Bicicletta finisce per A!

La storia della bicicletta è una storia controversa, perché sia l’invenzione sia la paternità della bicicletta propriamente detta continuano ad essere incerte. C’è chi sostiene che già negli schizzi realizzati da Leonardo Da Vinci nel 1490, raffiguranti una “macchina” composta da un manubrio, due ruote congiunte da un’asse di legno e una catena di collegamento tra due pedali e la ruota posteriore, si possa rintracciare la progettazione della bicicletta; chi riconosce in Vaucanson l’antesignano del biciclo; chi attribuisce il genio inventivo a Johnson e Michaux e chi, invece, considera che l’effettivo inventore della bicicletta moderna sia il barone tedesco Karl Von Drais, che nel 1817 realizzò un prototipo di macchina priva di pedali e di manubrio e dotata di uno strambo poggia-pancia.

Suffragette in bicicletta

Quel che invece è certo, perché ampiamente documentato, è che la bicicletta fosse negata alle donne perché ritenuta volgare, inadeguata o ridicola per il sesso debole. Von Drais fu il primo a denunciare la natura della sua stessa invenzione, indicandola come oltraggiosa del pudore delle donne che, per montarla, avrebbero dovuto scoprire polpacci e caviglie, allargare le gambe, acquisire una posizione sconveniente e rischiare frequenti e rovinose cadute, all’epoca malviste. Alcuni – come Johnson – apportarono modifiche al prototipo di velocipede nel tentativo di risolvere la delicata questione, ma furono puntualmente ignorati dall’opinione pubblica che, guidata dai pregiudizi e da una mentalità che a stento contemplava le donne, osteggiò e represse l’uso della bici da parte delle donne in tutti i modi. Compresi quelli più disparati.

Se inizialmente, infatti, le donne che provarono a sfidare la tacita imposizione sociale montando in sella furono denigrate, additate come donne di facili costumi, derise e addirittura prese a sassate per strada o frustate dai vettorini, a partire dalla fine del XIX secolo la violenza a loro rivolta cambiò forma, assunse connotazioni grottesche e subdole. I medici dichiararono la bici pericolosa per la salute della donna, lesiva del suo sistema nervoso, dannosa per le sue ovaie, fortemente nociva durante le mestruazioni. Per lungo tempo i preti, col sostegno di medici conservatori, riconobbero nella bicicletta uno strumento diabolico capace di veicolare il peccato attraverso il sellino, che per attrito con gli organi genitali avrebbe causato e stimolato alla masturbazione (“la posizione a cavalcioni offriva di per sé stimoli sufficienti ad assecondare questa inclinazione”, si legge in un dossier redatto nel 1911). Nel 1912 Pierre Fredy De Coubertin liquidò ogni eventualità di partecipazione femminile alle olimpiadi affermando che le donne non avrebbero dovuto ambire a praticare lo sport, ma a esserne le umili vestali. E mezzo secolo dopo, in un modo che riconosciamo più vicino a noi, Alfredo Binda – uno dei più grandi ciclisti italiani nonché, ironia della sorte, colui a cui oggi è intitolata la più importante gara ciclistica femminile – rivendicava che il ciclismo “non è roba da donne […] è troppo faticoso”, concludendo che nell’economia naturale agli uomini spettavano le biciclette e alle donne un posto in cucina (“les hommes en vélo et les femmes dans la cuisine”).

Dagli anni Settanta, l’uso della bicicletta da parte della donna si è normalizzato, nessun occidentale si stupirebbe o avrebbe da ridire vedendo pedalare una ragazza, eppure tale dinamica discriminatoria e sessista non si è ancora del tutto estinta. In Corea del Nord, nel gennaio del 2013, è stato reintrodotto il divieto (abolito appena 8 mesi prima) alle donne di usare la bicicletta. E lo stesso vale per l’Iran, l’Arabia Saudita, in misura minore in Afghanistan.

Ma perché la bicicletta spaventa tanto?

Émile Zola ha indirettamente fornito una risposta facendo dire a Marie, eroina del romanzo Il ventre di Parigi: “Se mai avrò una figlia, la metterò in sella a una bicicletta già a dieci anni, perché impari subito come deve comportarsi nella vita”.

La bicicletta educa a uno specifico approccio, a una determinata percezione di sé e del mondo che può riassumersi in una sola parola: emancipazione.

Le vélocipède illustré

La sua struttura scoperta, semplice e funzionale, rinvia alla libertà e alla leggerezza; il movimento di cui si costituisce e l’energia che richiede incarna il principio di faticosa autonomia e insieme di progressivo avanzamento. Ma la bicicletta non ha solo un forte impatto simbolico, è un effettivo strumento pragmatico di indipendenza e di giustizia sociale, perché permette il trasporto senza nessun costo, scoraggia le dinamiche di emarginazione delle zone rurali e di chi le abita, consente di essere autonomi nel quotidiano, sciolti dall’obbligo della subordinazione e dell’interdipendenza e quindi coscienti di potercela fare da soli, di potersi affrancare perseverando con tenacia e nella volontà, rigettando la rassegnazione e la solitudine, andando incontro al mondo col corpo e con la forza motrice del cuore per “provarsi” concretamente e conoscersi. La bicicletta conduce laddove i piedi impiegherebbero di più e l’accettazione non arriverebbe mai, ed è questo che la circonda di un’aura magica e le permette, oggi come ieri, di rappresentare un cambiamento insperato, ch’è per antonomasia quello della condizione femminile.

Le donne non sapevano tutto questo, quando hanno iniziato a lottare per rimanere in sella in barba alla morale vigente, ma quasi certamente lo intuivano.

Lo intuiva Alice Hawkins, la suffragetta passata alla storia per aver promosso i diritti delle donne in tutta Leicester a bordo di una bicicletta, in pantaloni come un uomo.

Lo supponeva Alice Milliat, che nel 1917 creò in segno di protesta all’esclusione delle donne dallo sport e dalle competizioni sportive la “Federation Féminine Sportive de France” e nel 1921 organizzò a Montecarlo i primi Giochi femminili Internazionali in risposta all’esclusione del suo stesso sesso dalle Olimpiadi.

Lo immaginavano le attiviste dell’associazione tedesca delle Pedalatrici che, nel 1896, ragionando sulla moda e sul ruolo della bicicletta nella contemporaneità, previdero a ragione: “Andare in bicicletta influenzerà i cambiamenti nell’abbigliamento femminile molto più di tutte le motivazioni, senz’altro valide, di parità di diritti e di carattere artistico e medico, che sono state avanzate fino a oggi”.

A saperlo, piuttosto, siamo noi, sono le attiviste di oggi cresciute con l’immaginario di quelle di ieri. È Haifaa al-Mansour, regista del lungometraggio ”La bicicletta verde”, incentrato sulla storia di una bambina araba di dieci anni che sceglie di sfidare in una gara ciclistica un ragazzino che le vieta di giocare con lui, riprendendo l’immagine della bicicletta – verde speranza – in tutta la sua potenza simbolica-emancipativa. Ma è anche Shannon Galpin, attivista statunitense in Afghanistan che ha fondato una squadra di cicliste locali con l’obiettivo di farle partecipare alle Olimpiadi del 2020 (sulla loro storia è stato realizzato un breve documentario dal titolo “Afghan Cycles”). Sono tutte le donne che si spostano in bicicletta, che ricercano l’autonomia, che nell’aria che sposta i loro capelli inseguono un respiro di libertà.

Lo stesso che Alfonsina Strada, la prima, importante ciclista italiana, voleva alla maniera di Alfieri: fortissimamente. Alfonsina, nata nel 1891 a Castelfranco Emilia, fu sempre appassionata di biciclette: già a 14 anni saltava la Messa per partecipare alle più svariate corse o gare ciclistiche, un atteggiamento che, quando scoperto dai genitori, le valse un matrimonio forzato e l’obbligo di abbandonare il tetto paterno. Per fortuna Alfonsina era tosta, era viva e forte, perciò senza battere ciglio, sposando Luigi Strada, chiese come regalo di nozze una bicicletta. Nel 1924 si iscrisse al Giro d’Italia quando ancora alle donne non era concesso farlo, e non si sa ancora se si trattò di un caso o di un errore volontario, ma l’addetto alla registrazione degli iscritti riportò “Alfonsin Strada”, rendendo ambiguo il sesso del partecipante*. Fino a buona parte del Giro Alfonsina venne derisa dai media e dagli spettatori, venne insultata e verbalmente aggredita, spietatamente criticata, presa di mira dalla satira. Per farle il verso fu fatta addirittura una canzone, la famosa “Bellezza in bicicletta”, mentre gli uomini scommettevano su quando avrebbe mollato il Giro. Ma Alfonsina non cedette: tappa dopo tappa continuò a correre, indomita, fino a conquistare il ventinovesimo posto al giro e qualcosa di molto più importante e duraturo: il rispetto, l’ammirazione. “Un tripudio”, si disse quando giunse all’ippodromo Zappoli di Bologna, traguardo del Giro d’Italia, e lo era: per lei stessa, per le donne, per la libertà.

Nel 1896 Susan Anthony, avvocato per i diritti civili e figura di spicco del femminismo del XIX secolo, aveva scritto: “Penso che la bicicletta abbia fatto per l’emancipazione della donna più di qualunque altra cosa al mondo. Gioisco ogni volta che vedo una donna in bicicletta. Dà la sensazione di autonomia e indipendenza e, nel momento in cui prende posto e va via, è l’immagine della femminilità senza ostacoli”.

Da allora, non è cambiato niente. Abbiamo voluto la bicicletta e pedaliamo. Forte.

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*Questo reale episodio è stato ripreso da Eugenio Sideri, autore e regista di una pièce teatrale su Alfonsina: a un certo punto dell’opera fa gridare alla protagonista, come ad affermare il suo sesso e la sua identità: “Finisce per A!”.

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