Casa d’altri – Racconto cromatico di Silvio D’Arzo

Tra i tanti autori di letteratura italiana novecentesca, molti non vengono ricordati. Sarà colpa dei programmi ministeriali o della troppa fama che alcuni scrittori hanno rispetto ad altri. Per fortuna, grazie a determinati corsi universitari, grazie ai passaparola o a qualche suggerimento che si può trovare sul web, un lettore riesce a scovare, tra i meandri della letteratura, dei testi di cui fare tesoro.

Simone Marcelli vi ha parlato qualche tempo fa di Pier Vittorio Tondelli e del suo Camere separate e un punto di partenza lo si può ritrovare qui: Silvio D’Arzo viene citato da Tondelli sia in Camere separate, sia in Un weekend postmoderno. Ma chi è Silvio D’Arzo? E perché ha una connessione con Tondelli?

Silvio D’Arzo è in realtà lo pseudonimo di Ezio Comparoni (1920-1952), nato a Reggio Emilia, luogo a cui fu molto legato come Tondelli secondo cui Reggio assumeva valore solo se inserita in un sogno più ampio: immobilità della provincia, muro di noia, tristezza, solitudine, on the road tra Milano e Rimini. L’attaccamento al luogo d’origine lo si percepisce già dallo pseudonimo scelto: Silvio da silvanus, volto ad indicare le origini appenniniche, D’Arzo da Arzàn che in dialetto significa “di Reggio”. Emanuela Caselli – in Attualità di Silvio D’Arzo – scrive che «In Casa d’altri D’Arzo racconta la sua città senza impoverirla e conduce a una ricerca di domande sul senso della vita». E sarà proprio di Casa d’altri l’opera darziana di cui vi parlerò.

(D’ora in poi, si usa l’abbreviativo CD)

La prima versione di CD esce nel 1948, intitolata Io prete e la vecchia Zelinda sulla rivista L’illustrazione italiana. Una seconda versione, definitiva e intitolata Casa d’altri esce nel 1952 all’interno dei Quaderni di Botteghe oscure e nel 1953 è pubblicata da Sansoni. Eugenio Montale disse su D’Arzo che soltanto un artista o un lettore di spirito meditativo può abbordare CD e soprattutto definì CD un racconto perfetto con un finale ambiguo. D’Arzo è uno scrittore che muove da un presupposto di realismo ad ampio spettro cromatico, come si può leggere fin dall’inizio del racconto «L’aria intorno era viola, e viola i sentieri e le erbe dei pascoli e i calanchi e le creste dei monti: e in mezzo all’ombra, lontano, vedemmo scendere al borgo quattro o cinque lanterne». In Attualità di Silvio D’Arzo, Elisa Pellacani parla di un fattore cromatico, usato da D’Arzo, per fare acquistare corpo alla parola e questo lo si può notare in tutto il racconto: come se si ascoltasse un motivetto altalenante, il lettore viene guidato per il paesello tra i colori che pervadono tutto.

L’ambientazione è di fatto reggiana, D’Arzo si ispira probabilmente a Carreto Alpi, il paese della madre. Il nucleo centrale del racconto è il dialogo fra i due protagonisti: un vecchio prete, che ormai su muove verso la disillusione della vecchiaia, e una vecchia, di nome Zelinda, che stringe con il prete un ambiguo rapporto. La vecchia si reca più volte dal parroco perché vuole porgli una domanda. Alla vera domanda ci si arriva gradualmente, come se la vecchia volesse tastare il terreno.

«È vero o no che anche voi…sì, la Chiesa…ammette che due che si sono sposati possono anche dividersi, e uno è libero poi di sposare chi vuole?»

Ma la vera domanda riguarda la morte, nello specifico il suicidio. Una povera vecchia che vuole lasciarsi morire perché tediata dalla vita.

«Tutte le mattine alzarsi alle cinque e andare giù in fondo valle per pigliare gli stracci e fermarsi a mezzogiorno un momento a mangiare olio e pane sopra l’erba di un fosso […] e il giorno dopo fare lo stesso, e anche l’altro giorno, e tutti i giorni del mondo. Perché io questo lo so: questo lo so, lo so bene: tutti i giorni del mondo. E su questo neanche voi potete dire di no. […] Io ho una capra che porto sempre con me: e la mia vita è quella che fa lei, tale e quale. Viene in fondo alla valle, torna su a mezzogiorno, si ferma davanti al fosso con me, e poi la porto al canale. E anche nel mangiare non c’è gran differenza, perché lei mangia dell’erba, e io radicchi e insalata, e la differenza sta solo nel pane. E poi a momenti io non potrò più mangiare neanche quello…come me…come me. Ecco che cosa faccio io: una vita da capra. Una vita da capra e nient’altro».

La capra della vecchia rimanda alla matrice tragica e religiosa: la capra è l’alter ego di Zelinda, emblema della sua estraneità eroica alla vita della collettività.

Si può avere il permesso di finire la vita un po’ prima? Questo il tema principale del racconto/romanzo breve.

Il prete si affeziona alla vecchia, alla sua figura perturbante. È proprio il personaggio di Zelinda che muove la riflessione:

«Tutto questo mi prese così all’improvviso che sul momento non mi venne parola. Nessuna. Ma poi no, non fu neanche così: alla bocca mi salirono parole e parole e raccomandazioni e consigli e per carità e cosa dite e prediche e pagine intere e tutto quel che volete. Tutte cose d’altri, però: cose antiche: e per di più dette mille e una volta. Di mio non una mezza parola: e lì invece ci voleva qualcosa di nuovo e di mio, e tutto il resto era meno che niente».

Alla fine, viene annunciata la morte di Zelinda a cui il prete non aveva più rivolto la parola. E la morte della vecchia gli lascia un amaro in bocca: se avesse avuto la possibilità di tornare indietro, avrebbe risposto a Zelinda?

«Mai una volta in tre mesi che m’abbia fatto il più piccolo segno o abbia alzato anche solo la testa. Lei c’era ancora: ecco tutto; e io dall’argine vedevo che c’era, ed il resto non voleva dir niente. E tutti e due sapevamo benissimo che non ci saremmo parlati mai più, neanche più salutati incontrandoci, ma anche questo era meno di niente. E adesso era finita. Qualcosa era successo, una volta, e adesso era tutto finito. Non provavo neppure dolore, però, né rimorso o malinconia o roba simile. Mi sentivo solo dentro un gran vuoto come se ormai non potesse capitarmi più niente. Niente fino alla fine dei secoli».

Se viene meno l’interesse sulle cause della morte di Zelinda che possono essere naturali o volute, cosa rimane? La riflessione e quel manicheismo tipico fra il bene e il male dove il male coincide con la volontà di morire. Se Zelinda ha servito Dio e vuole la grazia di morire e questa grazia non le viene concessa, può sperare nel perdono di Dio? O almeno nell’assunzione da parte del prete?

Casa d’altri perché coincide sia con il mondo esterno che con l’aldilà. La casa potrebbe anche essere la chiesa o il borgo stesso: il prete si trova in un luogo che non lo soddisfa, è casa d’altri. Si sente estraneo pur essendo in casa sua.

D’Arzo riesce a rappresentare la realtà partendo dal basso come fa Calvino nel suo primo romanzo (Il sentiero dei nidi di ragno), ma D’Arzo non si collega né agli scrittori di epoca fascista che prediligevano le forme, né al gruppo del ’63 come Calvino, Vittorini o Fenoglio. D’Arzo è uno dei grandi minori perché permette che lo si inserisca in un quadro rigido critico.

Casa d’altri è un racconto o romanzo breve che sia che ci appartiene: ci porta a riconsiderare l’esistenza e il rapporto intrinseco fra Eros e Thanatos. Non sono né case d’altri, né cose d’altri: sono nostre.

Sono stati utilizzati i seguenti testi:
Attualità di Silvio D’Arzo. Proposte, testimonianze, documenti – Elisa Pellacani
Silvio D’Arzo. Genesi di uno scrittore – Annamaria Manuelli
Introduzione di Alberto Bertoni a Casa d’altri

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