Creature di sabbia

La Creatura di sabbia* di Tahar Ben Jelloun è Mohamed Ahmed, ottava sorella, indesiderata perché femmina: il padre che voleva avere un unico erede per il suo patrimonio, la costringe a crescere come un maschio. Ahmed rinnega il suo sesso, si fascia i seni e si comporta da uomo. È la vicenda della metamorfosi e del recupero della propria identità, attraverso il superamento dell’isolamento e della solitudine, prima voluta poi rifiutata. Ahmed è di sabbia, i suoi granelli si perdono e rimescolano un po’ ogni giorno, è friabile e denso come le dune del deserto.enfantdesable

Nodo centrale del romanzo è la condizione della donna, affrontata da Ben Jelloun senza remore o filtri, nella sua crudezza e nella sua carnalità. L’autore rappresenta la figura della donna islamica attraverso quel realismo magico che è tipico della letteratura post-coloniale[1]. Ben Jelloun parte dal particolare per ampliare all’infinito verso l’universale: Ahmed, eroe-eroina epico e drammatico, non è solo se stesso, ma anche il migrante, l’essere umano in generale. È entità sospesa tra un sesso e l’altro, come il migrante tra un mondo all’altro.

La struttura narrativa e stilistica del romanzo supporta e costituisce essa stessa il messaggio: forma e contenuto sono poliedrici, ramificati, complessi. Significato e significante si intersecano in onde multiformi, in cui tutto si sovrappone e contrappone. Stupisce come la multiformità di soggetti, voci narranti e tematiche, sia orchestrata all’interno di un congegno perfetto, che non risulta mai dispersivo o confusionario. Il lettore si lascia trasportare ma non sopraffare dall’intreccio, gustando l’alternanza di sublime e violento, particolare e universale, in un magma mai disordinato.

Quel volto era reso più lungo da alcune rughe verticali, profonde come cicatrici, scavate da insonnie ostinate e abituali, un volto mal rasato, lavorato dal tempo. La vita- ma quale vita? una apparenza strana di memorie distrutte- doveva averlo malmenato, contrariato, o forse anche turbato profondamente.

È questo il lapidario incipit di Creatura di sabbia, che riassume di per sé gran parte dell’essenza del romanzo. Il protagonista, Mohamed Ahmed, è un volto. Una maschera evanescente, una pietra su cui il fluire dell’esistenza ha scavato solchi di sofferenza ed espiazione. Mohamed Ahmed è personaggio e persona, se stesso e l’Altro, ologramma dell’umano. In lui convergono e si mescolano particolare e universale. La sua non è vita, ma apparenza strana di memorie distrutte. La dovizia di tematiche affrontante (talvolta sospirate, talaltra marcate con decisione) in questo romanzo di poco più di centocinquanta pagine è sorprendente.

Il linguaggio e le strutture narrative non sono semplici mezzi di trasmissione di tali tematiche, ma ne sono essi stessi parte. Il magma concettuale e narrativo si snoda attraverso repentini cambi della voce narrante, in un continuo fluire di punti di vista.

Mi azzardo, quindi, a definire Creatura di sabbia un romanzo liquido, in cui magico e reale confluiscono in onde cicliche ed armoniche e la critica sociale e l’autoanalisi si amalgamano all’esoterismo e alle polveri orientali.

La condizione della donna marocchina.  A Tahar Ben Jelloun va il merito di aver sfumato i contorni, uscendo dalla rigidità manichea dello schema positivo-negativo in cui l’Occidentale è cattivo e l’Orientale è buono[2]. Jelloun sceglie di svelare la società islamica, affrontando uno dei tabù di quella stessa società: la condizione della donna.

Sono stato molto malato da bambino, sempre a letto dai quattro ai sette anni: ero circondato solo da donne che mi raccontavano storie meravigliose. Io osservavo la loro esistenza così piccola, servile, il loro universo domestico consunto e misero. Non mi è piaciuto fin da allora: ne ho provato pietà e rabbia, la certezza di una ingiustizia supinamente accettata. Ad amare e a rispettare le donne mi ha insegnato mia madre, senza la quale non sarei mai diventato uno scrittore. Ho una moglie che, per fortuna, in casa non sa fare niente, mentre io sono un cuoco eccellente mi occupo della cucina per tutta la famiglia.

Creatura di sabbia è la storia di una famiglia dannata: una madre, un padre e ben sette figlie femmine. Il padre si reputa vittima di una maledizione: alle femmine, infatti, spetta solo metà dell’eredità, a differenza dei maschi che la ricevono per intero.

Prima dell’Islam, i padri arabi gettavano i neonati di sesso femminile in una buca e li ricoprivano di terra per farli morire. Avevano ragione: si sbarazzavano di una sventura [3].

Deriso dai fratelli, frustrato e umiliato dalla sua condizione, egli decide di intervenire anche con la forza se necessario. La moglie è infatti gravida dell’ottavo figlio[4], ed egli è pronto a scavalcare quel destino che fin ora lo ha beffeggiato: qualunque sia il sesso del nascituro, quest’ultimo crescerà come un maschio. Pianifica nei minimi dettagli la messinscena. Nasce una bambina, che si chiamerà Ahmed e verrà allevata come un uomo. La scena grottesca della circoncisione rende bene l’idea dell’ossessione che ammala il padre e dell’inganno che egli perpetra a tutti i costi:

Il padre pensava al problema della circoncisione. Come procedere? Come tagliare il prepuzio immaginario?  Come non festeggiare fastosamente il passaggio all’età d’uomo di questo ragazzo? […] Figuratevi che ha presentato al barbiere-circoncisore suo figlio con le gambe allargate e qualche cosa è stata effettivamente tagliata […] Il ragazzo ha persino pianto e fu colmato di doni da tutta la famiglia. Furono pochissimi a notare che il padre aveva un cerotto intorno all’indice della mano destra.

Ahmed conosce la sua natura, ma la rifiuta. Osservando le sorelle, infatti, constata la loro posizione subalterna, la loro esistenza limitata:

Né tu né io siamo stupidi. Il mio stato, non soltanto lo accetto e lo vivo, ma mi piace. Mi interessa. Mi permette di avere privilegi che non avrei mai potuto conoscere. Mi apre delle porte e questo mi piace molto, anche se poi mi chiude in una gabbia di vetro. Nel sonno mi capita di sentirmi soffocare. Mi annego nella mia stessa saliva. Mi aggrappo alla terra che si muove. E così mi avvicino al nulla. Ma quando mi risveglio sono, malgrado tutto, contento di essere quello che sono. Ho letto tutti i libri d’anatomia, di biologia, di psicologia e persino d’astrologia. Ho letto molto e ho optato per la contentezza. Della sofferenza, dell’infelicità dovuta alla solitudine, me ne sbarazzo in un grande quaderno. Optando per la vita, ho accettato l’avventura. E vorrei andare fino in fondo in questa storia. Sono un uomo.

Non potrebbe essere altrimenti in una società in cui: Essere donna è una menomazione naturale della quale tutti si fanno una ragione. Essere uomo è un’illusione e una violenza che giustificano e privilegiano qualsiasi cosa.  La misoginia di Ahmed è il frutto di un contesto sociale, un sentimento-fantoccio, figlio di un contesto sociale in cui

Nascere ragazze è una calamità, una brutta cosa che si molla lì senza pensarci troppo sul cammino che percorre la morte sul finire del giorno.

La descrizione intima del bagno turco femminile rivela un altro punto di vista rispetto a quello ufficiale, sotterraneo. Lì le donne sono libere, uguali, emancipate.

L’hammam è un luogo sacro, fatto di parole rare pronunciate a voce bassa. È impossibile per il lettore non lasciarsi affascinare da quei vapori e da quei sussurri, che rivelano un aspetto erotico, evanescente e misterioso della figura femminile.

Ahmed è una donna martoriata fisicamente e psicologicamente, in cui il desiderio di riappropriarsi della propria natura affiora piano piano, fino a diventare necessità.

Mia madre faceva a pezzi le lenzuola consunte a riponeva quei pezzi in un angolo di armadio. Le mie sorelle se ne servivano silenziosamente. Guardavo tutto con attenzione e aspettavo il giorno in cui anche io avrei aperto clandestinamente l’armadio e avrei messo due o tre strati di tessuto tra le gambe.

La scena segna il passaggio di Ahmed alla consapevolezza. È in questo momento, quello della pubertà, che si caratterizzano i tratti sessuali più esteriori.

Da quel momento l’Io del protagonista è sottoposto ad una doppia dissociazione culturale, quella virtuale dell’apparenza dello statuto di maschio, conseguenza dell’educazione e della vita pubblica, e quella reale, fisiologica[5].

Il rito di passaggio naturale del ciclo mestruale è per Ahmed la comprensione del fatto che La sua vita si impegna nel mantenimento delle apparenze. Non è più una volontà di suo padre. Sta diventando la sua stessa volontà.

Il passaggio successivo per una completa appropriazione del suo status maschile, il coronamento perfetto per la messinscena è la richiesta da parte di Ahmed di una moglie: sua cugina malata Fatima. Alla morte di quest’ultima e di suo padre, Ahmed si chiude in una solitudine straniante e straniata, voluta, scelta, amata, per dissolversi e sparire. È in questo momento di ripiegamento che riscopre se stesso.

Mi nascondo, ma da qualche tempo mi sento liberato, sì, disponibile per essere una donna. Ma mi si dice, cioè io mi dico, che prima bisogna risalire l’infanzia, essere bambina, adolescente, ragazza, innamorata, donna…

Il percorso è dunque quello di riappropriazione carnale, erotica e sociale della propria natura.

Eppure, nei miei sogni, non vedo altro che labbra carnose passare su tutto il mio corpo e indugiare a lungo sul mio basso ventre…È una cosa che dà un tale piacere che mi risveglio…e scopro la mia mano posata sul sesso…Lasciamo perdere…Cosa dice la mia coscienza? Apri una finestra e guarda in faccia il sole…

Il riferimento è al mito dell’androgino, anche se in questo caso Ahmed non è bisessuato, bensì afflitto da un atroce complesso di castrazione.

Ahmed e il migrante. È interessante notare come, quella che in apparenza sembra una vicenda intima e individuale, porti con sé un messaggio impegnato socialmente

La vita di Ahmed è anche la vita del migrante, che si trova a fare i conti con un dualismo allo stesso tempo marcato e sfumato. L’ossimoro si traduce all’interno dell’opera come martirio, espiazione, percorso faticato verso un’ultima, definitiva epifania dell’essenza umana. La denuncia sociale si metafora attraverso echi nascosti, rimandi quasi inconsci. Il migrante del Terzo Mondo che approda in Europa dopo la seconda guerra mondiale si trova a dover dare una nuova definizione di se stesso, con un approccio immaginativo al mondo[6]. Il migrante sospetta la realtà: avendo sperimentato diversi modi di essere, ne comprende la natura illusoria[7].

Non è forse questa la stessa condizione di Ahmed? Di quella donna senza seno, ma con la voce profonda e la barba? Ahmed si trova un’esistenza spezzata tra le mani, in cui apparenza e realtà sono facce di una stessa medaglia, non in contrapposizione, ma fuse. La tragicità epica del suo personaggio sta in quel passaggio da un sesso a l’altro, come tra una cultura e l’altra per il migrante.

Se per Leed la storia umana è una storia di differenziazione[8], allora la storia di Ahmed non è solo quella di una ragazza costretta nell’apparenza di un maschio, ma anche quella del migrante e più in generale dell’uomo. La condizione di sospensione tra i due sessi è metafora della sospensione tra i due mondi.

Lei sa bene che la mia patria non è un paese, né tantomeno una famiglia. È uno sguardo, un viso, un incontro, una lunga notte di silenzio e di tenerezza.

L’identità di Ahmed, come quella del migrante, hanno subito una violazione. La prima imposta dal padre, l’altra dovuta al trauma dello sradicamento dalla terra natale. Ahmed non è uomo e non è donna. Il migrante non è orientale né occidentale, ma trova se stesso in una commistione di passato e presente. Non si tratta di semplice giustapposizione di maschile e femminile o vecchio e nuovo, ma di una sintesi complessa, che dà vita ad un frutto diverso.

Ho capito che il ritorno a se stessi avrebbe preso del tempo, che bisognava rieducare le emozioni e ripudiare le abitudini. Il mio ritiro non è stato sufficiente; è per questo che ho deciso di mettere alla prova il mio corpo nell’avventura, sulle strade, in altre città, in altri posti.

In altre parole, partendo dal presupposto che l’esistenza sia dialogo e non monologo, l’identità di Ahmed, come quella del migrante e più in generale dell’uomo, è data dal confronto e dalla fusione con l’Altro, non dalla sua esclusione. Noi siamo dei nomadi, la nostra vita ha qualche cosa di esaltante ma è anche piena di difficoltà. Tutto è falso qui.

Linguaggio e struttura narrativa. Come già detto, la forma narrativa e il linguaggio non sono semplicemente forieri del contenuto e del messaggio del romanzo, ma ne fanno essi stessi parte. Dice bene Zoppi quando afferma che:

Il registro preferito da Tahar Ben Jelloun è un’alchimia lirica che ottiene la maggiore risonanza nel momento in cui annulla la frontiera tra reale e irreale[9].

La scelta lessicale oscilla tra i toni magici e quelli della descrizione cruda, carnale dei personaggi. La metafora e l’allegoria soffice si alternano alla parola scagliata e violenta, armonizzandosi. Il tessuto narrativo risulta quindi intriso di soluzioni immaginifiche, ma non sommerso.

Ben Jelloun è padrone dei suoi mezzi e non teme il rischio della commistione, ma la esalta portandola al compimento su ogni livello. L’eclettismo stilistico e la manomissione del testo sono caratteristiche di tutta la letteratura magrebina[26]. Ben Jelloun, nato a Fes (Marocco) nel 1944, vive a Parigi dal 1971. È un immigrato colto e scrive le sue opere in francese e asserisce:

Non ho mai scritto in altra lingua che in francese perché è la sola che conosco veramente bene. A scuola, a Fes, era la lingua ufficiale; solo in casa si parlava arabo e io non sono in grado di scrivere quelli che per me sono ormai solo suoni dell’infanzia familiare[10].

Non è solo il registro a farsi misto, ma anche le voci narranti. Esse si alternano in quello che Volterrani definisce:

Testo-canto frammentario, costituito di monologhi spesso epistolari, sull’organizzazione rituale di un testo-gioco, costruito con un uso un po’ compiaciuto di prolessi e analessi e con una proliferazione di racconti nel racconto[11].

Non sono solo le voci, quindi, ma anche le forme narrative ad alternarsi ed equilibrarsi. Nel romanzo, infatti, sono presenti la forma epistolare e quella del diario, anche se in parte minore rispetto alla forma preponderante che è quella della narrazione in terza persona con narratore onnisciente. Anche il passaggio dalla prima alla terza persona o da una voce narrante all’altra è frequente. Basti pensare alla differenza evidente tra il racconto di Salem (capitolo XIV) violento e crudo, e quello del trovatore cieco (capitolo XVII), che in certi punti mima il racconto di un incontro con Borges.

Questo fluire e confondersi di toni e punti di vista trova la sua massima espressione nella parte finale del romanzo, in cui il protagonista della storia e il narratore si fondono e confondono spesso, alternandosi come cori di una stessa sinfonia. Alla base della composizione di Tahar Ben Jelloun sta un discrimine: il rapporto con l’oralità. Il primo a porre il problema del ruolo dell’oralità nella storia della produzione letteraria post-coloniale è Glissant, che identifica la presenza di produzioni orali nelle colonie antecedenti all’arrivo del bianco[12]. La ricerca dell’origine, di quella radice sradicata dal colonizzatore occidentale, porta molti scrittori post-coloniali, soprattutto autori del genere fiabesco, a riappropriarsi di quell’oralità perduta[13].

Creatura di sabbia è un libro fatto così: una casa dove ogni finestra è un quartiere, ogni porta una città, ogni pagina è una strada; è una casa di pura apparenza, una scenografia dove si fa la luna con un telone blu teso tra due finestre e una lampadina accesa [14].

L’attenzione del lettore è continuamente stimolata da formule colloquiali[15]. Le voci e le storie si intrecciano in direzioni plurime e ramificate, fino a disegnare un mosaico complessissimo.

A chiudere la storia sarà il primo narratore, il quale non potrà che prendere atto della scomparsa delle parole dal libro di Ahmed.

Le storie prolificano e si generano da loro stesse come matriosche, in un’orchestrazione affascinante e però resa credibile dalla presenza di documenti tangibili, quali il diario di Ahmed e l’abbozzo di un carteggio tra quest’ultimo e una figura misteriosa. Tale diario sarebbe stato consegnato da Ahmed direttamente a un cantastorie, l’unico interprete autorizzato del testo, il quale non risparmia di narrare il contenuto, talvolta rifacendosi a stilemi tradizionali, talaltra ricorrendo alle strutture dell’oralità.  Il diario, però, risulta essere un falso, e in quanto tale il luogo della scrittura, della finzione.

La struttura del romanzo è circolare e aperta. Il libro diviene un’area in cui spaziare, perdersi, curiosare tra le scatole cinesi. Tant’è che alla morte del narratore, gli si sostituiscono gli uditori e inevitabilmente i finali risultano essere diversi tra loro, non tanto nell’esito (si concludono sempre con la morte di Ahmed), quanto nelle modalità di formulazione, nei toni, nelle trame.

In ultima istanza uno degli uditori, Fatouma, rivela di essere essa stessa Ahmed: in questo modo il narratore finisce per includere il protagonista. Giovanardi a ragione sostiene che:

Creatura di sabbia, in definitiva, è una sorta di catalogo delle varie forme di agonia concesse oggi all’istituzione letteraria; ma è precisamente in virtù di quel catalogo che la letteratura sembra poter rinascere, ricca e trionfante, dalle proprie ceneri[16].

Il raffronto di Creatura di sabbia con Le Mille e una notte pare a questo punto quasi scontato: l’inganno, il falso, il doppio, l’ermafrodito, il mistero, il cupio dissolvi del protagonista, così come la sua fuga e il rifugio nel baraccone da circo. Tutti questi elementi sembrano attingere al panorama favolistico. Eppure Ben Jelloun afferma di non aver mai letto Le Mille e una notte.

È nel caleidoscopio di narratori, trame, riflessioni, magia e meraviglia, folklore e crudezza, che si cela l’inaccessibilità dell’Islam, il mistero della cultura magrebina, ma anche la natura illusoria della verità. Negli arabeschi strutturali e nelle decorazioni picaresche dell’intreccio si costituisce quel concetto di doppio che sta alla base di tutto il romanzo.

Doppio è Ahmed perché uomo e donna, doppio è l’essere umano, che trova nell’Altro da sé la propria definizione, doppia è la verità che si interpreta, si aggroviglia, ora perversa, ora distante.

Concetto-chiave del romanzo è, dunque, l’apparenza. La verità è illusoria, il mondo doppio. Tutto è in continuo mutamento e le prospettive si affollano in un magma complesso e relativo. Non c’è una morale o un insegnamento. Il romanzo è un percorso di scarnificazione, liberazione da se stessi per se stessi. Il nodo tragico è proprio questo: l’esigenza di allontanarsi da sé per ritrovarsi. Ahmed è una fenice che rinasce dalle proprie ceneri, un essere che ha bisogno di bruciare per rifiorire.

Quello di Ahmed è un martirio. Lo stesso martirio del migrante che, come lui, si ritrova sospeso tra due mondi. Il concetto di sospensione e immobilità è reiterato in tutto il romanzo, e riprodotto anche stilisticamente attraverso riflessioni del protagonista, affidate alla corrispondenza con un anonimo o al proprio diario. La sospensione si contrappesa al movimento famelico di ricerca, corsa verso l’origine, ardore di conoscenza. Ahmed vuole ritrovarsi, e per questo deve iniziare a rincorrersi, uscendo dall’isolamento forzato per riscoprirsi attraverso il rapporto con l’Altro.

In questo senso riflessione e movimento diventano due facce della stessa medaglia, così come il sé e l’Altro, il maschile e il femminile, il bene e il male. In un’esistenza che è gioco di specchi, in cui impera il relativo, i dogmi sembrano deformarsi e perdere di valore. Eppure Tahar Ben Jelloun, soprattutto tecnicamente, sembra attingere proprio alle origini, alla tradizione orale che sta alla base della sua cultura.

Descrive la ritualità dell’hammam con rispetto e fascino e si fa portavoce di una spiritualità altra e oltre. Una spiritualità atavica, interna all’umano in quanto tale, non al musulmano o al cristiano.

Il romanzo è, quindi, un ottimo spunto di riflessione non solo riguardo alla condizione della donna marocchina o alla religione musulmana, ma anche e soprattutto sul vasto spettro della fenomenologia umana, del suo divenire, della sua complessità. La vita è trompe l’oeil, gioco delle parti. Ognuno di noi inganna ed è ingannato.  Ognuno di noi è una creatura di sabbia, che sente il disperdersi della propria identità in granelli finissimi.

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[*] T. B. Jelloun, Creatura di sabbia, (1985),trad. it. di E. Volterrani, Einaudi, Torino, 1992.

[1] Per approfondire questo argomento, si faccia riferimento a Silvia Albertazzi, Lo sguardo dell’Altro, Carocci, Roma, 2000, pp. 77-103.

[2] Sergio Zoppi, La casa della scrittura, in T.B. Jelloun, Creatura di sabbia, cit. p. 164.

[3] Natalia Aspesi, Donna-uomo è bello, ‹‹la Repubblica››, 21-I-1988, in T.B. Jelloun, Creatura di sabbia, cit. p. 175.

[4] Nata per ottava, […] Ahmed reca come destino quello dell’‹‹ottava nascita››, che è poi la morte, nella complicata simbologia della mistica musulmana. S. Giovanardi, L’ottava nascita,  ‹‹la Repubblica››, 21-1-1988, in T.B. Jelloun, Creatura di sabbia, p. 177.

[5] S. Zoppi, La casa della scrittura, cit.,p. 165.

[6] S. Albertazzi, Lo sguardo dell’Altro, cit., pp. 127-135.

[7] Salman Rushdie, The location of “Brazil”, in Imaginary Homelands, (trad. it. Patrie immaginarie, Mondadori, Milano, 1992), Granta Books, Londra 1991, p. 125.

[8] Eric J. Leed, La mente del viaggiatore. Dall’Odissea al turismo globale, Il Mulino, Bologna, 1998p. 114.

[9] S. Zoppi, La casa della scrittura, cit., p. 163.

[10] Jacques Chevrier individua un ‹‹sentimento di corpo a corpo con il linguaggio…In certi casi, ed è particolarmente evidente negli scrittori del Magreb, questo corpo può spingersi fino alla volontà deliberata di distruggere il linguaggio con la pratica di un vero e proprio terrorismo…Con una sorta di effrazione sistematica, si tratterebbe in qualche maniera di sovvertire la lingua francese, di saccheggiarne il dizionario, impadronendosi così dell’immaginario dell’Altro››. Oltre a Tahar Ben Jelloun, altri scrittori magrebini in lingua francese con le stesse caratteristiche sono: Mostafà Nissaboury, Mohammed Khair-Eddine, Kateb Yacine. Per approfondire l’argomento, si veda S. Albertazzi, Lo sguardo dell’Altro, cit., pp. 77-121.

[11] N. Aspesi, “Donna-uomo è bello”, cit., p.174.

[12] Egi Volterrani, Nota del curatore, in T. B. Jelloun, Creatura di sabbia, cit., p. 170-1.

[13] S. Albertazzi, Lo sguardo dell’Altro, cit., pp. 55-60.

[14] Molti di questi romanzi si fingono raccontati oralmente. Ad esempio I figli della mezzanotte di Salman Rushdie e lo stesso Creatura di sabbia di Tahar Ben Jelloun.

[12] Ad esempio: ‹‹Amici miei e complici››, ‹‹Compagni miei››, ‹‹Amici del bene››ecc.

[16] S. Giovanardi, L’Ottava nascita, cit., p.179.

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