C’erano una volta Walt Disney e Biancaneve: uno è morto, facciamo fuori l’altra

Il 5 Dicembre del 1901, al calare di un freddo giorno a Chicago, nasceva Walt Disney, l’uomo destinato a divenire il simbolo del cinema d’animazione. Figlio di un piccolissimo imprenditore che operava in quel di Kansas City, il giovane Walt impiegò i suoi primi vent’anni in lavori poco remunerativi e piuttosto umili. Nessuno avrebbe mai potuto prevedere o anche solo immaginare cosa gli serbasse il futuro, guardando alla vita semplice che conduceva, all’ovatta di anonimato in cui essa sembrava avvolgersi e che possedeva la fisionomia – più che di una fase – di un destino ineluttabile. Ma Walt, per quanto la realtà potesse smentirlo o frustrarlo, non rinunciò mai all’intima certezza che if you can dream, you can do it”, e fu proprio questa ostinata convinzione a salvarlo, a offrirgli l’occasione che l’occasione sembrava non volergli concedere, a permettergli di divenire ciò per cui noi tutti lo conosciamo.

I suoi fallimenti furono tanti quanti e tali e quali ai suoi spostamenti: numerosi e sofferti. Fino al 1928 accumulò rifiuti da parte di case di produzione più o meno importanti, realizzò animazioni a scopo pubblicitario che non soddisfacevano le sue ambizioni e non rispecchiavano l’entità del suo genio creativo, tentò disperatamente di inserirsi in un panorama in cui l’originalità sembrava una garanzia di perdita economica. Fu costretto a privarsi di molti degli averi per cui aveva lungamente faticato al solo scopo di realizzare un film d’animazione, e si dice che quando arrivò in California avesse 40 dollari e una sola promessa: combinare qualcosa di grande. Quel che resta innegabile è che Walt Disney lottò strenuamente per avverare i propri sogni, anche dopo il 1928, quando la creazione dell’ormai celeberrimo “Mickey Mouse” gli permise di accedere all’ambiente cinematografico ma non gli aprì la strada verso il successo.

Dal 1928 al 1933 Walt si dedicò senza tregua a sperimentazioni, innovazioni, mosse commerciali e cinematografiche che potessero potenziare la qualità e la bellezza dei suoi cortometraggi.  Si ritrovò a dover sostenere gravi difficoltà economiche a causa del mancato riassorbimento dei debiti contratti per la realizzazione delle sue animazioni, ma anziché gettare la spugna scelse di buttarsi a capofitto nella progettazione di un lungometraggio: tra il 1934 e il 1937 prese forma Biancaneve e i 7 nani.

Il percorso di realizzazione fu difficoltoso e lungo, e la decisione di Disney di puntare tutto su Biancaneve fu definita dai più “pazzia”, tanto si era convinti dell’insuccesso del film e del fallimento catastrofico che ne sarebbe seguito. Ma Walt Disney non si lasciò trascinare dall’atteggiamento pessimistico di chi lo circondava e realizzò ugualmente quello che passerà alla storia come il primo lungometraggio animato in inglese e in technicolor (a colori).

Il successo fu strepitoso. L’incasso di Biancaneve arrivò a 8 milioni di dollari nel solo 1938 (circa 100 milioni di dollari al giorno d’oggi), la première ottenne la standing ovation del pubblico di Hollywood e Walt Disney divenne finalmente un personaggio di fama, nonché un’icona del film d’animazione.

Nel 1939 fondò i Walt Disney studies, e la squadra di Walt, che aveva appena concluso Pinocchio, si diede alla realizzazione di Bambi e Fantasia, concludendo intanto la produzione della serie di cortometraggi su personaggi quali Pippo, Pluto, Paperino e Topolino.

A partire dal 1941 la storia della politica estera Americana si intrecciò, in un rapporto che risulterà duraturo e non sempre redditizio, con quella degli studi della Walt Disney: Walt si ritroverà per un ventennio a svolgere il ruolo di funzionario diplomatico per il dipartimento di Stato sia personalmente sia attraverso la produzione di documentari, film e cartoni animati propagandistici, tutti a sostegno delle scelte Americane di quegli anni.

I suoi studi verranno sequestrati e adibiti all’Esercito Militare, e i cartoni animati realizzati per i militari stessi renderanno molto poco. Dumbo otterrà maggior successo di critica e pubblico, ma Bambi, lanciato nel 1942, non otterrà uguale e immediato successo, così come non troveranno molto consenso e pubblico altri cortometraggi realizzati nello stesso periodo.

Le difficoltà di trovare i fondi per la creazione e la diffusioni di nuovi lungometraggi, congelerà la produzione della Disney fino alla fine degli anni ’40, quando finalmente alcuni dei progetti elaborati riusciranno ad essere prodotti. Di questi i più importanti sono Alice nel paese delle meraviglie, Le avventure di Peter Pan e – last but not leastCenerentola .

Il resto è storia: la costruzione di Disneyland, il parco a tema Disney che Walt voleva fosse “il luogo più meraviglioso della terra”, il decollo dei Walt Disney studies, il riconoscimento ufficiale, planetario, del genio creativo Walt Disney, che morirà lasciando un vuoto incolmabile nel 1966.

Di Walt Disney si è detto di tutto e di più, al punto che è una delle figure più controverse del XX secolo. Da minaccia all’innocenza infantile ad antisemita; da filonazista ad agente segreto dell’FBI; da satanista a razzista, le accuse contro la sua persona hanno attraversato il secolo intero e sono giunte fino ai nostri giorni, amplificate da una famosa biografia pubblicata nel 1993 che demonizzava Walt Disney e inaspriva dibattiti destinati a non capitolare.

Certamente l’importanza della funzione pedagogica rivestita dai cartoni animati prodotti da Disney rendeva inevitabile che fossero sottoposti a critiche, a strumentalizzazioni da parte del potere (così come è avvenuto negli anni ‘40) e a giudizi che stabilissero se l’influenza dei modelli che costituivano fosse o meno positiva per i bambini di tutto il mondo che li imparavano e infine emulavano; ma quanto c’è di vero nelle dichiarazioni di colpa che gli sono state rivolte?

Qualche anno fa è stato pubblicato un video contenente tutti i messaggi subliminali presenti nella produzione Disney, che trovate qui. Il mondo si è spaccato in due, tra detrattori e sostenitori della tesi che Disney fosse un massone, ma se l’ideologia può facilmente confutarsi, le immagini inchiodano all’evidenza della presenza di simboli fallici e satanici contenuti in film per bambini, un dato che rende inoppugnabile e indifendibile la responsabilità – che sia minima o grave – di Disney.

Allo stesso modo, per quanto io non abbia alle spalle studi di semiotica, ritengo innegabile che i ruoli maschile e femminile, così come sono presentati dalla Disney, siano fortemente criticabili per il sessismo che manifestano: la percezione è lampante, specialmente se li si osserva con gli occhi di una bambina.

Ma vediamo perché, facendo un breve, intenso ed esemplifico excursus sui personaggi femminili della Disney creati durante e dopo la vita di Walt Disney stesso.

Il primo in ordine cronologico è Biancaneve.

Mettetevi nei panni di una bambina di 5 anni e provate a intuire quale insegnamento possa trarre da una figura totalmente priva di carattere, remissiva e dimessa, incapace di autonomia e indipendenza, dedita alla cura della casa, fautrice di una coincidenza perfetta tra salvezza, sicurezza e felicità – che oltre a giungerle dall’esterno sotto forma di autorità e legittimazione assume le fattezze di un Principe Azzurro qualunque – qual è Biancaneve.  Non serve molta immaginazione per prevedere che quella bambina coltiverà inconsciamente in sé la cultura dell’attesa e della dipendenza, nonché la consapevolezza che lo scopo primario di una donna siano il matrimonio e la famiglia, e non ne serve molta di più per capire che imparerà a confondere la bontà (valore indiscutibilmente positivo) con la sottomissione (valore indiscutibilmente negativo), al punto da praticare la seconda come evidenza della prima. La stessa dinamica si verifica in quasi tutti i cartoni animati della Disney, dove il “Vissero felici e contenti”  a cui le principesse aspirano diventa possibile solo per azione di un personaggio maschile, come se un principio e un percorso di autoaffermazione personale fossero inconcepibili per una donna. Cenerentola ha bisogno prima della magia e successivamente del Principe per potersi liberare dalla condizione servile;  Aurora (La bella addormentata nel bosco) non avrebbe nemmeno accesso alla vita se non ricevesse il bacio d’Amore da Filippo; Jasmine (Alladin) non andrebbe da nessuna parte senza il consenso del padre e l’intervento salvifico di Alladin.

Insomma, i personaggi femminili della Disney possono solo sperare, sospirare e attendere, ma non agire, pretendere o lottare per se stesse in piena autonomia e libertà.

E non ci si lasci ingannare dalle figure apparentemente emancipate che sembrano spezzare o ribaltare lo stereotipo disneyano della donna asservita al sistema patriarcale: la maledizione della dipendenza non risparmia nessuna. Iniziamo da Belle (La Bella e la Bestia), che incarna magistralmente l’impossibilità delle donne di autoaffermarsi in piena libertà. Dotata di senso critico e colta, consapevole e sensibile, intelligente e coraggiosa, autonoma e di carattere Belle costituisce un punto di rottura rispetto alle figure femminili antecedenti. Collabora attivamente alle invenzioni del padre, non cede alla lusinga della normalità nonostante venga considerata dagli abitanti del paesello in cui vive “una ragazza un po’ particolare” , si rifiuta di sposare il primo venuto (dinamica che caratterizza i personaggi femminili precedenti) perché, semplicemente, non lo vuole, e non intende rinunciare alla sua passione per i libri, coltivando l’ambizione di lavorare all’interno di una biblioteca. Belle – lo si intuisce fin dai primi minuti del cartone animato – è fatta di un’altra pasta, e proprio per questo verrebbe da credere che non possa fare la fine di tutte le altre prima di lei. Non sperateci: si ridurrà esattamente come tutte le altre, perché Papà Disney, dopo Dio, la Chiesa e la società, ha deciso che il suo destino – come quello di ogni donna che si rispetti – debba essere fare la massaia e rinunciare a se stessa per amore di un uomo. Pardon, di una bestia (che è ancora peggio). E così vediamo la potenziale sovversiva Belle diventare una Franca Viola mancata, rinunciare all’indipendenza e alla libertà a cui sembrava ambire, asservirsi felicemente alla Bestia, innamorarsene perdutamente (sindrome di Stoccolma?) e mettere in scena patetiche e ipotetiche virtù quali la pazienza, la bontà e la comprensione per essere ricambiata, in barba alle virtù intellettuali che ostentava inizialmente. Belle, dapprima mito, diventa improvvisamente m-on-ito: essere intelligenti, colte, autonome e coraggiose non porta a nulla, l’importante è essere buone, accomodanti, compiacenti e sottomesse, perché solo in tal modo può essersi felici. Belle è un simbolo di rinuncia alla libertà femminile due volte: la prima perché ricava la propria libertà da una condizione di prigionia e come se non avesse la libertà di essere libera; la seconda perché accoglie con arrendevolezza e contentezza la regressione che la sua vicinanza alla Bestia comporta, spacciando(se)la addirittura per amore.

Sul concetto d’amore elaborato dalla Disney si potrebbe scrivere un intero saggio, ma basti dire – poiché è quanto ci interessa in questa sede – che quello dei personaggi femminili che lo sperimentano è sempre un amore oblativo, cioè offerto senza chiedere alcun contraccambio; è sempre un amore che vuol dire “dedizione e sacrificio, accudimento e perdono”, per usare le parole di Ivana Castoldi. Basterebbe l’esempio di Belle, che presentandosi come eccezione scade nella regola e nella trappola dell’amore oblativo, a esemplificare l’amore femminino secondo la Disney, ma tale dinamica attraversa tutte le trame della Disney e caratterizza tutte le figure femminili, dando la percezione che non possa definirsi amore l’amore che non implica una rinuncia assoluta alla propria identità di donna in quanto individuo.

La giovane e carina Jane (Tarzan), per esempio, rinuncia a se stessa più e peggio di Belle per amore, tanto che rigetta la propria cultura, le proprie origini e perfino il proprio linguaggio per unirsi a quel troglodita di Tarzan, che, da uomo qual è, non abbandonerebbe mai il proprio territorio per amore. Ariel (La Sirenetta) fa lo stesso per poter rimanere con Eric, rinunciando all’oceano, agli affetti, allo stato di Sirenetta e alla sua natura per lui. E qui l’oblazione è ancor più evidente nella sua portata, perché per quanto Ariel desideri conoscere la terraferma è indiscutibilmente cosciente di non poter/volere abbandonare Atlantide in via definitiva:  assume questa posizione unicamente al momento dell’innamoramento, come se l’amore la legittimasse e al contempo costringesse a prendere una decisione tanto radicale che la annulli e realizzi nel medesimo istante.

Ma arriviamo a Pocahontas, che è l’estremizzazione di questo processo e la dimostrazione di come l’evoluzione tecnologica della Disney non abbia comportato alcuna evoluzione ideologica nella creazione del modello femminile. Pocahontas è l’unico personaggio femminile che si rifaccia a una donna realmente esistita, ed è anche l’unico personaggio femminile che si rifiuta di abbandonare il proprio mondo per amore di un uomo, ovvero John Smith. Apparentemente sembra che la Disney si sia finalmente convinta a lasciare che una donna scelga per se stessa e si sottragga all’amore ablativo, ma come sempre si tratta di un’illusione.

In primis perché Pocahontas ci viene presentata come una selvaggia nel corso di tutto il cartone animato, e dunque la sua rinuncia all’amore e la sua decisione a restare nella sua terra devono essere guardate secondo quell’ottica e interpretate come un chiaro rifiuto della civiltà (personificata da John) formulato da parte della bassa e rozza arretratezza (personificata da Pocahontas); in secundis perché di Pocahontas esiste un sequel in cui Pocahontas stessa cede all’amore oblativo per un uomo che si chiama ancora John, stavolta Rolfe. In tal modo Pocahontas non solo diventa l’emblema della privazione dell’amore come punizione per essere tanto selvatica, ma diviene la dimostrazione che infine ogni donna verrà annullata dal e nel suo stesso amore, per quanto indomita, libera e consapevole possa essere, assoggettandosi ad un amore oblativo. In parole più semplici, per quanti John la Pocahontas che è in noi possa rifiutare, prima o poi ne arriverà uno capace di civilizzarci all’asservimento assoluto.

E lo stesso concetto, seppur in termini diversi,  viene espresso da Tiana (La principessa e il ranocchio), che infatti viene trasformata in rana perché troppo libera e autonoma nel suo tentativo di autoaffermazione e solo successivamente, dopo aver imparato ad amare il ranocchio, ottiene l’opportunità di tornare ad essere umana, nonché comproprietaria (non unica proprietaria!) del ristorante che sognava. È con Rapunzel (Rapunzel) – ultima principessa firmata Disney –  che si ripropone la questione di un personaggio femminile in linea coi tempi, ma anche stavolta il motivo torna ad essere quello già presente nel filone iniziato da Belle: non importa chi e come tu sia, se donna la tua libertà sarà possibile solo in presenza di un uomo. Il messaggio è molto stemperato e vi è un’eco, nel personaggio di Rapunzel, di Mulan (la principessa guerriera che dovette fingersi uomo –  quindi non essere donna –  per poter essere ritenuta libera, di valore e socialmente utile: una figura filmica che risultò infine femminista ai media, non si sa come né perché), ma a parte questo anche  Rapunzel rappresenta un fallimento, l’occasione ormai perduta di creare un modello femminile finalmente capace di svincolarsi da quello tradizionale. Anche se forte, ribelle e consapevole, Rapunzel ha bisogno di Flynn per poter uscire dalla Torre e compiere il primo passo verso la libertà;  ha bisogno di Flynn per sottrarsi a Madre Gothel, poiché è lui a tagliarle i capelli e a salvarla dalla prigionia; e ha ancora bisogno di lui persino quando smette di averne bisogno, ormai giunta a conclusione del suo percorso, perché nonostante tutto una donna non è del tutto esaudita se non nella gabbia di un matrimonio, né può essere felice senza un uomo che la protegga.

Qualcuno ha sostenuto – che siano gli stessi che lo dicevano di Mulan? – che Rapunzel è un personaggio femminista perché è lei a scegliere autonomamente Eugène e ancora lei a salvarlo da morte certa. Peccato che la scelta avvenga su una gamma di uomini pari a 1, cioè Eugène stesso, e che il salvataggio avvenga attraverso una lacrima sbadatamente versata sul giovane. Dimenticate i draghi, dimenticate le spade, i combattimenti, le ferite, gli scudi, il fuoco, l’audacia e la forza, la furbizia e la prestanza fisica dei principi: noi, piccole Rapunzel, abbiamo le lacrime per salvare chi amiamo. Lacrime accidentali, dimesse e silenziose, arrendevoli e sconsolate come tutte le principesse della Disney, ma pur sempre – ovvio! – lacrime femministe.

La Disney è sempre la Disney, dicono in molti soddisfatti, e in effetti è vero: la Disney è sempre la Disney, specialmente se si tratta di personaggi femminili, visto che fa in modo che assumano di volta in volta forme e caratteri diversi per poi convergere in uguale destino e dimostrare d’avere identica sostanza.

Pungente ironia a parte, il mancato ricambio dei personaggi femminili potrebbe realmente essere uno dei motivi per cui i proventi della Disney sono in crescente calo: a fronte della Pixar, che sembra sempre essere al passo o addirittura in anticipo sui tempi, la Disney soddisfa sempre meno le aspettative delle bambine, che iniziano a guardare vagamente perplesse figure storiche dell’immaginario fiabesco quali Biancaneve & co. e si affezionano maggiormente a personaggi femminili più umani ed emancipati. È il caso di The Brave, ultimo nato in casa Pixar che ha ottenuto un successo di vendite straordinario. L’eroina del cartone animato ha innamorato adulti, bambini e bambine nella stessa misura. Non perché sia bella, ma perché il suo personaggio è fresco, nuovo, ribelle e tuttavia virtuoso nella ricerca di una libertà che non leda i rapporti affettivi. Merida non è costretta a scegliere tra la famiglia d’origine e quella che si costruisce per amore, finisce felice e contenta  solo per aver visto riconosciuta la libertà di scelta che era consapevole le spettasse, senza aver bisogno di un principe tra i piedi per esserlo. Merida partecipa ad un torneo non per suo padre – come Mulan – ma contro il padre e solo per se stessa, per ottenere la propria mano che significa la propria libertà. Merida è un personaggio vitale, dinamico e umano, tre qualità che la rendono più amabile di qualunque prodotto Disney.

Le principesse Disney sono immutabili, confinate nella loro perfezione, incastrate in una bellezza statica e vuota che le condanna all’immobilità, e l’alterazione che intendono riportare ad uno stato di equilibrio è esterna almeno quanto la sua risoluzione, come se tutto le riguardasse ma nulla le coinvolgesse al punto da indurle all’azione. Merida, invece (come quasi tutti i personaggi della Pixar), si perde e ritrova, lotta contro se stessa prima che con una possibile entità maligna, fallisce e riprova, sbaglia e si corregge, si confonde e poi schiarisce le idee, strepita e poi chiede scusa: è umana e imperfetta, pur essendo pura di cuore; è buona pur non essendo disposta a cedere se stessa per amore. E come tutti i personaggi della Pixar subisce e combatte un’anomalia che non è solo esterna come avviene nei cartoni Disney, ma è anche e soprattutto interna, a dimostrazione che il cambiamento interiore e quello esteriore si condizionano reciprocamente in un rapporto dialettico costante.

Si spera vivamente che a 110 anni dalla nascita del caro Walt Disney la Disney inizi a ripensare alle figure femminili che propone e produca un cartone animato che riscatti la donna mostrandola in tutta la sua forza, la sua energia, la sua autonomia e le sue abilità.

Intanto, che Walt non me ne voglia, meno male che c’è la Pixar.

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