Della lingua, dell’uomo, dell’essere e del Paradiso

Ciò che qui vorrei proporre è un percorso di riflessione sul legame tra l’uomo, la parola, l’essere, stretti in un solido saldo. Mi appoggerò principalmente ad alcuni momenti del pensiero di Walter Benjamin e Martin Heidegger, con i quali, seppur in prospettive diverse, la speculazione filosofica in tal senso ha potuto toccare vette di potenza rivelatrice.

L’uomo parla. Noi parliamo nella veglia e nel sonno. Parliamo sempre, anche quando non proferiamo parola, ma ascoltiamo o leggiamo soltanto, perfino quando neppure ascoltiamo o leggiamo, ma ci dedichiamo a un lavoro o ci perdiamo nell’ozio. In un modo o nell’altro parliamo ininterrottamente. Parliamo, perché il parlare ci è connaturato. Il parlare non nasce da un particolare atto di volontà. Si dice che l’uomo è per natura parlante, e vale per acquisito che l’uomo, a differenza della pianta e dell’animale, è l’essere vivente capace di parola. Dicendo questo, non s’intende affermare soltanto che l’uomo possiede, accanto ad altre capacità, anche quella del parlare. S’intende dire che proprio il linguaggio fa dell’uomo quell’essere vivente che egli è in quanto uomo. L’uomo è uomo in quanto parla.

Quello che è possibile leggere lateralmente è il celebre incipit del saggio Il linguaggio di Martin Heidegger, del 1950. Il discorso, del quale conserverò la terminologia (nella traduzione di Caracciolo e Perotti), si inserisce nell’ampiezza dell’intera ricerca filosofica del tedesco, ma ciò che in questa sede mi interessa è rilevare come venga istituito un legame esistenziale tra l’essere uomo e l’essere parlante. E’ nel linguaggio, per Heidegger, che si apre la soglia al cammino dell’essere. Il nostro parlare è, nell’atto della denominazione, un chiamare le cose al mondo. È sempre essenzialmente deittico lo stare al mondo dell’uomo, è un costante indicare ciò che non c’è, affinché sia. E ciò che si indica, dunque, non è tanto la cosa in sé, non essendoci, appunto, quanto la distanza tra noi e la cosa. Da questa distanza, si vede così quella tra la cosa e il mondo, tra noi e il mondo, tra questi tre domini e una dimensione superna. La chiamata si rivolge all’intero quadrato dell’esistente. Il linguaggio fa emergere allora la distanza nell’unità, la dif-ferenza nell’intima vicinanza. Il linguaggio parla la quiete, il silenzio, il non-essere. E’ in quel territorio che l’essere può rivelarsi. È nella dif-ferenza tra il mondo e la cosa che l’essere si scorge, nella quiete dell’intimità che la chiamata crea tra mondo e cosa, pur non eliminandone la distanza e la separatezza. Ma, essendo la parola così connaturata all’uomo, ed essendo esso l’unico essere denominante, allora è l’uomo stesso a essere chiamato dal linguaggio: il quale, appunto, non muove da un atto di volontà, giacché è perfettamente già nell’uomo, già l’uomo. Egli semplicemente cor-risponde al parlare del linguaggio. E’ il linguaggio a parlare, a cum-vocare gli enti a compiere un percorso d’incontro.

In alcuni passi molto suggestivi, Martin Heidegger sceglie il crepuscolo come scenario di questo incontro: è nella negatività del tramonto che si dispiega la possibilità dell’alba. Il crepuscolo è la linea di passaggio continuo tra ciò che è stato e che, morendo, torna a essere. E’ nel momento del crepuscolo che la dif-ferenza si acquieta nella distanza minima tra i referenti, eppure la più essenziale, perché invalicabile. In quella sfumatura balugina l’essere. Del resto, il passaggio dal giorno alla notte è un elemento fondamentale del ritmo creativo di Dio, come esposto in Genesi 1. L’essere necessita della sera per potersi raccogliere in sé e, in questo esaurirsi, tornare a essere immediatamente creativo, la mattina.

Ora, il mio ragionamento percorrerà soprattutto il filo del discorso condotto da Walter Benjamin in un saggio giovanile del 1916-1917, Sulla lingua in generale e sulla lingua dell’uomo. Il lavoro è appunto giovanile e di certo di portata ridotta, eppure le testimonianze epistolari rivelano quanto questo saggio fosse ritenuto importante dall’autore. Dalla genesi travagliata, poiché sempre pensata in rapporto alla costruzione di una grande opera sistemica, progetto definitivamente abbandonato negli anni Trenta, Sulla lingua in generale e sulla lingua dell’uomo resta allora un’esperienza del tutto particolare nel percorso di Benjamin, che in questa opera, muovendo dall’esegesi di Genesi, arriva a strutturare una vertiginosa e certo suggestiva logo-ontologia, con le parole di Gianfranco Bonola. I presupposti filosofici di Benjamin e Heidegger sono estremamente distanti, eppure, a questa altezza, non è possibile non percepire la fascinazione di una certa sintonia di visione. La riflessione di Benjamin è largamente precedente a quella di Heidegger, ma la potenza espressiva del secondo può ben servire per aprire una breccia e addentrarsi nella complessità del discorso. Complessità che, prima di essere logico-concettuale, è innanzitutto sentimentale ed emotiva, culturale. Perché entrambi, pur con prospettive differenti, riconoscono al linguaggio un mistero, una propria autonomia dalla comunicazione umana. Ciò è quanto mai distante dalla nostra visione, che appropriatamente Benjamin definisce “concezione borghese della lingua”, tutta incentrata su uno sterile strumentalismo antropocentrico. Ambedue i filosofi, invece, pongono l’evento linguistico come precedente e più essenziale (heideggerianamente, nel senso di universale) rispetto all’uomo, che pure rimane l’unico ente in grado di cor-rispondere a quel parlare puro del linguaggio. Per cogliere la profonda distanza che separa questa concezione della lingua da quella popolare, basterà, credo, riflettere sul titolo del saggio. Sulla lingua in generale e sulla lingua dell’uomo, ove la congiunzione “e” assume un forte valore disgiuntivo: vi è sia una lingua generale, sia un lingua dell’uomo. Non siamo forse noi portati a pensare che la lingua sia una facoltà eminentemente umana? E qual è, allora, questa lingua generale della quale la lingua dell’uomo è una dimensione specifica?

Per Walter Benjamin, la comunicazione è un fatto universale, essenziale dunque, e perciò ogni ente possiede un proprio linguaggio, giacché ogni ente compie in un qualche modo un’azione di comunicazione di sé al mondo. Il filosofo chiarisce, quindi, che “lingua significa, in questo contesto, il principio rivolto alla comunicazione di contenuti spirituali negli oggetti in questione […]. In breve, ogni comunicazione di contenuti spirituali è linguaggio, dove la comunicazione mediante la parola è solo un caso particolare, quello del linguaggio umano e di quello che è alla base di esso o fondato su di esso.” Sarà fondamentale tenere a mente questa definizione. Il mondo, è chiaro, comunica a prescindere dall’uomo. Eppure l’uomo, che Heidegger ci ricorda essere l’unico parlante, non può non conservare un ruolo primario nell’esistenza del linguaggio. Vi è un’interpretazione diffusa del linguaggio come espressione, ovvero come un qualcosa di altro rispetto a ciò che viene comunicato: il linguaggio come medium, insomma. Per Benjamin tale pensiero è ancora limitato dalla cultura mercantile e propone a tal proposito un efficace esempio in riferimento al proprio idioma. La lingua tedesca, e così ogni altra, non è espressione di ciò che noi possiamo comunicare mediante essa, ma è espressione di ciò che in essa si comunica. Un contenuto informativo ha un proprio peso oggettuale che prescinde dall’evento linguistico e, di fatti, può essere espresso in ogni lingua. Eppure, vi è sempre uno scarto di un qualcosa di ancor più essenziale del significato, che non può essere colto né tantomeno traslato in un lavoro di traduzione. Questa piccola distanza incolmabile (ritorna, evidentemente, il tema heideggeriano della distanza, della dif-ferenza che spalanca l’essere) può essere vista, in Benjamin, come l’essenza spirituale della lingua, che linguisticamente si esprime. È anche qui, dunque, il linguaggio stesso a parlare più e prima degli uomini. Mi tornano in mente, allora, le parole del poeta svedese Tomas Tranströmer, Nobel per la Letteratura 2011 e da me già qui omaggiato in un articolo precedente, definisce un’assurdità teorica la traduzione poetica, seppur pragmaticamente necessaria. Così anche Benjamin, nel suo Il compito del traduttore, del 1921-1923, dichiara l’impossibilità di una traduzione come perfetta traslazione da un codice a un altro, ma riconosce al traduttore il ruolo di intessere trame tra le lingue, nella prospettiva pragmatica di  ripristinare, in definitiva, una lingua adamitica, perduta nelle particolarizzazioni e in grado di essere immediatamente espressione del senso spirituale dell’uomo. L’uomo, ancora: sul suo ruolo cardinale torneremo. Per concludere questo passaggio, è necessario dunque rimarcare un nucleo concettuale fondamentale: l’essere linguistico di un ente è l’espressione del suo essere spirituale, nel senso che ciò che vi è di comunicabile nell’essere spirituale si comunica linguisticamente. Ciò che vi è di comunicabile nell’essere spirituale è il suo stesso essere linguistico: la lingua, dunque, comunica sé stessa; comunica la propria comunicabilità.

Così inquadrato il problema, la riflessione sulla lingua dell’uomo non può che far emergere alcune peculiarità sostanziali. Se è vero che ogni essere comunica il proprio spirituale nell’essere linguistico, è altresì vero che la lingua dell’uomo non comunica, dal punto di vista del contenuto, direttamente se stessa. Essa non parla, o non sembrerebbe parlare in prima analisi, dell’uomo in sé; parla piuttosto di altro: dice il mondo, ne nomina gli oggetti. Accettando il ragionamento, dobbiamo dunque asserire che l’uomo comunica il suo proprio essere spirituale nominando gli altri oggetti. Sarebbe dunque così la natura stessa dell’uomo, la sua essenza, quella di nominare il mondo, chiamare le cose all’essere. Del resto, l’immagine dell’uomo responsabile della nominazione del mondo è uno dei grandi topoi della civiltà di radice semitica e dunque anche della cultura occidentale. Non fu forse Adamo incaricato di assegnare i nomi a ciò che Dio ha creato? Ci torneremo e sarà interessante leggere parallelamente altri luoghi delle Scritture, ove, di contro, l’essere di Dio esibisce il proprio loquace mutismo.

Ribadiamo: ciò che si comunica dell’essere spirituale è l’essere linguistico; l’essere linguistico dell’uomo è la lingua: l’uomo, dunque, comunica se stesso nella lingua. Ma se la lingua dell’uomo è l’azione di nominare le cose in base a ciò che del loro linguaggio egli ha udito, allora “ogni natura, in quanto si comunica, si comunica nella lingua e quindi in ultima istanza nell’uomo.” La lingua dell’uomo è l’unica ad avere questa riflessività metalinguistica, per così dire, ed è l’unica lingua pura, giacché il suo essere spirituale è tutto linguistico, nella propria struttura. Ciò perché “dove l’essenza spirituale nella sua comunicazione è la lingua stessa nella sua assoluta interezza, là soltanto vi è il nome, e la vi è il nome soltanto. Il nome come patrimonio della lingua umana garantisce quindi che la lingua stessa è l’essenza spirituale dell’uomo […].” L’elemento del nome è filosoficamente e culturalmente determinante. Cosa è un nome? “La parola, il nominare, riporta l’essente che si schiude dal suo premere immediato e prepotente nel suo essere, e lo mantiene in questa apertura, delimitazione e stabilità.” Sembrerebbe, dunque, che il nome abbia un valore conclusivo, di chiusura e apertura. Chiusura di cosa? Apertura a cosa? Delimitazione della realtà, apertura alla conoscenza e all’essere. Nella nostra cultura biblica, il nome è l’atto conclusivo della creazione ed è affidato all’uomo, appunto. Ma, l’istanza del nome, in rapporto alle riflessioni precedenti, ha innanzitutto una pregnanza filosofica. Lo spirito dell’uomo parla nel nome degli oggetti, che è la sua lingua: esso non può dirsi in sé e per sé. Vi è una distanza gradale e intensiva tra questa dimensione linguistica e quella di uno spirito che si dica tutto per sé stesso, immediatamente. Questo dirsi assoluto è proprio solo dello spirito di Dio, nell’evento della rivelazione. La rivelazione divina, pur nella propria cripticità, è l’unico evento linguistico del tutto estraneo all’incomunicabilità: in essa, lo spirito è non solo totalmente, ma anche e soprattutto immediatamente linguistico e, come tale, si comunica di per sé. I risvolti teologici di un simile argomento sono facilmente intuibili. E, del resto, abbiamo accennato al mutismo di Dio; mutismo che rivela l’essere. Non possiamo non pensare, in tal senso, a Esodo 3:14: “Io sono colui che sono”. Dio, qui, si rivela totalmente come essere e così è muto all’uomo, nel senso che egli non esce da sé stesso, non si fa conoscibile. Il silenzio parla, con Heidegger. È una voragine questa ironia divina, che dandosi nella sua immediatezza resta incoglibile. E infatti, Mosè dovrà operare in nome dell’Io sono, non di colui che è (in quest’ultima proposizione c’è un movimento di uscita da sé e ritorno, verbalizzata nella terza persona, che consente la conoscibilità. Io sono, invece, è un’espressione che rimane in sé stessa). La lingua dell’uomo, allora, sembrerebbe partecipare a questa natura secondo un’intensità attenuata. Le arti, la poesia in particolare, necessitano degli oggetti per aprire lo spirito dell’uomo all’espressione. Per creare, l’uomo indica continuamente oggetti altri. Lo spirito supremo, Dio, conclude la propria creazione nell’uomo, spirito puramente linguistico.

È a questo punto giunto il momento di rivolgersi alla lettura dei primi due capitoli della Genesi, che propongono i due racconti della creazione. Nell’ottica di questa trattazione, i due racconti possono essere illuminati da una nuova luce unificante che ne evidenzi la complementarità. In Genesi 1 il legame tra lingua e creazione è evidente. Lo schema creativo è disse – fu: la lingua dello spirito di Dio è immediatamente creatrice, totalmente attuale. Tutto il creato è dunque in Dio, che appena si pronuncia subito concretizza l’essere negli enti. Nominando, Dio agisce, in lui il nome è verbo. Ma la sua azione, essendo denominativa-vocativa, è anche conoscitiva. E infatti il terzo momento della creazione è propriamente un momento conoscitivo: “E dio vide che era cosa buona”. Questo terzo momento non è empiricamente e ontologicamente separato dagli altri due, non può esserlo: Egli chiama le cose a essere, le nomina, poiché già ne possiede la conoscenza. E, di fatti, alla sua chiamata le cose rispondono materialmente, risultando create. Allo stesso modo avviene la creazione dell’uomo (maschio e femmina), ai quali affida il dominio del creato. Così si conclude Genesi 1. Genesi 2 riprende la narrazione dal settimo giorno, mutando però il racconto della creazione dell’uomo e posticipandola. Qui tutta la creazione è presentata come già conclusa ma, soprattutto, come frutto di un lavoro, non come pura evocazione. E infatti anche l’uomo è artigianalmente plasmato dal fango della terra: fango sul quale Dio alita il proprio spirito, il proprio fiato. Fiato che è allo stesso tempo anima e principio materiale della parola: voce. L’uomo diventa esistente consustanzialmente all’essere parlante, queste dimensioni, come già detto, sono strutturalmente coincidenti e compenetranti. A Genesi 1:19 leggiamo che “Allora il Signore Dio plasmò dal suolo ogni sorta di bestie selvatiche e tutti gli uccelli del cielo e li condusse all’uomo, per vedere come li avrebbe chiamati: in qualunque modo l’uomo avesse chiamato ognuno degli esseri viventi, quello doveva essere il suo nome.” Dio porta all’uomo le proprie creature perché esso le nomini, ma l’enunciato marca fortemente sulla centralità dell’azione umana: Dio vuole sapere come gli animali verranno chiamati, poiché è l’uomo a doverlo fare. Questa dinamica ci ricorda poi il sacramento del battesimo. Dio conosce ovviamente già, nell’immediatezza della creazione, il nome dell’essenza del creato. Eppure questa nominalità è ancora tutta ontologica, tutta ancora in Dio, nel suo spirito. Qui, Heidegger a mio avviso avrebbe spinto il discorso ancora più lontano di Benjamin, affermando che perché l’essere si faccia strada è necessario il vuoto che si crea tra la dimensione del nome in sé delle cose, posseduto solo da dio, e la denominazione mondana, che si approssima soltanto all’essenza, senza mai raggiungerla. Ma è proprio in quella distanza, riprendendo le fila del discorso iniziale, che l’essere può dir-si tale. Benjamin invece si concentra proprio sul rituale battesimale come consacrazione a Dio: il nome viene imposto perché la creatura nominata si presenti al cospetto di Dio. Ma non è forse lo spirito di Dio l’Essere? Ecco allora che ci appare più chiaro il compito dell’uomo rispetto alla denominazione (e anche l’affinità, in questa circostanza, tra Benjamin e Heidegger): la lingua dell’uomo chiama gli enti all’essere, suona l’adunata che chiama i quadrati del cosmo a ritrovarsi nell’essere. Così, la creazione di Dio può dirsi completa (e i due capitoli della Genesi filosoficamente legati). L’essere pone sé stesso, ontologicamente, negli enti: esso si sa. Ma perché esso possa conoscersi esistenzialmente, è necessaria una chiamata esterna, una denominazione. È l’uomo, in ultima istanza, a fornire una dimensione esistenziale all’essere. E così l’uomo, nella sua esistenza linguistica, è l’unico che può risalire, a ritroso, all’essere, che è sempre lì in quella distanza tra il padre e il figlio che è dolora, incolmabile, necessaria.

Sarà interessante ragionare ora sul come l’uomo imponga i nomi. La concezione borghese della lingua suggerirebbe un rapporto causale e strumentale tra l’oggetto e il suo nome. Ciò non è evidentemente possibile, nell’ottica di Benjamin, poiché gli oggetti parlano una lingua non verbale. L’uomo coglie questo parlare, ponendosi in ascolto (e questo porsi in ascolto della lingua degli oggetti è innanzitutto un rapportarsi esistenziale agli stessi), e lo traduce nella propria lingua. La lingua degli oggetti, la loro voce, è l’eco della voce creatrice di Dio. Così, l’azione del dare il nome è il residuo della potenza creatrice di Dio. Gli oggetti si comunicano all’uomo così come Dio li ha posti a lui perché li nominasse: “il nome che l’uomo dà alla cosa dipende dal modo in cui essa gli si comunica”. La traduzione di ciò che non ha nome in ciò che ha nome è la vera potenza creatrice della lingua dell’uomo, poiché aggiunge qualcosa che, di per sé, la lingua delle cose non avrebbe: la conoscibilità, giacché essa presuppone la distanza, l’alterità. L’essere si conosce, lo abbiamo detto e ora ci è più chiaro, mediante i nomi, ovvero mediante l’uscita da sé.

Ma se così stanno le cose, come interpretiamo il ruolo dell’albero della conoscenza del bene e del male? Perché nel settimo giorno, prima della sua cacciata, l’uomo vive in comunione con Dio, con l’Essere. Dio è immediatamente verbo sulla terra, che si fa conoscibile mediante l’azione umana. Regna, in quelle ore, quella che Benjamin chiama lingua paradisiaca. Questa lingua è perfettamente conoscitrice, poiché ciò che dice corrisponde totalmente all’essere, che è lì, di fronte: è la lingua attraverso la quale l’essere stesso decide di dir-si a sé. Se ogni conoscenza è pacificamente inclusa all’interno dell’Eden, quella del bene e del male non può dunque essere una conoscenza, giacché non dice niente delle cose che esse già non dicano per sé stesse nel nome dato dall’uomo. La tentazione del serpente è dunque la tentazione a una parola che vada oltre l’essere e, così, lo copra e confonda. Non è conoscenza della cosa, che di per sé è sempre buona perché in Dio (e nell’essere), ma è il niente dello straparlare, che scinde e divide. Con il peccato originale, dice Benjamin, nasce la lingua umana propriamente detta e il male può esistere e proliferare nel surplus retorico che fa dimenticare all’uomo l’essere. Così, il mondo non è più immediatamente e esistenzialmente dialogante con l’uomo e si fa silenzioso: i suoi frutti vanno ora guadagnati, sudati. Il male, scollamento della lingua umana dall’essere, è un elemento di divisione, innanzitutto tra gli uomini della stirpe di Adamo, incapaci poi di comunicare anche tra loro. E la dimensione teleologica di Benjamin, infatti, vedeva nella pragmatica del dialogo e della traduzione la via per la futura rifondazione di una lingua paradisiaca e l’avvento di una nuova pace, di una nuova concordia.


Opere di riferimento

Benjamin, Walter, Angelus Novus, Einaudi, Torino, 2014. Sono qui raccolti i saggi citati.

Bonola, Gianfranco, Il Paradiso dei nomi. Walter Benjamin interprete di Genesi 1-3 (1916)  in “Annali di storia dell’ esegesi”13/2, 1996.

Heidegger, Martin, In cammino verso il linguaggio, ed. Mursia, Milano, 1988. Sono qui raccolti i saggi citati.

Ricoeur, Paul, Il conflitto delle interpretazioni, ed. Jaca Book, Milano, 2007.

Il testo della Sacra Bibbia di riferimento è stato quello della Edizione CEI, fornito dal sito internet della Santa Sede (www.vatican.va).

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