Artisti della felicità

C’è un piccolo taxi a manovella che gira per il film, inciampando in fedi nuziali abbandonate, abbondanti decorazioni per l’albero di Natale, castelli di carte napoletane e colline di diapositive. Un taxi vero invece lo guida Sergio Cometa, il protagonista de L’Arte della Felicità, il lungometraggio di animazione di Alessandro Rak, prodotto da Luciano Stella per la Mad Entertainment di Napoli. Nostrani sono i giovani (tutta la squadra), veri talenti che con la matita, la tavoletta grafica e gli strumenti musicali hanno partecipato alla realizzazione, durata due anni, di questo gioiellino. Definito unanimemente “rivelazione”  dalla critica, non si tratta solo di una piacevole e brillante scoperta per il panorama cinematografico italiano e europeo: L’Arte della Felicità è un vero e proprio viaggio personale e spirituale nel senso più ampio del termine. I punti di domanda e i puntini di sospensione che lo costellano rimbalzano e superano lo schermo, in un gioco che coinvolge tanto i suoi personaggi quanto lo spettatore, consentendo il massimo coinvolgimento e l’apertura all’altro.

Voi venite qui, mi confidate le vostre storie e poi sparite, per voi sono un tassista, una figura, un cartone animato, non vedete l’uomo che sta dietro!

Mentre dalla radiolina tenuta salda al cruscotto dallo scotch si diffonde la programmazione (musica mediterranea inframmezzata dai monologhi dell’eccentrico Speaker) della stazione radio “L’Arte della Felicità”, in una Napoli malinconicamente contemporanea sfilano sotto la pioggia battente, che caratterizza almeno due terzi del film, cumuli di munnezza e personaggi stravaganti. Questi sono raccolti lungo la strada dal tassista Sergio, che ha scelto questa professione dopo aver lasciato scendere la polvere sui tasti del suo amato pianoforte dieci anni prima, quando il fratello Alfredo ha deciso di partire per l’India in ritiro spirituale.

Il respiro largo e lento coarte della felicità 1n cui inizia il film ci consente di abituarci al tocco tremolante con cui è costruita L’Arte della Felicità: le linee sono nette ma luminose, vibrano essenziali ed evocative. L’inizio lento, fatto soprattutto di flashback e scene parallele, non è che un preludio al ritmo martellante che il film acquista e tiene con grande maestria fino alla conclusione. Nel mentre: l’assenza, il ricordo, la vita che (malgrado questo, malgrado tutto) continua. Il taxi, pieno di fotografie, statuette e simboli buddhisti, mozziconi e bottiglie mezze vuote, si muove tra le strade e i ricordi, superando incroci e incubi,  nella sfida più grande e umana di tutte: accettare la morte. Meglio: accettare la morte nella vita, non capirla ma comprenderla, ovvero accoglierla e riconoscerla come parte dell’esistenza e del processo naturale. Ciò è ulteriormente complicato dal fatto che la morte di Alfredo avvenga lontano: ciò che Sergio non perdona non è la malattia del fratello, non è la sua morte, ma la decisione di andarsene lontano, di sparire dalla scena e dalla vita della famiglia, e soprattutto dal rapporto con lui, il fratellino minore, e dal loro progetto musicale. Se il linguaggio serve per indicare le cose presenti, tangibili, sperimentabili, allora la morte non rientra tra queste: è la non-esistenza per eccellenza, quindi non si può indicare (per indicare una cosa, questa deve esserci) e nemmeno dire, quindi non è razionalizzabile, catturabile e comprendibile. La scomparsa del personaggio (e della persona) corrisponde al venir meno del linguaggio: il dialogo tra i due fratelli si mantiene vivo grazie a Skype, ma le videochiamate si fanno sempre più rare, alla motivazione del viaggio non era stato dato un nome, alla malattia non era stata data un’etichetta (che l’avrebbe resa chirurgicamente affrontabile), e in definitiva la morte non ha parole.

“Cosa ti manca?” “Mi manca un’idea precisa del futuro, come quella che hai tu.” “Allora, forse, in quello che ti manca c’è ciò che ci salverà tutti. Ma finché i musicisti non scendono dai taxi, finché i poeti servono ai tavoli, finché gli uomini migliori lavorano al soldo di quelli peggiori, la strada corre dritta verso l’Apocalisse.”

Quando parliamo di viaggio spirituale non intendiamo viaggio interiore, anzi: la vera rivelazione di questo film è quanto di noi ci sia nella relazione con l’altro. Questo passa tramite l’insegnamento buddhista «Tutto si fa altro»: la morte è, infatti, solo inizialmente paralizzante e momentaneamente luttuosa, perché conduce, in modo niente affatto razionale (contrariamente alla coscienza della nostra mortalità) alla scoperta più grande che ci possa essere. Contro la finitezza, la caducità, l’irrigidimento, esiste «l’abbandono dell’io e abbraccio con le cose, con il mondo, che è partecipare di un orizzonte illimitato, di uno sprofondamento rivelatore dell’assenza di confini, di un buio dilatato che, indicando la possibilità infinita dell’esperienza, dà senso, mette in prospettiva la parvenza superficiale di ogni povera esistenza (Liliana Rampello, Il canto del mondo reale, p. 116). Il dono che la morte offre è per chi rimane. Tenerissima appare così la dedica ad Alfredo Stella (l’altro protagonista si chiama Alfredo Cometa): fratello di Luciano, è scomparso nel 2004; era un distributore cinematografico che si occupava della zona di Napoli e di tutto il Sud Italia, proseguendo la tradizione cominciata con il padre Antonio Stella.

Pur avendo a disposizione l’immagine disegnata, più forte ed evocativa dell’immagine reale filmica, gli sceneggiatori hanno deciso di affidarsi anche alla musica per rendere i sentimenti, le sfumature e sicuramente la grande ironia che caratterizza tutta L’Arte della Felicità. Non dobbiamo infatti aspettarci un film melenso, riflessivo – cioè chiuso in se stesso: il perno fisico del dispiegarsi della trama rimane il taxi di Sergio, sporco e stipato di oggetti, in cui salgono un signore che ricorda vagamente Groucho Marx che ricicla rottami per farne opere d’arte («Questa è la mia piccola arte, la mia felicità: ridare forma nuova alle cose vecchie»); la signora Pinotta, ricchissima grazie al lascito del marito, che non vuole mica morire in salute, sennò che gusto c’è; lo zio Luciano, che è stato triste al punto di piangere solo «qualche anno fa, quando hanno eletto quel Presidente del Consiglio»; sale perfino lo Speaker dell’“Arte della Felicità”, che ha un papillon familiare, e che lancia profezie ciniche e terribilmente vivide. Tutto questo, con Napoli che vigila, che pullula di vita e di miseria. Tutto questo, con la musica.

L’Arte della Felicità è stato presentato come “Evento speciale d’apertura” della 28esima Settimana Internazionale della Critica di Venezia, vincendo poi il premio “Miglior Opera Prima” alla 21esima edizione del  London Raindance Festival. Alla 70esima Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica di Venezia ha meritato la menzione speciale del Premio Fedic e vinto il premio “Arca Cinema Giovani” con la seguente motivazione: «Per averci donato degli spunti di riflessione personale e per averci suggerito non solo quale possa essere l’arte di essere felici ma soprattutto l’arte come mezzo per essere felici

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Alessandro Rak è stato inoltre ospite a Che tempo che fa domenica 1° dicembre 2013.

È possibile leggere questo articolo anche in francese: It’s 5.32 pm here at the Art of Happiness.

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