Chi ha paura di Horacio Quiroga? Chi può vivere senza una letteratura della vita?

Un po’ sì, lo ammetto, una parte di me è abbastanza inquietata dalla figura di Horacio Quiroga e dalla sua precarietà e della sua vena nevrotica legata all’ossessione della morte. Ciò non lo rende uno scrittore meno interessante, anzi, gli conferisce una drasticità drammatica e criminale che lo distingue da tutte le altre voci sudamericane della sua generazione. Marginale, indipendente, legato anche al mondo dell’infanzia e dei racconti fiabeschi con il loro lato oscuro e perturbante, Horacio Quiroga è per me una scoperta relativamente recente e fortuita. Frutto del caso e della fantasia scatenata quando si tratta della fascinazione che mi concedo verso il mondo della scrittura: preparando una recensione su un romanzo spagnolo, La notte ha cambiato rumore di Maria Duenas mi sono trovata ad interrogarmi su una possibile ispirazione intraletteraria. Essendo Maria Duenas una professoressa universitaria di letteratura ho creduto che potesse essersi ispirata a qualcuno in particolare quando decise il nome dell’eroina del suo romanzo, Sira Quiroga. Così, navigando ho scoperto l’esistenza di questo letterato omonimo. Letteratura chiama letteratura anche se probabilmente questa libera associazione non ha alcun fondamento. A quel punto, impossibile dissuadermi dall’approfondimento della conoscenza con questo ‘nuovo’ scrittore nella mia libreria, troppo curiosa di dare vita a questo nuovo legame immaginario e di analizzare la sua personalità inquieta.

In Italia, Horacio Quiroga non è celebre quanto lo sono Borges e Cortazar, ma questi ultimi lo conoscevano bene e si leggevano tutti e tre vicendevolmente, per quanto Quiroga rimase sempre una eccezione, una provocazione, un ribelle, un eremita autonomo che non si considerava parte di alcun gruppo.

Partiamo con tracciare la prima distinzione chiara che per scelta di Quiroga stesso lo ha visto prediligere il genere del racconto breve piuttosto che del romanzo classico, un’esperienza talmente raffinata che lo ha indotto a scrivere persino il Decalogo del perfetto cuentista. A suo parere, la qualità più importante in tale ambito è la scelta precisa e minimalista del vocabolario, la selezione mirata verso l’obiettivo espressivo del concetto o dell’immagine, senza orpelli.

Se vuoi esprimere con esattezza questa circostanza: ‘dal fiume soffiava un vento freddo’ non esistono nella linguaggio umano altre parole che quelle così combinate per esprimerla. Una volta diventato esperto, capace di gestire di tali parole, non ti preoccupare di sapere se sono assonanti o consonanti.

Una morale integra della scrittura nello stile franco e diretto, nella forma pura, spoglia e chiara, non ermetica, fotosintetica piuttosto.

Negli anni di produzione letteraria, sappiamo per certo che Quiroga entrò in contatto con le sorelle Ocampo (Silvina e Victoria) e che come tutti gli intellettuali dell’epoca visitò l’Europa, Parigi in particolare. Nonostante l’apprezzamento verso lo charme continentale dell’opera di Hugo, l’interesse per la moda estetica europea, visse la maggior parte della sua esistenza in Argentina, pur essendo nato in Uruguay.

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Una foto pubblicata da Les Étincelles des Mots (@lesetincellesdesmots) in data:

Il primo libro di questo autore lo trovai per caso a Bologna, nelle graziose edizioni Sellerio, tra la fisarmonica di testi allestiti dalla Libreria Aldrovandi. Fui sedotta da Il tetto di incenso, una storia di fiction costruita a partire da un espediente autobiografico.

Horacio Quiroga nasce a Salto Oriental [attualmente Museo] in Uruguay nel 1878. Si trasferirà a San Ignatio nel bel mezzo della foresta tropicale dove cercherà a più riprese di avviare delle aziende di produzione del cotone. Affascinato dalla foresta, tutta la sua opera è marcata dall’impronta della natura selvaggia, con la su parte di fantasmi di follia e violenza. Considerato il caposcuola latino americano del genere del racconto, può essere considerato l’alter ego di Maupassant quanto al post-naturalismo e l’alter ego di Villiers de L’Isle-Adam per quanto riguarda le invenzioni crudeli. Il canto della malinconia della morte invade i suoi racconti, di terrore, paranoia ma anche di bellezza eccezionale, Quiroga si inabissa laddove sgorga la vulnerabilità dell’esistenza.

Insicurezza, pericolo, allarme, ma anche la fatalità che è l’ingrediente connaturato alla biografia dello scrittore, alla sua realtà pratica, dominata, per il resto, dalla filosofia dell’austerità. In effetti, la vita di Quiroga è stata attentata da una serie di morti alcune naturali, altre violente, altre accidentali, ma tutte traumatiche. Soprattutto, un evento ha definito tutto il resto dei suoi giorni: l’aver ucciso in un incidente un caro amico. Ma non fu da meno il suicidio della sua prima moglie. Lui stesso sceglierà questa fine per sé a Buenos Aires.

Casa de Horacio Quiroga, San Ignacio, Misiones, Argentina

Casa de Horacio Quiroga, San Ignacio, Misiones, Argentina

La perdita e affrontare quel che resta che può essere difficile e inospitale, non riprendersi mai dai colpi duri e senza spiegazioni che a volte un destino può riservare. Ma anche momenti inattesi, come la richiesta di Lugones di partire pe una missione in cui Quiroga sarebbe stato assunto come fotografo ufficiale. In questo frangente, avendo accettato la proposta, Quiroga si innamorò irreversibilmente della Mesopotamia argentina e di tutti i luoghi di frontiera, marginali, disagiati e le loro popolazioni a cui diede volto e nome, atteggiamento umanitario, senza alcun disprezzo né compassione, sempre con un’accettazione profonda della realtà delle cose. Antropologia dettata dai fatti che gli valse il titolo di cantore de los desteddados.

La sua scrittura è una lettura che ci invita a seguirlo in un viaggio che sconfina nel surreale reale dove le sue storie planano con naturalezza, fino ai limiti di quello che potrebbe sembrarci irreale, impossibile o inesplicabile e che malgrado i limiti della nostra comprensione esiste, da qualche parte e non poi così lontano, sempre qui, sul pianeta terra. Se è vero che Quiroga ritrova talvolta la tradizione del realismo crudo, sotto l’influenza di un Modernismo ispano-americano fortemente influenzato dagli scrittori francesi della fine del secolo, è altrettanto vero che ha saputo distaccarsi nel tempo, progressivamente, dal modello per integrare nei suoi tesi una realtà altra: il fantastico non è più una convenzione di genere come in Maupassant, bensì la sola forma di espressione possibile di una esperienza vitale che sfida ogni imbastitura tentata di razionalità. Si tratta, in fondo, dell’esperenzia stessa, propria, di Horacio Quiroga.

Gli elementi cruciali del suo genio sono a mio modo di interpretare: la fretta (di scrivere), il nuovo (la necessità di creare qualcosa di diverso e originale come volontà condizionante a monte il processo immaginativo e discriminante). In questo senso, si ritraccia nella sua produzione più che fertile e copiosa, uno stile nervoso nelle formulazioni secche, nei dialoghi laconici, alcune lacune e spesso imprecisioni. Distratto, sempre di corsa, contro il tempo, soprattutto all’epoca della sua carriera di giornalista.

anacondaFu anche editorialista e, padre di sette bambini, fondatore di una rivista dedicata ai racconti per l’infanzia: El Cuento Illustrado. Cuentos de la Selva. Il Racconto Illustrato. Racconti dalla Selva, che è, forse, la raccolta più amata e ancora attualmente divulgata tra le giovani generazioni sudamericane.

Questa sensibilità perspicace, così intensa, attorno all’universo infantile e adolescenziale va, appunto, in parallelo alla sua fobia rispetto alla morte: due estremi. La morte così presente nella sua vita è stata protagonista delle sue relazioni affettive, causa delle sue ferite più sofferte mai rimarginate tanto da tracimare nell’ispirazione a sublimarle in parole dotate di senso come è lampante nel caso di Anaconda:

 

Ogni racconto è un labirinto allucinante nel quale l’uomo si dibatte contro la morte e dove il lettore è alle prese con lo spavento, la sopresa, l’ironia. Nella linea dei racconti neri di Poe, le sue novelle ci trascinano in un universo ossessivo dove il pericolo della foresta tropicale, abitata da rettili e animali strani, regno di febbre e del calore asfissiante, si unisce alle minacce della follia delle ombre e degli incubi.

Una persecuzione di cortazariano comune denominatore. Presi in trappola dalla psiche fragilizzata dalla fragilità e dall’imprevedibilità della vita, nessuno è al riparo, come ci ricordano le peripezie allucinate del costruttore e ristrutturatore del ‘Il tetto di incenso’, quando l’uragano arriva, la tempesta che non smettere di battere e distrugge tutto, di nuovo e ancora e ancora e l’istinto di sopravvivenza è sempre sotto sforzo anche quando non c’è speranza. Tutto si rigioca ogni notte, ogni nuovo giorno. Ed è anche un fatto di fato fortunato o di pirandelliana sfortuna.

 

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Si direbbe che la sua suscettibilità, la sua confusione, il suo lato anticonformista, la sua dose di antiromanzo – tanto da poter parlare di Nouveau Roman ante-litteram – hanno determinato con forza il suo punto di vista sulla geografia transatlantica, tutt’altro che un’ipotesi Gaia, piuttosto un contratto di società rifiutato dalla natura, folgorazione che ci ricorda che ogni filosofia materialista e metafisica è frutto anche delle qualità metereologiche e ambientali della patria che la concepisce formando una cultura idealmente dominante, ma applicabile a una minima porzione sproporzionata del globo.

Per Horacio Quiroga la vita nella foresta è una scorciatoia per raggiungere e realizzare l’essenziale: l’uomo e i suoi limiti, l’inestricabile cambiamento o il mistero del reale di cui l’impenetrabile forza è ben più che una metafora.

E val ben più che una metafora, questa forza magnetica occulta, in questo senso ‘spirituale’ senza superstizione. E senza fede particolare nelle illusioni (forse proprio per questo istinto), Horacio Quiroga non ha temeuto di, o comunque non si è esonerato dal, posizionarsi in contrasto con la moda del circolo degli scrittori della sua epoca, compreso il popolare Borges, avendo il coraggio e l’ardire di far muovere i primi passi a un anti-eroe non eroico, quasi anti-letterario per costituzione, ma non cagionevole.

Nell’Aleph, Borges delinea l’eroe tipizzato, che tipicamente è un personaggio che arriva a fare delle scelte nette, separando le situazioni in due, deciso a rischiare per operare un risultato che modificherà il suo statuto d’onore, dandogli il sentimento di avere un senso per il fatto di aver compouto un gesto, delle gesta: una Prova epica che, per il fatto di averla ‘trovata’ e affrontata e sfidata, lo renderà migliore, superiore (secondo il criterio dello sfuardo esteriore di una autorità lettore/spettatore e altro essere umano che metterà a confronta la propria vita conq uella del protagonista). Anche nel caso in cui tale eroe fosse sconfitto, avrebbe almeno dimostrato di mirare a una elevazione, di aver mirato alto, non accontentandosi di quello che è, ma volendo diventare e diventare ispirato, ispirato da qualcosa di nobile (passato, già esistito, da inventare, miraggio per molti). Tale obiettivo ‘importante’, ‘nobilitante’, ‘glorioso’ basta in sé a provocare un senso di valore che risiede nella tenacia di non soccombere agli avvenimenti senza aver almeno lottato fino all’ultimo (per la salvezza di sé, dell’immagine, dell’umanità in cammino).

Al contrario, Quiroga ci mostra un personaggio ‘diversamente eroico’. Colui che sa sobbarcarsi la lotta per la sopravvivenza alimentare quotidiana. Colui che è ai margini pur essendo a casa propria. Colui che non ha ricevuto alcuna missione particolare. Colui che non è stato colonizzato da alcuna cultura. Colui che non ha nient’altro da fare che le proprie piccole tele per vivere, mangiare, dormire. Colui che è in vita e che vive senza letteratura. Colui che vive laddove la società non è regolare nelle forme e laddove non determina il ruolo individuale, laddove la natura è in dialogo tirannico con l’animalità.

Senza tecnologia e senza scienza, lo spirito di adattamento e l’adattazione. Un nuovo concetto di ontologia e dover essere. Per sopravvivere ci si ‘deve adattare’ all’inadattabilità. Ma in una condizione di nascita, e non una scelta di ritiro politico dal mondo urbanizzato. Ciò che non possiamo scegliere né comprare. L’economia dell’irragionevole senza scampo apparente.

Per Horacio Silvestre Quiroga, la foresta di Misiones non è dunque un luogo di ritiro o pensionamento esotico, bensì il luogo del confronto al pericolo di morte, tangibile, spesso morale. Si sembra un esilio, ciò non lo è che agli occhi brillanti dei suoi connazionali contemporanei. Lugones il suo primo maestro e modello, Rodo o il il giovane Louis Borges che più volte ha ripetuto e manifestato la sua irrimediabile comprensione davanti all’opera di Quiroga.

Una richiesta di soccorso muto, che è comunque una forma di accanimento eroico dell’ostinazione. Un’ostinazione che è spesso rivestita di elogi come dote, ma che è potenzialmente la prima fonte di pericolo quando ci si ‘ostina’ a rimanere in una situazione irrimediabile, irrimediabilmente tossica e ostile. Che sia una forma di dipendenza caratteriale? Una forma di alienazione delle compulsioni deliranti? Che sia una allegoria della mancanza di immaginazione che ha lo stesso effetto disastroso di una immaginazione troppo fervida? L’impulso di ripetere all’infinito non è una forma di cecità che assomiglia alla follia della disperazione? Ciò che è disarmante che conseguenze ha sulle chances di sopravvivenza del disarmato? Non sembra che nelle trame di Quiroga ci sia la pietà di introdurre la dimensione della fede. Il corpo è a corpo. Ognuno è legato al proprio discorso che in alcuni casi assomiglia a un filo di spago slegato e avviluppato ripercorso senza capo né coda che quel percorso sfaldato sconclusionato. Ma è l’unica cosa di cui si dispone, per giocare, per intrattenersi, per occuparsi, per non perdersi dissolvendosi, simultaneamente e paradossalmente è proprio quella coazione che condanna. Mancano i mezzi non gli sforzi.

La sperimentazione stilistica tocca estremi di rigidità che suscitano l’evocazione di ciò che potremmo definire una personalità letteraria di dichiarata aloofness.

Dell’irrisolto, del problematico, della deformazione del vuoto e della perdita, dell’inestricabile rovo dell’isolamento, Horacio Quiroga si è fatto traduttore non togato. Conoscendosi a fondo non si può risolvere tutto, ciononostante non si può dire che Quiroga non si conoscesse bene, tanto bene che con grande auto consapevolezza constatò senza brividi e dichiarò senza inibizione (chissà se vanità): Luminoso, como el infierno. Tal creo.

Senza la letteratura della vita, foss’anche personale, foss’anche eccentrica, forse non si può resistere, nemmeno in un libro, da questo ossigeno prende sostanza e legittimità la retorica di ogni narrazione.

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