Dai collage all’Edipo Re: il primo Max Ernst

Se Max Ernst ci è noto soprattutto per L’Antipapa (1942), La foresta imbalsamata (1933), Gioia di vivere (1936/7), La vestizione della sposa (1939), L’Europa dopo il diluvio II (1940/42) o le sue sculture, come Un amico premuroso (1944), Capricorno (1948) o Il re che gioca con la regina (1944). La sua produzione artistica, tuttavia, comincia in modo totalmente diverso e risente molto dell’atmosfera agitata e prolifica che caratterizza i primi decenni del Novecento. L’aver studiato storia dell’arte all’Università di Bonn (assieme a filosofia, poesia, germanistica, romanistica,  psicologia, psichiatria e un po’ di altre cose) rende Max Ernst ben conscio del panorama in cui si sta per inserire e rafforza l’opposizione ironica ai canoni artistici con cui inizia la sua carriera.

Nel corso degli anni mantiene sempre i contatti con il resto degli artisti europei e l’anno 1919 è particolarmente produttivo, con una visita a Paul Klee a Monaco e la comparsa dei suoi primi lavori ufficiali: la conoscenza di Giorgio de Chirico e Carlo Carrà lo porta a reinterpretare la pittura metafisica con Aquis submersus (1919), dove integra agli elementi ufficiali la forte carica ironica che lo contraddistingue, mentre Gita di famiglia (1919) risente degli influssi di Chagall, passato al vaglio dell’esperienza bellica e dei suoi traumi − Ernst infatti prese parte alla Prima Guerra Mondiale.

Nello stesso anno, però, comincia a realizzare anche i primi lavori con cui si distaccherà definitivamente da questi “maestri” per dare una nuova forma alla propria vena critica. Di forme già pronte e fatte comincerà infatti a servirsi,  utilizzando sempre più spesso materiale estraneo all’arte − è bene dire che già durante la guerra Ernst aveva preso contatti con i Dadaisti di Zurigo e Berlino, non era quindi estraneo ai ready-made di Duchamp. Ecco quindi Frutto di una lunga esperienza, un rilievo dove sono inseriti parti di legno e fili di metallo verniciati:

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L’anno successivo realizza la signora ostessa al filatoio, angelo tutelare dei tedeschi, tua è l’industria anatomia paleontologia donaci piccole esultanze (sfortunatamente sono riuscita a reperirla online solo in bianco e nero), dove sono integrati alle parti pittoriche dei lavori a uncinetto. Il titolo omaggia allo stesso tempo una canzone studentesca e la mecenate Johanna “Mutter” Ey, permettendo però, per la prima volta apertamente, alle allusioni agli studi di psicanalisi, che tanto avevano già influenzato il dadaismo e il surrealismo, di fare ingresso anche nella sua arte.
Comincia la sua partecipazione a esposizioni organizzate sia in ambiti più tradizionali sia in saloni affittati assieme ad altri artisti e amici, ma l’accoglienza della critica e della stampa sono molto dure. Un’esposizione a Düsseldorf viene così commentata in un articolo: «Un certo Max Ernst […] come un bambino si gingilla a comporre, con rocchetti, fil di ferro, ovatta, arti di bambole, rotelle d’orologio e quant’altro si può reperire in un ripostiglio»¹ .

Sempre nel 1920 realizza il collage È il cappello che fa l’uomo (Lo stile è l’abito). Dopo parecchie settimane di momentanea direzione della fabbrica di cappelli del suocero, Ernst comincia a stagliuzzare un catalogo di modelli e  impila cappelli da uomo sulla sinistra o li fa indossare a strane forme tubolari nel resto del collage:

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Il cappello,  simbolo borghese per eccellenza,  era uno degli oggetti prediletti dai Dadaisti per i loro attacchi di scherno e insofferenza; allo stesso modo, Max Ernst, di famiglia piccolo-borghese, disprezzava l’idea, diffusa nella sua classe sociale, dell’arte figurativa come semplice hobby: la scomposizione, il ritaglio e la giustapposizione di elementi estranei all’arte che opera nei suoi collage hanno quindi il valore di una riscoperta e di una riappropriazione.
Sempre dai Dadaisti Ernst mutua l’uso della fotografia nei collage: non è difficile capire l’origine della figura nuda di una delle sue opere più famose, La pubertà imminente o Le Pleiadi (1921).

Ma è con il trasferimento a Parigi, su invito di Paul e Gala Eluard (sì, quella Gala), Tzara e Breton, che Ernst produce la prima opera destinata a indirizzarlo verso l’approvazione internazionale. Il formato è più che triplicato rispetto alle opere precedenti e, nonostante la tecnica dell’olio su tela, continua la giustapposizione tipica del collage: Oedipus Rex (1922) ha un’architettura appena accennata che accoglie oggetti dalle dimensioni completamente sfalsate nei loro rapporti. Le dita e la noce sono attraversate da pezzi meccanici, tubi, spuntoni e frecce², mentre in primo piano compaiono due teste di uccelli, una dotata di corna e trattenuta da un filo che piove dall’alto, forse per impedirle la fuga. Disobbedienza (la mano che afferra la noce) e curiosità (gli uccelli si sono sporti da un’apertura per vedere cosa ci sia all’esterno) sono immediatamente punite; vista e perforazione fanno  riferimento al mito edipico.

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Dai riferimenti al mondo borghese a lui contemporaneo, l’opera di Ernst, durante il soggiorno parigino, mira ai temi classici della mitologia, passati attraverso l’effetto straniante del collage − non più proposto come tecnica, ma come concetto: sarà questa scoperta metodologica a guidare la sua produzione artistica lungo gli anni.

¹Ulrich Bischoff, Max Ernst, trad. italiana a cura di Denise Schmid, L’Espresso 2001, p. 12
²Sempre Bischoff suggerisce, come richiamo, l’occhio all’inizio di Le chien andalou, film del 1929 di Luis Bunuel.

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