Di che colore è?

Nominare i colori: operazione scientifica o culturale? Il primo contatto con la realtà che ci circonda è sempre un’esperienza prelinguistica: ne consegue che la nostra competenza linguistica è influenzata dall’ambiente fisico e dai sistemi culturali in cui una data lingua viene utilizzata.

Avere nomi diversi per categorizzare la realtà che ci circonda significa quindi anche percepirla in modo differente? Per analizzare un interrogativo tale, applicato ad esempio alla nomenclatura dei colori, occorre per prima cosa mantenere distinta la percezione visiva dalla denominazione del campo cromatico. La prima ha origini fisiologiche ed è perciò analizzabile dal punto di vista universalistico (tutti gli esseri umani hanno lo stesso apparato visivo e sistema nervoso), mentre per la seconda ha ormai preso piede la teoria relativistica che tiene conto della specificità culturale. La questione quindi si restringe: i meccanismi fisiologici di percezione possono influenzare e determinare la denominazione dei colori? Sicuramente, la fisiologia determina l’apparenza dei colori (una sorta di fenotipo), ma, se è davvero in base all’apparenza che vengono stabiliti i nomi dei colori, allora in definitiva è la fisiologia stessa a determinarli?

Nel 1968, il filosofo australiano F. Jackson pubblicò un articolo dal titolo What Mary Didn’t’Know. Vi si ipotizzava che una ragazza, Mary appunto, fosse stata reclusa dalla nascita in una stanza priva di colori, tutta nelle tonalità del bianco e del nero. Tuttavia, Mary aveva ricevuto un’educazione scientifica e aveva immagazzinato importanti nozioni di neurofisiologia: sapeva come il sistema visivo umano distingue le diverse frequenze dello spettro elettromagnetico, e quindi cosa fossero i colori, anche se non aveva mai avuto occasione di vederli. Jackson suppose che fosse improvvisamente permesso a Mary di lasciare la stanza: vedendo una gonna gialla per la prima volta, avrebbe davvero capito che quello che vedeva era il colore giallo? Nonostante sapesse cosa fossero i colori e il suo apparato visivo fosse pronto a percepirli sin dalla nascita, solo al momento dell’uscita dalla stanza Mary aveva avuto la facoltà di sperimentarli e annetterli al proprio sistema di esperienza, e quindi culturale, ovvero: nominarli.

Far from language carving out categories themselves have been induced by perceptual saliencies common to the human race. (C.L. Hardin, Color for philosophers: Unweaving the rainbow)

Basic Color Terms. Un primo grande studio che contrastò la preferenza dei linguisti americani per un relativismo linguistico quasi estremo fu quello esposto da Brent Berlin e Paul Kay nel loro Basic Color Terms (1969). Gli obiettivi della ricerca erano dimostrare l’esistenza di “universali” utilizzati dai parlanti nell’attribuire dei nomi ai colori, e la corrispondenza tra l’ordine cronologico della comparsa di tale codifica lessicale e una sequenza evoluzionistica di una data popolazione.
La raccolta dei dati di Berlin e Kay fu realizzata in due fasi: dapprima, i termini dei colori di base erano nominati direttamente dall’informatore nella sua lingua, in modo che facesse riferimento il meno possibile a un altro sistema linguistico (quello dello studioso), per evitare che il bilinguismo influenzasse la categorizzazione dei foci dei colori; in un secondo tempo, ogni soggetto doveva mappare sia il punto focale sia il confine più esterno di ogni colore di base. Dopo l’analisi e la comparazione dei dati, i due studiosi giunsero a stabilire che la categorizzazione dei colori non avveniva mai casualmente, anzi erano riusciti a individuare sette stadi1 dello sviluppo della nomenclatura dei colori, e che i foci dei colori di base era simili in ogni linguaggio.
Inoltre, nessun sistema linguistico one-term era emerso durante l’osservazione: il primo stadio della nomenclatura si forma sempre per opposizione, ovvero, se c’è BIANCO, c’è certamente anche NERO. Questo potrebbe far pensare che il cervello ragioni più per punti (facilmente opponibili), che per confini e gradazioni: tuttavia, con il procedere degli studi, si è rafforzata anche in questo campo l’intuizione che guida la teoria dei sistemi fuzzy, o sfocati, e che propone una struttura associativa graduata: uno può essere più o meno un gourmet, più o meno un atleta, più o meno cinico2. Quindi, un termine di colore viene identificato non tanto per ciò che positivamente indica bensì in base a ciò da cui si differenzia3: ciò conferma, almeno parzialmente, quanto avevano intuito Berlin e Kay, ovvero che non è casuale la presenza, in tutte le lingue, di almeno due termini di paragone.

ph. cobalt123 (click)

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O bianco o nero o “foglie delle patate dolci”. Invero, durante la comparazione dei dati erano emerse anche delle importanti smentite alle loro teorie: la più eclatante era la permanenza della prima fase (una sola coppia oppositiva) presso due gruppi parlanti il Dani, una lingua non austronesiana della Nuova Guinea, ovvero gli Jalé, che distinguono solo i macrocolori BIANCO e NERO in cui includono tuttavia varie tonalità, così come i Tangma, che utilizzano il termine muli per riferirsi al nero e al verde e mola per bianco, rosso e giallo4, colori che dovrebbero apparire solo in stadi successivi della nomenclatura, e che invece venivano tutti accomunati. Inoltre, moltissime popolazioni sembravano non percepire il bianco e il nero come dei colori, ma li utilizzavano semplicemente per rendere il grado di luminosità, per esempio, di un particolare verde: la distinzione nella nomenclatura non era quindi più operata in termini di colori, ma attraverso la luminosità – più chiaro e più scuro. Questo fenomeno era osservabile soprattutto in quei sistemi linguistici in cui, dopo i termini dei colori di base, apparivano quelli cosiddetti “descrittivi”: per i Ndembu del Benue-Congo, per esempio, il colore meji amatamba indica “le foglie delle patate dolci”5, così come per gli Jalé il colore pianó indica “le piante le cui foglie, con lo sfregamento, colorano i tessuti di un particolare verde”6. In quale punto esatto dello spettro cromatico si collocano questi colori? Un eschimese potrebbe ugualmente percepire e nominare il colore meji amatamba? La denominazione dei colori è quindi un fattore culturale? Fu chiaro che l’unico modo per stabilire il confine assoluto tra un colore e l’altro fosse esaminare la distribuzione dei termini in un dato linguaggio, abbandonando la teoria universalistica: i confini possono così essere “assoluti” relativamente a un linguaggio o alla distribuzione di un termine in una certa sfera culturale.

La percezione dei colori può quindi essere ritenuta un buon indicatore di evoluzione? Nel caso dell’animale, la capacità di distinguere i colori aumenterebbe certamente  le possibilità di sopravvivenza; per l’animale uomo, i dati raccolti nel tempo da etnologi e sociolinguisti sosterrebbero una positiva correlazione tra un’elevata complessità culturale e tecnologica e la varietà del vocabolario dei colori. Berlin e Kay osservarono che tutte le lingue dei paesi europei e asiatici altamente industrializzati si trovavano allo stadio VII, mentre popolazioni sottosviluppate in località isolate si erano fermate fino allo stadio III. Questo, tuttavia, può essere considerato come un dato “di valore” in una teoria evoluzionistica solo dal punto di vista del nostro Occidente; inoltre, per Berlin e Kay, se in una lingua compare un termine di una categoria, devono essere presenti anche tutti quelli delle categorie precedenti: una lingua deve attraversare storicamente7 tutti gli stadi, con ordine; teoria già smentita dalla loro stessa ricerca, come nel caso dei Tangma. Il sogno di una teorica universalistica per la nomenclatura dei colori era svanito.
Se esiste un’evoluzione nella nomenclatura dei colori, essa non è quindi di tipo biologico. Il filosofo Don Dedrick appoggia la proposta dell’applicazione delle epigenetic rules anche al campo della categorizzazione dei colori: “epigenesi” è un termine biologico che indica le interazioni tra i geni e l’ambiente, da cui si creano i tratti distintivi di un dato organismo. Il vocabolario dei colori utilizzato da una persona sarebbe quindi il risultato dell’interazione dei geni che si occupano della percezione dei colori con l’ambiente in cui tale esperienza si sviluppa: è la fisiologia della percezione che le impone quali porzioni dello spettro (visibile) dei colori categorizzare, e quindi nominare.

cianometro (per misurare l'intensità del blu del cielo, 1789)

cianometro (per misurare l’intensità del blu del cielo, 1789)

Il vocabolario dei colori. La creazione dei nomi dei colori seguirebbe, sempre secondo Dedrick, il modello del resemblance nominalism: ovvero, i primi nomi vengono abbinati ai colori percepiti come importanti, da cui si procede per somiglianze (rosso – cremisi – porpora – carminio – amaranto ecc) e, attraverso una generalizzazione, si costruisce un’intera categoria cromatica (“i rossi”); la scelta del termine “nominalismo” enfatizza la non-naturalità (la non-fisiologia, la non-universalità) di tale classificazione. Le regole epigenetiche così applicate fanno comunque riferimento alla presenza di colori importanti, di foci centrali e costanti, proprio come avevano dimostrato Berlin e Kay; ma si tratta comunque di regole non sufficientemente forti per imporre classificazioni identiche da cultura a cultura. Insomma, il riconoscimento dei foci è una operazione cognitiva e logica, che ha a che fare con la percezione fisiologica dello spettro cromatico: i foci, così intesi, non hanno bisogno di essere storicamente primari, contrariamente a quanto ritenevano Berlin e Kay, ma servono come basi reali (fisiologiche) sulle quali costruire un linguaggio dei colori che funzioni. Il substrato biologico della percezione del colore è quindi origine e fondamentale apporto all’espressione linguistica variabile nelle culture. Ciò ha permesso ad antropologi come R. Kuschel e T. Monberg di creare, per la nomenclatura dei colori, due categorie coerenti di classificazione, quella dei termini di base e quella dei termini “contestualizzabili”8, ovvero metafore che tentano di rendere l’idea di un colore: sono, questi, termini connessi a oggetti specifici, a emozioni e aspetti fortemente culturali, e quindi relativistici, che “funzionano” solo in un dato contesto, appunto. Sulla base di questo tipo particolare di nomenclatura, Bernard Harrison, filosofo e tra i primi commentatori del lavoro di Berlin e Kay, stabilì un modello basato tre livelli di interazione: il primo consiste nella relazione tra la struttura e il contenuto dell’esperienza prelinguistica di chi apprende, il secondo è il sistema di regole che ha costruito, o che sta costruendo, per poter applicare il sistema di nomi, il terzo consiste nell’uso osservabile di questo sistema da parte di altri parlanti di una lingua.

Il Basic Color Terms è sì un sistema universale perché si tratta di un’operazione linguistica presente in tutte le lingue, tuttavia, il linguaggio che crea la terminologia di colore è specifico per dati oggetti, rituali, pratiche e culture. La parola del colore è un’esperienza umana, percettiva, pre-scientifica9.

L’immagine di copertina è un’installazione dell’artista Gabriel Dawe.

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