C’era una volta in America: quel maledetto 1 giugno 1984

C’era una volta…

— Un re! — diranno subito i miei piccoli lettori.

— No, ragazzi, avete sbagliato. C’era una volta in America.

Se Pinocchio fosse stato un gangster novel, probabilmente Collodil’avrebbe aperto così.

Il lontano 1 giugno 1984 usciva nelle sale statunitensi la pellicola definitiva di Sergio Leone: Once Upon a Time in America. Definitiva perché ultima in ordine cronologico e perché definì, appunto, un nuovo modo di fare cinema. Si chiudeva così la “trilogia del tempo”(con C’era una volta il West, 1968 e Giù la testa, 1971), nonché la carriera di Leone che per il film, si dice, perse la salute. Un cuore azzoppato proprio da quella maledetta versione americana uscita il 1 giugno, che non convinse il pubblico e allontanò il film anni luce dall’ oscar, per il quale non ricevette nemmeno una nomination di cortesia. Tredici anni di lavoro, un anno di riprese e dieci ore di girato fatti a pezzi a mani nude. Le mani del produttore/macellaio Arnon Milchan, che offrì una versione mutilata e violentata del film. La struttura a flashback e flashforward fu torturata e compressa in un’impalcatura lineare e del tutto coatta. Un’operazione feroce, giustificata dall’ intento di rendere l’opera più pop e fruibile per il pubblico americano, troppo stupido per comprendere i sottili giochi di tensione temporale e psicologica. Il figlio di Leone, quel capolavoro immenso di cinema e umanità che lui aveva curato e cesellato, spasimava ora esanime sullo schermo.images (1)

All’ Europa toccò invece, pochi mesi avanti, il privilegio di assistere ad una versione della pellicola approvata dal regista: una fabula di nuovo giocata su prolessi e analessi, di nuovo sottile nella sua gravità.  E infatti fu un successo. Bisognerà aspettare il 2012 per vedere finalmente una versione integrale di C’era una volta in America, arricchita di circa 25 minuti di scene eliminate.

Dunque, una gestazione lunga quella di C’era una volta in America, che inizia i suoi primi movimenti nella mente di Leone già all’epoca di C’era una volta il west. Una creatura che si delinea attorno a una struttura ossea già definita. David Aaronson alias Noodles, è infatti il protagonista di un romanzo di Harry Grey, The Hoods. Un capolavoro, dunque, dalle immense dimensioni, che affonda le sue radici nella letteratura, nella realtà di una New York italoamericana piccola e sudicia. Un film di pregio, nutrito dal fortunato sodalizio Leone-Morricone e da un cast di tutto riguardo: Robert De Niro (Noodles), James Woods (Max), Jennifer Connelly ed Elizabeth Mcgovern (rispettivamente Deborah da piccola e da grande).download

Il film è il poema epico del ‘900, e Leone il nostro Omero. I personaggi sono archetipi dell’essere umano, completi di insicurezze, incoerenze, fragilità, ma anche divertimento, orgoglio, dignità e amicizia. Sono bambini e sono adulti,sono amici e nemici, sono buoni e cattivi. Noodles è un uomo che ama e che stupra, Max un amico che aiuta e tradisce, Deborah una donna determinata e debole.

Tutto è doppio, ma non meschino. Lo spettatore percepisce anche gli atti più feroci come aspetti del multiforme animo umano, ammissioni di fragilità.

Le inquadrature dal buco della serratura,le luci come metafora, la musica che supera la semplice colonna sonora per farsi narrazione, il grigio delle strade affumicate da quel primo Novecento, la fame che graffia lo schermo: tutto è significante di un significato altro, più vero, più in fondo. Un’opera omnia che in poche ore riassume l’esistenza umana, decorata dal fascino gangster ma non per questo limitata.

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«Leone accompagna lo spettatore in un viaggio attraverso l’America metropolitana (e la storia del cinema su quell’America) che è reale e favoloso, archeologico e rituale. […] È un film di morte, iniquità, violenza, piombo, sangue, paura, amicizia virile, tradimenti. E di sesso. In questa fiaba di maschi violenti le donne sono maltrattate; la pulsione sessuale è legata all’analità, alla golosità, alla morte, soprattutto alla violenza. È l’America vista come un mondo di bambini». Morando Morandini

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