Dove osano le anime

Questa è una storia fatta di storie, tante, troppe, che si intrecciano, si cercano, prima si schivano poi si superano, a volte si scontrano, altre vincono, deludono, fanno sognare.

Quando François, appena bambino, venne portato dal padre a vedere la sua prima corsa d’auto in un dopoguerra faticoso e pieno di speranze, qualcosa in lui lascia un segno profondo. Suo padre, monsieur Migault, è commerciante di articoli sportivi in città, e in quella città non esistono “gare” di auto come negli altri posti, no, là si corre una sola volta all’anno, per un giorno intero.

Una corsa strana, unica nel suo genere, nata negli anni ’20 dall’idea di qualche eccentrico nobile col debole dei pistoni e trasformatasi in pochi anni da vezzo chic per conti e baroni del volante in stile liberty, a qualcosa di grandioso in grado di attirare squadre da ogni parte del pianeta. François, la sua città, roccaforte medievale eretta in mezzo alla Loira, e una gara nata sulle brecciose strade agricole che la circondavano: Le Mans e la sua 24 Ore.

François  Migault

François Migault

Tornato a casa pensava di sentirsi male, era poco più che un bimbo, ma capiva che quello che aveva visto lo aveva sconvolto per sempre: sentiva uno squarcio dentro, come se si fosse aperta non una ferita, piuttosto una finestra, oltre la quale pulsava una luce fortissima, che da quel giorno non si spegnerà più, la luce di una passione-ossessione che gli impedirà di vivere senza provare a vincere la “sua” corsa, disposto a tutto pur di riuscirci. Una lucida follia eterna, per la quale si sarebbe sempre sentito diverso dai suoi coetanei, come quando, iscrittosi all’insaputa dei suoi al campionato Shell per giovani talenti, arrivò alla finale in testa alla classifica e venne colto da un umano, insolito, rimorso: “Fino a lì, non avevo avvertito nessuno, né mio padre, né mia madre. Alla vigilia della finale mi sono detto che sarebbe stato meglio che i miei lo avessero saputo da me piuttosto che dai giornali. Allora andai a dirlo a mio padre..la sua risposta fu molto chiara: <<Ascolta François, se vinci farai quello che vuoi. Ma se arrivi secondo o ultimo, dopodomani alle 9 voglio vederti in negozio>>”. In negozio François non ci tornerà, la vita per lui aveva già previsto un’altra strada, a partire da quel campionato stravinto.

Per questo, qualche tempo dopo, tra una gara e l’altra incontrerà Jean, suo compagno di squadra, all’occorrenza suo meccanico e assistente, un “Manceau” come lui: “Come me e come tutti quelli di Le Mans, diceva che voleva correre a Le Mans, che voleva vincere a Le Mans”. Nel susseguirsi di pennellate variopinte con cui il destino si divertirà a riempire la tela delle loro storie, François rincorrerà la 24 Ore per tutta la vita, senza salire mai sul primo gradino, mentre Jean dopo diverse annate da pilota, farà di tutto per correrla con una macchina costruita col suo nome: è il 15 giugno 1980, sulla Rondeau M378 n. 16 Jean Rondeau centra il successo in coppia con Jean Pierre Jaussaud, un veterano della pista originario della Normandia.

Jean Rondeau e Jean Pierre Jaussaud portati in trionfo alla 24 Ore del 1980 - foto John Brooks -

Jean Rondeau e Jean Pierre Jaussaud portati in trionfo alla 24 Ore del 1980 – foto John Brooks –

A Le Mans non era mai successo che un pilota…di Le Mans vincesse la “sua” 24 ore con la “sua” macchina, per questo una folla immensa si riversa al traguardo per festeggiare come mai prima. Anche la luce di Jean non aveva mai smesso di pulsare, e in quel momento più dei flash dei fotografi a brillare era lei.

Sotto il podio osservava esausto la scena Henri, figlio di un medico parigino, che è lì per caso e per destino al tempo stesso: finito il liceo sognava di diventare pilota di caccia, ma la scomparsa prematura della madre gli getta addosso tutte le aspettative paterne perché si iscrivesse a medicina, e amen. Un giorno, proprio il padre, amante delle auto, lo carica sulla Dauphine di tutti i giorni e lo porta al Rally di Esculapio, rigorosamente riservato ai medici, dove alla partenza gli cede il volante. Malgrado la corsa duri poco per un’uscita di strada, Henri non tornerà più quello di prima, e parallelamente allo spegnimento dei già fievoli entusiasmi per gli studi universitari inizia a pulsare anche in lui quella luce dal fulgore virale. E, come spesso accade, se ci si affida alla sua forza, si sa da dove si parte ma non si sa dove si andrà a finire..La carriera automobilistica di Henri esplode, a dispetto delle mire ippocratiche di suo padre, il Dr. Pescarolo. In pochi anni passa dalle gare jeunesse alla Formula 3, dove grazie alla Matra, la iper-statalizzata costruttrice di auto sportive decisa a puntare tutto sui talenti da scoprire, nel 1967 conclude il campionato al secondo posto. L’anno prima, era stata proprio la Matra a volerlo a Le Mans, dove Henri non aveva mai messo piede. Le Mans era cambiata, entrata già nel mito delle competizioni aveva mantenuto la sua unicità, espandendosi nei sogni dei piloti di tutto il mondo, con i suoi quasi 14 km di lunghezza percorsi tra pista permanente e strade statali, il cui tratto più famoso, il rettilineo dell’Hunaudierès lungo quasi 7 km, è leggenda pura. Ricorda Henri: <<La mia prima volta sul rettilineo dell’Hunaudierès resterà per sempre impressa nella mia memoria. La Formula 3 che pilotavo normalmente arrivava poco oltre i 200 km/h, là invece mi trovai per la prima volta in vita mia con una vettura capace di avvicinarsi ai 300 km/h, sul circuito più veloce del mondo che io non conoscevo assolutamente. Sapevo anche che le auto più veloci mi superavano ad una velocità di 100 km/h più alta della mia. Ogni volta che guardavo negli specchietti era come vedere un mostro che mi correva addosso>>. Henri, che di carattere è tanto affabile quanto timido, non si lascia andare a grandi esternazioni di stupore ma dentro di sé sente di aver scelto quella corsa come la sfida più grande della sua vita.

Matra M 640

Matra M 640

Tre anni dopo, da consolidato uomo di punta di Matra, gli verrà affidato il collaudo dell’ultima “arma” da guerra della scuderia, la M640, un’astronave su ruote studiata per lasciare dietro tutti i potenziali aspiranti al podio della 24 Ore. E in effetti come un veicolo spaziale la M640 durante il primo giro di shakedown si alza in volo a 280 all’ora, proprio sull’Hunaudierès: Henri per un attimo è confuso, la sua luce si è spenta, lo ha tradito, si prepara a morire, perché anche il più sognatore dei piloti sa che se decolli ai 300 e non hai un biplano poi devi atterrare, e questo vuol dire senza dubbio sfracellarsi. La M640 piomba nel bosco che costeggia la ligne droite, butta giù metri di alberi ed essendo anche piena di benzina trasforma il tutto in un rogo da manuale. Henri non capisce, non sa, apre gli occhi ma non è sicuro, poi però sente la pelle del viso che si stacca perché il fuoco se la porta via, e anche se al posto del corpo sente di avere solo un mucchio di ossa doloranti oltre l’umano, si trascina fuori dai rottami per non finire carbonizzato. Si risveglierà qualche settimana dopo, tutto intero ma con qualche ustione di troppo, e il suo pizzetto diventerà da lì una folta barba che tenga nascoste le ferite. La sua luce non si era spenta, era successo un miracolo, la M640 non correrà mai, venne riprogettata da zero, e Henri, finita la riabilitazione tornerà a regolare i conti col ”suo” circuito, quello su cui per volere ultraterreno aveva vinto sulla morte, prima che su qualche avversario al volante.

G.Hill e H.Pescarolo vincono la 24 Ore del 1972

G.Hill e H.Pescarolo vincono la 24 Ore del 1972 – foto: www.les24heures.fr-

Nel 1980 mentre assiste al trionfo di Rondeau, lui la 24 Ore l’ha già vinta tre volte, ci riuscirà ancora quattro anni dopo, poi correrà per altri quindici anni con una parentesi anche in Formula 1, arriverà a disputare 33 edizioni della 24 Heures in tutto; si ritirerà per tornare in pista dalla parte del muretto, al comando della scuderia Pescarolo Sport, entrando definitivamente nell’olimpo, dove rimane con l’amaro di non aver potuto vincere come stratega, a causa di una crisi finanziaria che ha fatto fallire la scuderia ma che non ha affievolito il sogno, né il suo né quello dei tifosi che lo hanno sempre adorato, tanto che perfino in queste ore, a cavallo della presentazione della prossima edizione della 24 Ore, le voci di un suo ritorno al box si sono rincorse risvegliando le (poche) speranze degli appassionati, come folate di incenso nel buio, tanto ammalianti quanto sfuggenti.

wollek

Bob Wollek
-foto: www.poeticofspeed.com-

Tra gli amici e compagni che si era creato Henri, uno dei suoi preferiti era Bob, alsaziano dal temperamento indiscutibile, insieme al quale regalerà alla Porsche un’epopea di piazzamenti alla 24 Ore da annali dello sport. A differenza di “Pescà”, Bob, all’anagrafe Bob Wollek, malgrado 30 partecipazioni piene zeppe di secondi e terzi posti, non portò mai la vittoria a casa, nemmeno nel 1997, quando al comando della corsa tra lui e la sua Porsche qualcosa andò storto, finì fuori in modo poco chiaro in una curva che si chiama Arnage e che si fa a soli 80 all’ora, quasi uno scherzo del destino che aveva deciso le cose rimanessero così.. per Bob non fu facile accettarlo, ma la luce che sentiva dentro era anche nel suo caso rassomigliante a una magia nera che dopo averti avvolto nel suo alone ti porta via, decidendo lei come andranno le cose, senza che tu possa opporti. Una notte, nel 1995, durante una di quelle edizioni che a dispetto dell’appuntamento fisso a metà giugno sembrano disputate in novembre, Bob era al volante della sua Courage ed era arrivato il momento di cedere il turno, da bravo compagno di squadra, a uno dei suoi due copiloti, rientrando così ai box. Negli istanti di frenesia ogni tecnico svolse il suo lavoro, cambio pneumatici, rifornimento di carburante, e chi doveva sostituire Bob stava pronto a calarsi dietro al volante. Chi c’era giura di non essersi nemmeno accorto che Bob, non appena il bocchettone del rifornimento fu staccato e le gomme nuove montate, schizzò via ad una velocità da primato. Aveva deciso: avrebbe proseguito dopo aver fatto già un doppio turno (più di sei ore), perché ormai aveva preso confidenza con la vettura e con le condizioni della pista, peraltro infernali, vento e pioggia a volontà, che a 350 km/h non sono l’ideale per correre, in particolare su una barchetta scoperta. Poi, forse allo stesso modo in cui molti anni prima François Migault decise di confessare al padre che il giorno dopo avrebbe rischiato la vita cercando di vincere un campionato in pista, Bob accettò che nel mondo reale il fuoco interiore deve fare un po’ a botte con cose come una squadra, dei compagni, una strategia pianificata da decine di persone, le pretese degli sponsor ecc., e dunque si rifece di nuovo vivo ai box. Sceso e toltosi il casco si trovò davanti i giornalisti di mezzo mondo tutti a guardarlo esterrefatti e in trepida attesa con un microfono per avere una qualche spiegazione, risposta: <<Doppio turno, allora?>>.

Anche per questo, Yves, il suo capo squadra dell’epoca, saputo della scomparsa accidentale di Bob nel 2000, lo ricordò con poche eloquenti parole: <<Un personaggio incredibile>>.Yves è il classico esempio di come quando le storie si intrecciano i nodi possono moltiplicarsi fino a descrivere, in prospettiva, trame fittissime. Yves è anche la conferma che il virus contratto a Le Mans si diffonde senza antibiotici in grado di debellarlo: come François e Jean nato e cresciuto a pochi passi dal circuito, anche lui vittima di quella febbre che lo porta prima a correre, mancando l’impresa di salire sul trono del vincitore, poi, a 39 anni, una nuova seconda vita in pista, dopo Rondeau e Pescarolo, anche lui vuole dirigere un team a nome suo, con proprie vetture in gara.

Courage C34 Wolleck/Andretti/Hélary

Courage C34 Wolleck/Andretti/Hélary – foto: motorsport.com –

Nacque la Courage, che nel 1995 sfiorò la vittoria con la C34, quella che Bob Wollek non intendeva lasciare al suo compagno di squadra, rimasto attonito ai box. Il “malcapitato” in questione era Mario Andretti, classe 1940, istriano naturalizzato a stelle e strisce, una leggenda del volante che dopo essere stato incoronato re nelle corse made in Usa decise a fine carriera di aggiungere al suo palmares anche Le Mans, e come detto nel ’95 rischiò davvero di riuscirci, ma un testacoda gli costò un ritardo fatale per vedere sfuggire la vittoria.

La bravura e il talento devono accompagnarsi all’alchimia che lo spirito della corsa e il destino hanno prodotto per ogni pilota, e questa spietata indicibile verità stabilisce un principio di eguaglianza, per chi vince e per chi perde: è così come è stato deciso, accettabile o no, ed ecco che accanto a François e Bob che il loro sogno l’hanno rincorso fino alla fine, esiste chi, come il leggendario Jacky Ickx, connazionale di Wollek, giunse a guadagnarsi il soprannome di Monsieur Le Mans, con 6 vittorie ottenute sulle vetture più diverse, un record rimasto per decenni imbattuto fino ai recenti trionfi Audi del danese Tom Kristensen, attualmente unico pilota al mondo a vantare ben 9 24 Ore vinte.

Fin dai primissimi tempi della nascita della gara a Le Mans si sono sempre parlate tutte le lingue del mondo, a dispetto della orgogliosa rivendicazione d’identità che la cittadina porta con sé in ogni suo angolo, al punto di assumere come sinonimo della denominazione del circuito proprio il dipartimento regionale a cui Le Mans appartiene, ossia la Sarthe. Ma con gli USA il legame è particolare, quasi mistico, non soltanto per il fascino di chi dai grattacieli e dalle praterie deve attraversare il mondo per andare a vincere una gara unica, ma anche perché tra le pagine più belle scritte a colpi di sfide da brivido ci sono proprio quelle tra Ford, con la imprendibile e iconica GT 40 degli anni ’60, e gli avversari più forti dell’epoca, un manipolo di appassionati meccanici, giovani ingegneri e raffinati piloti riuniti sotto l’insegna Scuderia Ferrari. Lo scontro era titanico, quelli di Maranello vincevano Le Mans ininterrottamente da cinque anni, così nel 1966 a festeggiare la vittoria degli yankees era presente Henry Ford II in persona, direttamente da Detroit, mentre Ferrari, nel suo stile severo e schivo, aveva consolidato la tradizione di telefonare in circuito da casa sua a Modena o dall’ufficio di Maranello. Nonostante la storia sportiva di Ford rimarrà per sempre il simbolo del legame tra USA e 24 Ore, tuttavia per molti l’equazione Le Mans + Stati Uniti produce inesorabilmente un solo risultato.

Dove_Osano_Le_Anime

foto: http://instagram.com/tropismi

Il suo nome è Steve McQueen, che con una follia paragonabile a chi a sul circuit de la Sarthe si giocava tutto, decise nel 1971 di fare un film, sulla e nella gara, andando oltre ogni logica, spendendo milioni di dollari per far allestire e noleggiare il circuito come durante la gara vera volendo rendere verosimili alcune scene, per altre si iscrisse realmente alla gara con una Porsche entrata nel mito, modificata per attaccarci una cinepresa sopra. Tutto questo per un film ripudiato dallo stesso regista (McQueen era attore e produttore, la sua casa di produzione grazie al film tinse di rosso tutti i conti), stroncato dalla critica, una pazzia pura..quella che Steve sentiva dentro, quella accecante luce in espansione, familiare a tutti quelli lanciati prima di lui giorno e notte quasi a 400 orari sull’Hunaudierès.

Le storie di uomini e donne che a Le Mans hanno gioito, pianto, hanno vinto, perso, creduto, sperato sarebbero troppe da ricostruire qui, bisognerebbe avere almeno una macchina del tempo, e correre indietro per rivivere tutti minuti di tutte le edizioni, volare in mezzo alle 250 mila anime che popolano il tracciato mentre si corre , immergendosi tra le bancarelle e i ristoranti du village e respirare quell’atmosfera insieme a chi scatta una foto dalla ruota panoramica che affaccia sulla pista, a chi prova ad appisolarsi sul prato della curva di Mulsanne, chi ritorna nella propria tenda tra le migliaia che spuntano a perdita d’occhio, occorrerebbe chiudere gli occhi durante uno dei concerti che suonano mentre la gara va, e provare a percepire il rombo in sottofondo, unica nota non scritta ma immancabile in quel pentagramma. Poi riaprire gli occhi e trovarsi dentro uno dei prototipi, concentrarsi sulla traiettoria davanti a sé, dove i fari tentano di lacerare il buio, dove tutto scorre a velocità impensabile, dove non si può sbagliare, e nonostante il grido del motore, sentire il tempo scandito solo dalle pulsazioni cardiache. Basterebbe un battito di ciglia per ritrovarsi ai box, dove le squadre nervosamente controllano tutti i valori di telemetria combattendo la stanchezza del corpo e della mente, sapendo che l’alba arriverà e con lei il momento decisivo, i tre quarti di una gara che si vince giro per giro.

2013: una delle tre Audi in gara nella notte di Le Mans -foto:www.motorsport.motorionline.com-

2013: una delle tre Audi in gara nella notte di Le Mans
-foto:www.motorsport.motorionline.com-

Nel suo essere unica, Le Mans non ha mai perso quello che più di ogni altra cosa la rende tale: la sua anima, quella di un luogo che è anche spirito, perché in quella corsa si sublimano il lavoro, le passioni, le sofferenze, le ambizioni il talento e i sentimenti di una enorme quantità di uomini e di donne che da tutte le parti del mondo, 364 giorni all’anno, spendono le proprie energie unicamente per la 24 Ore. Ogni continente ha un pezzo indelebile della propria storia sportiva depositato a Le Mans, e questo la renderà sempre quel posto inimitabile dove chiunque può incontrare chiunque, annullare ogni distanza e ogni differenza, celebrando solo la voglia di essere lì, chi per vincerla, chi per viverla, chi per sognarla, chi per renderla più magica, semplicemente uniti, nei momenti più belli come in quelli tragici.

Tutto questo è stato possibile e lo sarà sempre finché la luce di persone come François, Jean, Henri, Bob, Yves e i loro mille compagni di avventura di ogni latitudine continueranno a seguire la propria follia, la propria luce, finché questa si incontrerà con quella degli altri, all’infinito, in un crescendo di scintille che tengono vivo l’intreccio magico di vite e di storie di cui la leggenda e l’anima stessa di Le Mans è fatta.

Se le cose stanno così, si capisce come la trama tessuta da tutte le storie di vita che hanno lasciato la propria indelebile traccia a Le Mans, in realtà racconti del fatto che a dominare le ottanta e passa edizioni non sono stati i vincitori, ma quella lucida abbagliante malattia di ognuno dei piloti. Dal primo all’ultimo, per quasi un secolo, hanno sfrecciato nel buio di quel rettilineo senza fine, con il pretesto di arrivare primi, spinti in realtà da una voglia inconfessabile, ragione di vita e di morte: scoprire dove e fino a che velocità l’anima potesse arrivare ad osare, più degli altri, fino alla curva successiva, giusto il tempo di arrivare al brivido di provarci ancora un giro dopo, con la gola soffocata dal cuore e quella luce accecante che non muore, sempre come fosse l’ultima volta, sempre come fosse la prima.

Il prossimo giugno, intanto, il sipario si alzerà di nuovo.

Tommaso Sabbatini*

ILS ONT FAIT LE MANS, di Jean-Charles Stasi, ed. L’àpart, Turquant, 2012

LE MANS, 24 Ore di corsa 90 anni di storia, di Mario Donnini, ed. Nada, Firenze, 2013

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foto: http://instagram.com/tropismi

*La portata sorprendente dell’incontro tra la propria “luce” e quella altrui ha permesso anche a chi scrive di lasciarsi affascinare dalla dovizia e dalla  passione senza pari con le quali gli autori dei libri segnalati hanno provato a raccogliere le storie più incredibili della 24 Ore. Nel caso del primo libro questo è stato possibile grazie all’avvistamento del titolo da parte di un’amica nella libreria sotto la sua casa a Parigi, mentre l’altro mi è stato regalato da un amico col quale ho potuto condividere l’esperienza di Le Mans. Ad entrambi la mia grande riconoscenza. 

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