Conversazioni con Michela Marzano

Quel giorno speciale, di Laura e mio: dreams become true. Eravamo estasiate, senza parole, su di giri… Michela Marzano – l’amiamo molto – ci ha concesso un’intervista, un momento prezioso.

tumblr_no19ivZtFK1u3xktro1_r1_500Michela Marzano (Roma, 1970), filosofa, professore ordinario – dal 2010  insegna filosofia morale presso l’Université Paris Descartes -, perenne studiosa, ex politica, attuale direttrice del Département de sciences sociales (SHS, Paris Cité Sorbonne, Université Paris Descartes), saggista e scrittrice.  Le sue opere in italiano più famose sono Estensione del dominio della manipolazione (2009), Sii bella e stai zitta (2010), Volevo essere una farfalla (2011), Avere fiducia (2012), Il diritto di essere io (2014) e Papà, mamma e gender (2015).

La scrittura di Marzano è limpida, fresca, così lontana dall’accademismo che troppo spesso procede per strade parallele rispetto a ciò che lo circonda, alla società. Michela Marzano cerca da sempre di incarnare il pensiero, andando al di là delle contraddizioni umane, e parte proprio dalle sue mettendo a nudo con i propri lettori tutto il suo vissuto, tutta la sua sofferenza. Ha usato spesso la scrittura per raccontare la sofferenza non ascoltata, la sua ma anche quella degli altri, come anche i momenti di gioia e fiducia, accettando la fragilità umana. Come scrive Hannah Arendt, solo il bene è profondo e può essere radicale. 

Volevamo iniziare proprio dal tema delle relazioni affettive, lei ha dedicato tanto alla sua attività editorialista proprio sull’amore e sulle relazioni affettive. Per esempio al Maxxi per La Repubblica delle Idee ha ripreso le riflessioni di Bauman parlando – della ‘nuova geografia delle relazioni affettive’ – della fragilità dei legami e delle relazioni, che sono liquidi così come la società è liquida, le nostre relazioni affettive sembrano delle relazioni “usa e getta”. Ha cercato di dare voce e parole proprio al concetto d’amore, è lei stessa che scrive che quando si parla di amore tutto si mescola: emozioni, pulsioni, desideri, repressioni… L’amore è comunque la prova più difficile che dobbiamo affrontare nella nostra vita ed è amore verso l’irriducibilmente altro. Per lei l’amore è davvero tutto?
Dunque L’amore è tutto, che è il titolo del mio libro (L’ amore è tutto: è tutto ciò che so dell’amore) tratto da un verso di Virginia Woolf perché parlando dell’amore dice “L’amore è tutto e tutto ciò che so dell’amore”. Fare riferimento a questa frase di Virginia Woolf è stato per me il modo di dire due cose al tempo stesso: da un lato, il fatto che io sono profondamente convinta che è sempre e solo per amore che noi agiamo. Quando dico che sempre e solo per amore agiamo, intendo non soltanto nei confronti delle altre persone ma anche nei confronti di tutto quello che facciamo. Io dico sempre che il motivo per cui scrivo è per amore, perché c’è qualcosa che anima e che è comunque legato all’amore per gli altri, all’amore per il mondo, all’amore per determinati valori. Al tempo stesso, aggiungendo “tutto ciò che so dell’amore”, faccio anche riferimento al fatto che, indipendentemente da tutto quello che noi sappiamo, quello che noi sappiamo è sempre una parte nel senso che poi l’essenza dell’amore resta legata a una dimensione di mistero. Secondo me quando si parla di amore bisogna sempre tener presente che non tutto è dicibile, non tutto è raccontabile, anche semplicemente perché ognuno ama a partire da alcune zone misteriose di se stesso. C’è sempre qualcosa di segreto che ci anima, che ci permette talvolta di entrare in relazione con l’altro sulla base di un non conosciuto, un mistero, un segreto che ci riguarda ma che riguarda anche gli altri.

Parliamo di Zone d’ombra… Lei scrive <si ama anche indipendentemente dall’orientamento sessuale>. È nel suo ultimo libro Papà, mamma e gender che condanna ancora una volta – considerati gli ultimi avvenimenti è necessario ripeterlo – le discriminazioni e la violenza contro le persone omosessuali e transessuali. Siamo ovviamente ancora sgomenti per gli eventi di Orlando. Prendendo in considerazione anche in generale questi ultimi anni, sembra che ci stiamo spostando da sistemi di potere gerarchici e società definite storicamente da modelli di autorità monolitici all’affermazione di identità in divenire che cercano di aderire al proprio Essere e che scoprono e rivendicano la propria autonoma capacità di intendere, di volere e di scegliere e, quindi, che non aderiscono e rispondono più alle manipolazioni e alle intimidazioni di una regolazione stereotipata o accentrata o dominante. Possiamo leggere questi atti omicidi che puntano al terrore come tentativo di sequestrarci proprio emotivamente, come se fosse uno sbilanciamento di un risentimento, di una incapacità di gestire quel vuoto a cui molti hanno sostituito l’onnipotenza di una  figura simbolica violenta, regolatrice, vendicativa e punitiva (che vorrebbe ripristinare la tirannia dell’indiffereniato) all’accettazione  dell’Essere in quanto tale come espressione della Creazione che è invece capace di concepire il molteplice nelle sue differenze? Cosa ne pensa?
Io penso che il problema resta comunque da secoli lo stesso: la difficoltà profonda di vivere con l’alterità, laddove con alterità si intende tutto ciò che è altro rispetto a sé ma anche tutto ciò che è altro rispetto a un determinato modello che si ha dell’essere umano e del vivere insieme. Per cui ancora oggi assistiamo a questa violenza, nonostante siano stati fatti passi avanti, nonostante siano decenni che si cerca di spiegare, di insegnare e di affermare che oramai l’orientamento sessuale, per esempio, è una delle tante diversità che ci caratterizzano perché in realtà ogni essere umano è unico e quindi diverso da tutti gli altri. Non esiste un unico modello di essere uomo, non esiste un unico modello di essere donna, non esiste soprattutto un unico modello di essere persona. Ebbene, nonostante l’orientamento sessuale sia una delle tante differenze, si ha tendenza a leggerlo, ancora oggi, più come una devianza che come una differenza. Per cui c’è proprio un problema di assenza di uguaglianza: l’uguaglianza si realizza se e soltanto le differenze non vengono lette come implicanti automaticamente una forma di inferiorità. Mentre ancora oggi, noi, cioè la società, tende a leggere la differenza come un’inferiorità e quindi a condannare tutti coloro che, diversi, metterebbero in discussione questo modello unico di essere umano. A partire da lì, ovviamente, la discriminazione scivola poi facilmente in una forma di odio e in una forma di volontà di cancellare l’altro o di punirlo per il suo essere diverso. Questo, naturalmente, non permette né di poter costruire una società egalitaria né di permettere a ciascuno di poter portare avanti un proprio progetto di vita che non sia in contraddizione con l’esistenza altrui. Abbiamo una difficoltà profonda, oggi, anche a immaginare un vivere insieme molteplice. Come se l’unica possibilità di strutturare il vivere insieme fosse la conformità, laddove la non-conformità viene immaginata come pericolosa. Mentre, in realtà, il vivere insieme  è possibile se, e soltanto se, un vivere insieme è molteplice, diverso, al cui interno sia anche presente la possibilità di un conflitto, perché poi il conflitto non impedisce il vivere insieme. Il vivere insieme muore nel momento in cui viene uccisa ogni forma di conflitto.

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opera di László Moholy-Nagy

Invece, in riferimento alla lotta contro la violenza contro le donne: ci pare che in questa dimensione di resistenza, reazione e azione sempre più forte contro la violenza di genere da parte delle donne, il nucleo essenziale sia l’estirpazione del senso di violenza che si è insinuato e cristallizzato come “sentimento di realtà e impotenza” sostituendosi alla percezione di piena integrità personale. Con ‘estirpazione’ intendiamo non tanto un atto di rimozione, ma proprio la conquista di una deframmentazione che consenta di stare davanti a quel dolore, accettando che sia accaduto e accettando di poter smettere di identificarsi con un “corpo di dolore”. Allora, come recuperare la sicurezza del proprio mondo e la percezione della propria capacità di difendersi e di arrestare l’identificazione con la causa della violenza, quindi tagliando il cordone trofico con l’abusante. In altre parole, la violenza è modificativa e può portare alla paralisi, come può una donna che l’ha vissuta, riavvicinarsi alla fiducia e alle relazioni d’amore senza scivolare nella fuga o nella negazione all’apertura della propria vita. E dirsi che, “sì, è possibile!”?
Questo è un tutto fondamentale, nel senso che effettivamente nel momento in cui si è stati confrontati con la violenza, il problema è quello di ricostruirsi e, soprattutto, riuscire a credere che il proprio valore sia intatto. Nel senso che lo scopo della violenza, in modo generale certo, è di distruggere: la violenza fisica distrugge fisicamente, la violenza psichica distrugge psichicamente. Quello su cui si fonda l’atto è l’intenzione violenti è proprio lo sbriciolamento della persona. Chi ha subito violenza si sbriciola ed è estremamente difficile, poi, ricompattarsi e ritrovare una forma non solo di identità, ma anche, proprio, di fiducia in se stessi e nel proprio valore. Questo, chi commette la violenza, lo sa bene: sa bene che la violenza distrugge l’altra persona e d’altronde questo è il suo scopo. Quindi, il problema che si pone è come ricostruirsi nel momento in cui è si è stati confrontati a dei gesti e a delle parole che avevano come scopo quelle di distruggere. Questo implica tutto un lavoro difficile di ricostruzione del rapporto tra sé e sé da un lato, e tra sé e gli altri dall’altro lato, sapendo che non è mai l’altro che ci può attribuire del valore. L’altro deve riconoscere l’esistenza del valore, ma questo è possibile a partire dal momento in cui noi siamo i primi a essere consapevoli del nostro stesso valore. Ecco perché è così importante tutto un lavoro su di sé per riuscire a capire che nonostante quello che si è subito, il proprio valore resta intatto. È interessante e anche drammatico raccogliere le parole delle vittime che sono sopravvissute: raccontano come quello che hanno subito le ha portate progressivamente a fare a pezzi la propria umanità e come la difficoltà è quella di continuare a credere che la propria vita ha un senso, che la propria persona ha un valore anche quando, sistematicamente, sono state confrontate all’umiliazione. Per questi motivi è difficile ricominciare e credere di nuovo alla possibilità di una relazione paritaria e simmetrica, quando l’asimmetria della violenza ha distrutto proprio il punto di partenza per poter dar fiducia.

Anche volendo astrarre dal rapporto amore-violenza, potremmo dire che è quando si inizia ad amarsi e quindi a prendersi cura di sé stessi, smettendo di farsi violenza (colpevolizzarsi, svalorizzarsi…) – impedendo quindi anche agli altri di infrangere limiti -, che inizia la presa di contatto con le proprie risorse interiori e con la propria libertà di esprimersi, tanto che persino nei momenti di possibile recessione arriva la creatività come potenzialità più elevata di trasformare ciò che si temeva distrutto. In questo senso, è possibile stare davanti al vuoto senza riempirlo, ripararlo o ripeterlo o annegarci? E piuttosto imprimere una direzione al proprio cammino e seguirlo, finalmente volgendosi verso (riprendendo il concetto proprio ai ‘tropismi’) quel vasto spazio che è al di là delle parole e del silenzio dell’incertezza? Potremmo qualificare questa operazione e questo moto come propri della ferita narcisistica benefica che integra il fantasma della perfezione, ne fa il lutto (della perfezione e delle altre ombre) e riconosce la pulsione del controllo esprimendo il desiderio di abbandonarlo? Come accogliere l’inatteso, come affidarsi alla nostra ricettività che associa e “sente” senza cadere nella paura di manipolazioni? Coltivando il profondo desiderio di entrare in contatto vero e profondo con gli altri?
Anche questo è punto essenziale, legato alla questione precedente che emerge nell’istante in cui ci si interroga sul proprio valore, perché è da lì che si deve ripartire per poi poter creare di nuovo un legame con gli altri. Quello che è importante capire è che il proprio valore  non è legato a un situazione di tutto pieno, cioè il valore di ognuno di noi è intatto anche se ognuno di noi non è perfetto. Bisognerebbe pian piano sganciare l’idea del valore intrinseco che ognuno di noi ha rispetto a questa idea di essere sempre all’altezza delle aspettative altrui ed essere sempre all’altezza delle proprie aspettative perché in realtà il valore dell’essere umano è anche legato alle proprie imperfezioni, alle proprie mancanze, alle proprie fragilità, cioè a quel famoso vuoto di cui lei parlava nella domanda che è presente in ognuno di noi. Tutta la questione è cosa fare di questo vuoto che c’è, per evitare di scivolar dentro ed essere annientati e, al tempo stesso, per evitare di illudersi di colmarlo completamente. Infatti, la relazione con l’altro è equilibrata se, e soltanto se, immagino che l’altra persona possa essere una persona con la quale io, al limite, attraverso questo vuoto, senza immaginare che l’altra persona abbia il ruolo, la funzione di colmarlo, perché né io posso colmare il vuoto altrui né l’altro può colmare il mio. Nel momento in cui si immagina che la relazione possa colmare il vuoto, in realtà, inevitabilmente, si scivola in una forma di strumentalizzazione dell’altro che impedisce la relazione e, dall’altro lato, impedisce anche la consapevolezza del proprio valore, che è lì –  da sempre e per sempre – indipendentemente dalle fratture dell’esistenza.

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studio di Rafael Araujo

Nel 2011 è uscito  il suo libro Volevo essere una farfalla, dove lei si è messa in gioco con tutta se stessa. Una presa di coscienza di sé, esplorando quel vissuto che l’aveva portata anche a riconoscere il suo interesse filosofico sul corpo e sula sua fragilità. In un’intervista ha dichiarato: <Non potevo sviluppare un pensiero indipendentemente dalle macerie del mio corpo. Ecco perché mi interesso all’etica, con uno sguardo non normativo>. Lei era spaventata dalla scrittura in quel momento? Come ha potuto superare quell’ostacolo, dando fiducia a se stessa e anche ai suoi lettori? Volevamo sapere com’è stata, per lei, quell’esperienza così coraggiosa e limpida.
In realtà, quel momento di scrittura è arrivato nel momento in cui io avevo già fatto la pace con me stessa e con le famose fratture di cui parlavo prima. All’interno e durante il percorso di analisi cercavo appunto di fare la pace e di accettare questo famoso vuoto senza scivolarci o senza immaginare che qualcuno dovesse colmarlo, e tale percorso impediva la scrittura. La scrittura è arrivata nel momento in cui, avendo comunque la forza della consapevolezza dei miei limiti, ho acquisito la consapevolezza che questi limiti erano anche il mio punto di forza. A quel punto, ho potuto raccontare quello che, per tanto tempo, non riuscivo a dire. Una frase che io cito proprio in esergo di “Volevo essere una farfalla” sono due versi di Jeanne Hyvrard dove lei dice che Urlare non serve a niente, ma serve per comunicare la frattura del mondo. In che senso l’ho citata? Fintanto che il dolore era tanto, non potevo scrivere, perché quello che veniva era solo urlo, era solo grido. Nel momento in cui sono riuscita a fare un passo accanto alla sofferenza è diventato possibile raccontare quello che era stato, per aprire anche porte di speranza a tutti coloro che attraversavano esperienze simili. Mi sembrava importante anche per cercare di fare un’operazione filosofica, poi è stato solo con il tempo, progressivamente, che sono riuscita a capire quello che sosteneva Hannah Arendt – che per me è un punto di riferimento filosofico – quando affermava di aver sempre rifiutato l’etichetta di filosofa perché, per troppo tempo, la filosofia era stata un pensiero astratto e un pensiero disincarnato. Hannah Arendt ci dice che se vogliamo incarnare il pensiero, noi dobbiamo partire dall’evento, laddove con evento Hannah Arendt intende tutto ciò che ci attraversa, tutto ciò che ci sconvolge e tutto ciò che ci costringe a rimetterci in discussione. Ora, nel mio caso, l’evento era stato un po’ il sintomo, il sintomo dell’anoressia e dei disturbi del comportamento alimentare, e sono stati il punto di partenza, per me, per reincarnare il pensiero, per poter affrontare, partendo appunto da me stessa, tutta la questione del rapporto tra vuoto e pieno, tra perfezione e imperfezione, accettazione delle proprie fratture e invito alla relazione, anche se tante volte la relazione ci costringe a rimetterci in discussione.

Possiamo dire, in generale, che la sua elaborazione sia una educazione sentimentale più estesa, che non comprende solo il rapporto di coppia di cui abbiamo parlato, quindi una elaborazione che parte dalla filosofia – come Sua vocazione  originaria- fino a superarla. La filosofia e l’intelligenza razionale analitica-sintetica – che permetteno di discriminare e discernere e ordinare – diventano strumenti che raccontano il “limite” perché “al di là c’è anche altro”. Contenuto che diventa metonimico, nel senso che ci parla di come la cultura, rappresentata dal nostro sistema filosofico, possa essere limitata. E ciò non forzatamente in senso negativo, ma piuttosto la coscienza di come radicarsi a un limite possa permettere l’apertura all’infinito che è composto di interconnessioni e interdipendenza. Ci è parso di riscontrarlo proprio sin dalle sue prime speculazioni – che riportavano in luce il corpo come partner imprescindibile della mente, il cuore della ragione – per condurci all’idea di unione con il piano energetico e con il piano dei potenziali psichici. Questo non è considerabile come un movimento verso la spiritualità? Spiritualità intesa come intuizione di un luogo dove l’Essere interno a noi stessi è in esistenza e non identificabile o non afferrabile per mezzo dei parametri comuni che conosciamo.
Non ho mai pensato di caratterizzare questo tentativo che ho di portare avanti il pensiero della finitezza della condizione umana come una forma di spiritualità. È vero invece che per me quello che è sempre molto importante trasmettere è il fatto che, in quanto persone incarnate, non possiamo prescindere dalla condizione di finitezza a cui ci rinvia il nostro corpo, cioè il nostro corpo è lì appunto come un limite, un limite all’onnipotenza della volontà, ci ricorda che forse ognuno di noi è caratterizzato più da ciò che non è e da ciò che non ha che da ciò che è e ciò che ha. Secondo me, se noi partiamo da lì, partiamo da ciò che manca, da ciò che manca all’essere, da ciò che manca all’avere, molto probabilmente riusciamo, da un lato, a spiegare anche i momenti di irrequietezza, di tristezza e talvolta anche di vuoto, di fronte ai quali ci troviamo; dall’altro lato, riusciamo però anche a spiegare quell’anelito all’incontro, cioè l’anelito a quella alterità che ci permette poi di immaginare che insieme all’altro si possa essere e ottenere tutto quello che non si è e quello che non si ha. Naturalmente, anche lì non dobbiamo perdere di vista la nozione di limite proprio malgrado il fatto che nel nostro rapporto con gli altri noi speriamo e abbiamo tendenza ad anelare alla completezza. Ebbene, la scoperta che si fa, nel momento in cui si entra in relazione con gli altri, è che questa completezza non si raggiunge nemmeno con gli altri. Noi siamo soprattutto caratterizzati da ciò che non siamo e da ciò che non abbiamo, è per questo che andiamo verso gli altri: per scoprire che nemmeno gli altri sono e hanno ciò che noi non siamo e ciò che noi non abbiamo. Tant’è vero che a me piace spesso ricordare quella frase di Jacques Lacan quando dice che amare significa dare ciò che non si ha a chi non lo vuole, che è un modo molto bello per spiegare l’imperfezione e il limite intrinseco anche alle relazioni d’amore più profonde.

Nel suo libro Avere fiducia. Perché è necessario credere negli altri, lei costruisce una vera e propria etica della fiducia verso gli altri, che è una scommessa al giorno d’oggi. Lei qui scrive: <La fiducia è legata alla natura stessa dell’esistenza umana, al fatto che non siamo mai completamente indipendenti dagli altri e autosufficienti>. La fiducia ci obbliga a un passo nell’ignoto, ma allo stesso fa parte della nostra stessa condizione umana. Continua <L’incertezza del legame con l’altro che, a dispetto di tutto, rimane fragile; la certezza delle risorse interiori che possono permettermi di sopravvivere anche se l’altro mi tradisce. La scommessa della fiducia è la scommessa dell’uomo>. Tutto questo rimanda alla fragilità al tempo stesso alla ricchezza della condizione umana. Quindi è possibile riconoscere in questo una nuova e più completa intuizione della Verità? Cioè, secondo lei siamo pronti a guardare a questa Verità che è indipendente e interdipendente, interna e connessa al mondo? E siamo pronti a guardare alla verità degli altri senza temere di perdere i nostri confini e le nostre verità e quindi senza temere di cadere in confusione? È possibile tendere a non confondere più questioni di potere e fonte di amore?

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studio di Rafael Araujo

Anche questa bella domanda, nel senso che non so se siamo pronti, anzi forse no. Ma il problema è che dovremmo cercare di ripartire da lì se vogliamo “riparare il mondo”, questa non è un’espressione mia, ma viene da Joan Tronto, che è una filosofa americana autrice di Ethics of care, “Etica della cura”, dove si spiega che se noi vogliamo ricostruire il vivere insieme dobbiamo cercare di riparare il mondo e riparare il mondo significa riparare le relazioni. Se però vogliamo riparare le relazioni, dobbiamo ripartire appunto dalla fiducia, dove la fiducia che si dà agli altri è per definizione una scommessa nel senso che non sappiamo mai che cosa l’altro farà di questa fiducia, se l’altro sarà capace di onorarla, oppure se l’altra persona tradirà la fiducia che noi gli stiamo dando. Nel momento in cui decidiamo e scegliamo di fare questa scommessa di fiducia nei confronti degli altri, ci mettiamo automaticamente in una situazione di dipendenza perché dipendiamo dalla loro risposta alla nostra apertura. Al tempo stesso, se si dovesse smettere di scommettere sugli altri, sulla relazione, nonostante l’intrinseca dipendenza che la relazione scatena, probabilmente il mondo invece di ripararlo lo si frantumerebbe definitivamente. Ecco perché, secondo me, si tratta della sfida del futuro, perché è da lì che dobbiamo ripartire, calcolando che non è mai facile fare i conti con questa dipendenza tanto più che è un dipendenza che non è mai totale, c’è una differenza: io nel momento in cui do fiducia a una persona dipendo dalla sua capacità di rispettarla ma questa dipendenza non è mai una dipendenza totale e assoluta proprio perché indipendentemente dalla risposta altrui il mio valore resta e, quindi, resta quel famoso concetto che i filosofi conoscono bene, resta quell’autonomia che fa sì che io non mi sbriciolo nel momento in cui l’altro dovesse tradire la mia fiducia. Quindi se noi vogliamo riparare il mondo e riparare le relazioni, dobbiamo ripartire da questo rapporto tra autonomia e dipendenza, sapendo che l’autonomia non è contraddittoria rispetto alla dipendenza e viceversa.


Avevamo già scritto di Michela Marzano qui: La bellezza tagliente dell’Essere

Abbiamo consultato e fatto riferimento in particolar modo a:

Michela Marzano, Estensione del dominio della manipolazione: dall’azienda alla vita privata, Milano, Mondadori, 2009.
Id., La filosofia del corpo (traduzione di Sergio Crapiz.), Genova, Il melangolo, 2010.
Id., Avere fiducia: perché è necessario credere negli altri, Milano, Mondadori, 2012.
Id., Cosa fare delle nostre ferite? La fiducia e l’accettazione dell’altro, Trento, Erickson, 2012.
Id., Papà, mamma e gender, Novara, Utet, 2015.