi – ma dall’altra si ricordi della sua vuotezza. Dunque a questo punto per Celati è tutta una chiacchiera, di cui si può godere, verso la quale però non si deve avere fiducia, non ci si devono fare illusioni di verità – un’illusione questa più perversa delle altre per Celati, «perché reca agli uomini solo infelicità». In questo senso per lui non c’è episteme. Viene in mente il «questa sera stiamo dicendo che non stasera son cazzate, ma che sempre si parla soltanto di parole, cioè di cazzate» pronunciato da Carmelo Bene durante l’«Uno contro tutti» nel Maurizio Costanzo show.

Ed è così che vorrei passare a considerare le somiglianze e le differenze tra Brecht e Carmelo Bene. Per Brecht è importante lo straniamento, che serve a risvegliare la coscienza critica dello spettatore. Costui non deve dimenticare che il teatro prende posizione e che c’è una necessaria relazione tra attori e spettatori riguardo a qualcosa che è nel mondo che li circonda, che per Brecht è comprensibile e spiegabile. C’è un tipo di straniamento anche nella recitazione di Bene, uno straniamento parodico spesso: penso alla voce caricaturale, che insiste sulle frequenze alte, del bambino Pinocchio – nell’omonimo spettacolo – e parallelamente la caricatura della voce baritonale del babbo. Ma viene in mente anche l’utilizzo che spesso fa del doppiaggio: si deve notare che la bocca dell’attore non segue ciò che sentiamo dire, il doppiaggio è esibito. Questo si può vedere in film come Un Amleto di meno, nella pur breve parte che Bene svolge in Accattone di Pasolini, e in Nostra signora dei turchi. In quest’ultimo, a proposito, c’è un altro tipo di distanza: il film è autobiografico e Carmelo regista trentenne fa una parodia di se stesso ventenne. Dunque a mia memoria mai nella recitazione di Bene c’è piena convergenza, una compiuta immedesimazione.

Allo stesso tempo c’è una fondamentale differenza tra Brecht e Bene. Il motivo è riguardo alla polemica del «teatrino dei ruoli»: il sintagma è usato da Maurizio Grande, per spiegare il teatro di Bene, in un seminario sulla phoné. A teatro, dice Carmelo Bene, non ci si rappresenta, non si mostra un ruolo, una identità, ma si espone una soggettività – altrove dirà che il teatro è un privato i cui panni sporchi si lavano in piazza. Poco dopo interviene deprecando l’Io a teatro, i ruoli, la conflittualità, la dialettica: per lui non si tratta di educare. Ed ecco che viene a cadere Brecht, perché il suo è un teatro ideologico, marxista, si può dire. Riporto alcune sue riflessioni a proposito dell’opera Ascesa e rovina della città di Mahagonny, contenute negli Scritti teatrali: «Si potrà dunque discutere di tutte le innovazioni che non abbiano un carattere minaccioso per la funzione sociale di quest’apparato, quella cioè dello svago serale», «Attraverso l’apparato la società assimila ciò che le serve per riprodursi», «il lavoro assume carattere di merce e quindi obbedisce alle stesse leggi delle merci», «L’arte è merce – non la si può produrre senza i mezzi di produzione». Vorrei che ci si concentrasse sul carattere puramente linguistico di questi esempi. Sono frasi che presentano le ricorrenze tipiche del ragionamento marxista. Ma non bisogna in fondo dilungarsi troppo nel dimostrare il marxismo di Brecht, le biografie dicono che dal ’26 il regista incontra il materialismo storico e ne è profondamente influenzato. Il suo teatro è ideologico e si rivolge al pubblico per fargli prendere coscienza di ciò che lo opprime, cosicché una volta raggiunta la comprensione possa rivolgere una lotta contro le oppressioni dell’ignoranza, della politica e del potere.

Ora vorrei esattamente chiudere quest’articolo con queste domande e questioni aperte.

————–

L’immagine di copertina, più astratta possibile di modo che potesse adattarsi al testo, è una foto di Paul Strand: Bombed Area, Gaeta, Italy, 1952.

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato.