Da Firenze a Parigi. Un Erasmus per spiccare il volo

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Molti giovani universitari decidono di intraprendere periodi di studio all’estero e molti invece no. Sembra che ci siano delle vere e proprie sliding doors tra queste due scelte stando alle testimonianze di chi dal nostro paese ha deciso di allontanarsi per maggiore o minor tempo; complice il mercato del lavoro nostrano, la nauseante bonaccia politica e la curiosità, chi si allontana dall’Italia sembra stranamente sempre più allegro, quasi euforico. Una di queste è Giulia, partita per un Erasmus a Parigi ha deciso di tornare alla triennale di Firenze solo per discutervi la tesi e firmare le carte per iscriversi alla Sorbonne. Laureata con lode in Storia dell’Arte, ha trovato nella capitale francese il proprio Shangri-La, un ambiente che fino ad allora pareva solo immaginario.

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Dunque perché, nonostante un bel percorso universitario all’Università di Firenze, hai scelto di intraprendere l’Erasmus a Parigi?
I motivi sono molteplici, prima di tutto perché l’Università di Firenze dalla quale provengo è un vero disastro sotto tutti i punti di vista, sia a livello amministrativo che per quanto riguarda l’atteggiamento dei docenti.
Mediamente i professori, per quanto preparati, purtroppo non hanno come loro obiettivo primario la formazione studentesca quanto piuttosto il loro lavoro di ricerca e di pubblicazione cosa che li porta generalmente a un atteggiamento scostante e poco contributivo.
Questo può sembrare scontato a chi in molti atenei italiani ha già fatto il callo a questo comportamento e certo Firenze non faceva eccezione, alla Sorbonne invece non ho ancora incontrato qualcuno che rivestisse il ruolo dello sbuffatore dal poco tempo. I professori infatti si suddividono in categorie: quelli che si occupano del sostegno prettamente accademico, quelli che portano spunti di ricerca ulteriori e quelli che si occupano dell’inserimento nel mondo del lavoro; un organizzazione che ha come vantaggio maggiore quello psicologico, una sorta di sensazione di sicurezza e di non sentirsi comunque mai abbandonata.
A questo si aggiunge la voglia di scoprire un approccio didattico differente in un università dove avrei sicuramente trovato un livello di servizio di eccellenza e il fatto di aver passato un ultimo dell’anno a Parigi che è stato un vero e proprio colpo di fulmine con la città che ormai considero non una seconda quanto una prima casa.

Quali sono, dunque, le differenze in ambito accademico tra due scuole di pensiero così vicine eppure distanti come quella francese e quella italiana?
I metodi d’insegnamento e d’esame sono molto diversi: in Francia si privilegia un atteggiamento attivo con continue presentazioni di elaborati ed esposizioni alla classe dei risultati raggiunti evitando la formula lezione-esposizione enciclopedica, ma soprattutto cercando di stimolare al massimo la capacità critica, un fattore vantaggioso non soltanto a livello accademico.
L’approccio è molto più individuale: senza nessun tipo di pressione i professori ti mettono davanti a delle prove “pratiche” che testano veramente le competenze che hai acquisito mettendoti in condizione di superare i tuoi limiti e le tue paure. Proprio oggi ad esempio mi hanno chiesto di partecipare il prossimo anno ad una conferenza sul collezionismo nella quale dovrei presentare il mio progetto alla comunità scientifica internazionale.

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Una bella prova…
Certamente, ma anche un’opportunità che i miei insegnanti non mi faranno affrontare senza un adeguato supporto e una preparazione definita assieme. È soprattutto questa tutela e questa apertura d’esprit che caratterizza la Francia, il suo essere nel mondo ti libera a poco a poco dal senso di isolamento prettamente italiano permettendoti di guardare tutto sotto un altro punto di vista e dandoti prima di ogni sfida i mezzi per realizzare un risultato che non avresti mai immaginato; in poche parole tutto il mondo diventa improvvisamente accessibile.
Ecco, direi che l’approccio che mostrano verso le questioni sia accademiche che esterne al mondo universitario trasmettono una visione del mondo che definirei antitetica rispetto a quella italiana volta a formare delle menti critiche e capaci e non dei bravi, docili e servizievoli pappagallini.
C’è da dire con questo che il metodo italiano non è totalmente da criticare, è decisamente più duro e impegnativo rispetto a quello francese, basandosi molto su una ferrea disciplina mnemonica e la costruzione di un proprio metodo di studio; nel mio caso lo studio triennale fiorentino è stato un po’ come farsi le ossa, una vera e propria gavetta che mi ha permesso in Francia di sbrigare con relativa semplicità i miei impegni riuscendo facilmente ad eccellere anche nelle grandi stanze della Sorbonne.
Il merito va riconosciuto anche alla maggiore ricchezza del nostro retroterra culturale, come inventori della storia dell’arte infatti gli italiani si trovano senza dubbio in vantaggio su buona parte degli argomenti trattati; essendomi ben preparata durante i miei anni fiorentini ho accumulato una conoscenza che mi torna molto comoda sia per quanto riguarda il lessico specifico che la dimestichezza con i grandi nomi del mondo dell’arte: Michelangelo, Simone Martini, Giotto… tutti “paisà” le cui opere possono essere contemplate con solo poche ore di macchina.
Un ulteriore vantaggio mi pare di averlo riscontrato in uno dei tratti che più ci caratterizza come stereotipo nel mondo: la furbizia. Sembra sciocco e scontato eppure la “nostra” attitudine a cercare sempre una scappatoia da una situazione svantaggiosa sembra completamente sconosciuta oltralpe e non solo e alla fine paga e viene molto apprezzata; certo anche la tenacia, l’impegno e la chiarezza dell’obiettivo sono fondamentali ma queste qualità non sono a noi così peculiari.

E a Firenze grazie a questi talenti non eri riuscita comunque a trovare qualche spunto interessante sia a livello accademico che post-universitario?
Il problema è proprio questo, in Italia si ha come la sensazione di studiare senza poi la prospettiva di arrivare a niente pur impegnandosi al massimo, in Francia invece ho trovato la possibilità di mettermi alla prova in ambiti diversi. A Firenze, seguendo il mio cursus studiorum, avrei cercato comunque degli stage in musei come ad esempio quello degli Uffizi ma, conoscendone il direttore e avendo raccolto le esperienze di chi vi ha già intrapreso un percorso di tirocinio, so che non mi avrebbe portato certamente tutto ciò che invece comporta uno stage come quello che ho ottenuto al Louvre. Questo sicuramente perché il Louvre è un istituto di ricerca attivo mentre in Italia non ci sono centri di ricerca veri e propri e in secondo luogo per l’atteggiamento che è prassi in certi ambienti di lavoro nel nostro paese, dove le conoscenze personali troppo spesso estinguono buona parte dell’impegno speso.

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E come sei riuscita ad ottenere uno stage in un istituzione così prestigiosa? 
È stata semplicemente la naturale conseguenza di un normale rapporto di collaborazione con la mia professoressa.
Lei è una di quelle che si occupa delle relazioni extra accademiche, ha lavorato in tutto il mondo, conosce sei lingue e collabora costantemente con musei come il Prado e il mercato artistico mondiale; rivolgendomi a lei per trovare uno stage mi ha messo in contatto con il Louvre e da lì è iniziato il tirocinio concentrato in particolare sull’ala di arte spagnola del museo. All’inizio non pensavo che sarei riuscita a sostenere il carico di lavoro ma poco a poco, grazie anche all’aiuto dei miei timidi “superiori”, sono riuscita a cavarmela.

Per quanto riguarda il pagamento, anche in Francia lo stage è a titolo gratuito?
Ovviamente, solo per i primi due mesi però, poi deve essere obbligatoriamente retribuito. Ad ogni modo i costi per la propria formazione accademica in Francia sono molto più bassi se oltretutto vengono confrontati con i servizi erogati. La retta alla Sorbonne è di soli 300 euro l’anno comprendente biblioteche, stampe di documenti, servizi sportivi, viaggi di studio in paesi stranieri completamente rimborsati e la totale impossibilità di comprare libri per la preparazione degli esami dato che qualunque testo è presente nelle biblioteche universitarie.
rue_des_ecolesPer quanto riguarda le spese giornaliere, anche se soprattutto nel centro di Parigi la vita è molto costosa, con un po’ di attenzione è possibile riuscire a contenere le spese. Certo il mercato immobiliare è molto esigente dato che l’appartamento di uno studente è mediamente molto striminzito se confrontato al prezzo, ma il servizio CAF rimborsa comunque una parte dell’affitto agli stranieri che studiano a Parigi; senza contare le borse di studio e i dottorati retribuiti. In più Parigi ha il vantaggio di offrire svariate possibilità culturali e d’intrattenimento a prezzi molto risicati, teatri, gallerie d’arte e musei soprattutto; una serata all’Opera ad esempio può costare meno di dieci euro se si è studenti sotto i venticinque anni.
Questo credo sia dovuto soprattutto all’attenzione quasi morbosa dei francesi per tutto ciò che ruota attorno alla cultura e che permette costantemente di respirare un clima diverso anche se si proviene da un percorso di studi umanistici, con in più i vantaggi di un sistema organizzativo molto più snello e funzionante laddove, in Italia, anche quelle idee che potrebbero risultare intelligenti e utili non possono comunque venir attuate a causa delle pastoie burocratiche che strangolano qualunque genere di iniziativa volta al cambiamento.

È proprio questa mancanza di fiducia che percepisce chi proviene da facoltà umanistiche a tarpare le ali a molti studenti nel nostro paese, in che modo in Francia l’approccio sarebbe diverso?
Semplicemente nella valorizzazione di questi studi che, anziché essere considerati l’anticamera della disoccupazione, offrono possibilità lavorative molto variegate. Per citare solo un esempio, un mio amico che ha studiato per cinque anni storia dell’arte adesso aiuta ad organizzare la mostra del cinema di Cannes.
imprimerie_sorbonneIn Italia, invece, l’unico sbocco più sicuro per chi studia materie artistico/letterarie è l’insegnamento, e anche lì i concorsi non sono né numerosi né organizzati come in Francia dove assumono professori a tamburo battente senza aspettare che sia la morte a prendersi carico delle rotazioni dei docenti, con in più la possibilità di arrivare a posizioni accademiche elevate in giovane età, senza accosti plateali e con un ottimo ritorno economico. Questo grazie anche alla minor durata degli studi liceali che terminano a diciotto anni e possono essere ulteriormente abbreviati in caso di meriti particolari.

Proprio in ottica lavorativa, ritieni importante la conoscenza di più di una lingua, oltre l’inglese, per ottenere vantaggi curriculari?
Assolutamente! All’estero una buona flessibilità linguistica è sicuramente la prima cosa che viene richiesta, sapendo varie lingue dimostri di aver avuto un percorso di formazione differente che, soprattutto con la facilità ad ottenere adesso una laurea, è un importante valore aggiunto. Oltre a questi vantaggi oggettivi ve ne sono di soggettivi da non sottovalutare: lo sforzo per imparare un altro idioma non ti aiuta soltanto a gestire meglio la tua lingua madre, ma anche a sviluppare un nuovo modo di parlare che è al contempo un nuovo modo di pensare.

Ritieni di essere diventata “francofila” dopo questo periodo passato a studiare oltralpe? Mi sembra di capire che sarà la Francia, e la Sorbonne, l’ambiente in cui vorrai rimanere una volta terminata anche la laurea magistrale…
Sì, per un periodo credo che resterò legata all’ambito accademico proprio per  intessere legami proficui con l’ambiente di ricerca che alla Sorbonne è assolutamente attivo e vitale grazie a personaggi che possono aprirti qualunque tipo di strada se vedono in te un buon “cavallo” su cui puntare. Per quanto riguarda la francofilia sì, l’ho acquisita poco a poco e con ragione!
Credo che l’Italia sia assolutamente indietro sia per quanto riguarda le possibilità e le opportunità che offre, sia per il pessimismo che trasuda da ogni sua istituzione. È triste considerare così il paese che ti ha visto crescere e che racchiude nascosti tesori vive_parisinestimabili ma la situazione che vi si è creata non è più sostenibile e personalmente sono un po’ dubbiosa riguardo alle possibilità che avrà di cambiare in futuro, la speranza rimane ma nel frattempo l’unica cosa che posso consigliare ai miei colleghi è di uscire dai confini, annusare per un po’ l’aria che tira e poi decidere, solo con uno sguardo esterno si può riuscire a considerare davvero la complessità di una situazione.

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