Eccomi – Le piccole cose della vita quotidiana

Ho cominciato a leggere Eccomi (di cui ci ha già parlato Luisa) di Jonathan Safran Foer in terra francese, un po’ spaesata e senza Wi-Fi. Appena ho cominciato, non riuscivo a smettere di leggere. Le ultime pagine le ho lette piangendo perché parla di una cosa che mi sta molto a cuore e che preferisco non dire per evitare gli spoiler.

Tutto comincia con Julia e Jacob, genitori di tre figli, convocati a scuola da parte del rabbino perché Sam, il loro primogenito, a quanto pare, ha scritto delle parole molto pesanti su un foglio di carta. Il rabbino, per questo motivo, non vuole che Sam faccia il suo Bar mitzvah. Soprattutto perché sembra che lui stia mentendo: ha detto, infatti, di non essere stato lui a scrivere quelle parole. Fin da subito ci ritroviamo in un’atmosfera familiare. Un’atmosfera pesante e difficile da sopportare perché si capisce immediatamente che qualcosa tra Julia e Jacob non va. Julia ritiene il figlio colpevole, mentre dall’altro lato Jacob crede che suo figlio non abbia potuto scrivere parole così cattive. La loro diversa presa di posizione non è accettata da Julia che non vuole fare la parte della cattiva mentre guarda il marito che vuole riporre fiducia nel figlio e fare il cosiddetto amicone.

«Non esiste che uno di noi gli crede e l’altro no, non va bene.»

«Allora credigli.»

«È chiaro che è stato lui.»

«Credigli lo stesso. Siamo i suoi genitori.»

«Giusto. E bisogna che gli insegniamo che le azioni hanno delle conseguenze.»

«Credergli è più importante».

Il differente modo di vivere la genitorialità ha la forza e la capacità di rovinare l’amore, portandolo al declino. Molti sono i passaggi in cui vengono ricordati aneddoti del passato, della vita felice di Jacob e Julia prima di un evento che li cambiasse per sempre. E il lettore è rapito da questa storia, entra in empatia con Julia e Jacob come se fossero i vicini di casa che conosce da sempre. Se prima Jacob aveva senso per Julia e viceversa, adesso questo senso non si trova più, non si percepisce più.

foer

Come aveva fatto la somma di tutta la presenza a tradursi in assenza?

Eccomi non è un romanzo felice. Durante la presentazione del libro al Festival della Letteratura di Mantova, Marcello Fois, che ha dialogato con Foer, ha proprio tirato in ballo Tolstoj e quel sottile legame con l’incipit di Anna Karenina: «Tutte le famiglie felici sono simili le une alle altre; ogni famiglia infelice è infelice a modo suo»:

Tutte le mattine felici si assomigliano, esattamente come tutte le mattine infelici, ed è questo, in fondo a renderle così profondamente infelici: la sensazione che quest’infelicità sia già accaduta prima, che gli sforzi per evitarla al massimo la rafforzino e probabilmente non facciano che esacerbarla, che l’universo per qualche inconcepibile, inutile e ingiusta ragione, cospiri contro l’innocente sequenza di vestiti, colazione, denti e ciuffi sparati, zaini, scarpe, giacche, saluti.

Inoltre, Foer, durante l’incontro a Mantova, ha evidenziato che, in questo romanzo, l’attenzione maggiore è data ai dettagli, alle piccole cose della vita quotidiana.

«C’è una scena in cui Julia e Jacob si lavano i denti. Non succede nient’altro». (Frase di Foer a Mantova)

Senza contare che la disillusione dei propri sogni continua a ridurre in più parti il sentimento d’amore o quello che resta: Jacob scrive di nascosto una serie televisiva sulla sua famiglia, Julia, che è un architetto, continua a sognare di possedere una casa tutta per sé, si vergogna di questo egoismo, ma il marito, i figli, il cane, la casa, un lavoro che non la soddisfa a pieno, la fanno sentire meno in colpa. Uno scrittore e un architetto che sognano e pensano a come sarebbe stato se. Se Sam, anni prima, non avesse avuto un incidente a casa, tutto sarebbe stato diverso? Due persone che si conoscevano a memoria, adesso non riescono più a ritrovarsi. In fondo, tutti noi desideriamo essere cosa non siamo, è quel bovarismo insito in ognuno di noi. Passiamo gran parte della nostra vita a fantasticare su una casa in cui non abiteremo mai, proprio come fa Julia, per salvarsi dalla monotonia della sua storia d’amore e dal suo fallimento sia nel campo lavorativo che in quello familiare. Alla fine, tra Julia e Jacob, resta solo l’affetto, nulla più.

Viviamo nel mondo, pensò Jacob. Quel pensiero sembrava sempre fare capolino, di solito contrapposto alla parola idealmente. Idealmente andremmo ogni fine settimana nei ricoveri per i senzatetto a preparare panini e impareremmo a suonare degli strumenti in tarda età e smetteremmo di pensare alla mezza età come a un’età tarda e faremmo uso di qualche risorsa mentale oltre a Google e di qualche risorsa fisica oltre ad Amazon ed elimineremmo in modo permanente la pasta ai formaggi e dedicheremmo almeno un quarto del tempo e dell’attenzione che meritano ai parenti che stanno invecchiando e non metteremmo mai un bambino di fronte a uno schermo. Ma noi viviamo nel mondo e nel mondo ci sono gli allenamenti di calcio e la logopedista e la spesa da fare e i compiti e mantenere un livello di pulizia accettabile in casa e i soldi e gli umori e la fatica e poi siamo solo esseri umani e gli esseri umani non solo hanno bisogno ma meritano cose come un po’ di tempo con un caffè e il giornale, vedere gli amici e concedersi una pausa, quindi per quanto sia bella quell’idea, non c’è modo di realizzarla. Dovremmo, ma non possiamo.

Eccomi è un romanzo davvero lungo (più di seicento pagine), ma Foer ha deciso di focalizzarsi sul dialogo. È una scelta che ammiro tanto, soprattutto perché, ultimamente, il dialogo vis à vis sembra essere sparito dalla circolazione. Di dialogo ne ha parlato Matteo Bussola su Repubblica in un articolo molto interessante dal titolo Ricominciamo a chiederci semplicemente «Come va?»:

Il nome WhatsApp è stato scelto per la sua assonanza con What’s up?, espressione colloquiale usata quando si incontra un amico al quale si vuole chiedere come sta, come vanno le cose, come se la passa, che novità ci sono. È un’espressione che denota interesse e affettività, la voglia di accorciare le distanze con qualcuno. È paradossale che nella sua declinazione tecnologica diventi sempre più spesso, invece, sinonimo di prevaricazione, esclusione, polemica. Contribuendo di fatto ad alimentare proprio quelle distanze che ogni tipo di comunicazione dovrebbe contribuire ad annullare. Stiamoci attenti.

Eccomi è un romanzo in cui uno dei protagonisti indiscussi è la solitudine: ogni personaggio la vive in maniera differente e queste solitudini, insieme, si scontrano ripetutamente, distruggendo un tassello volta per volta. Tutto il contrario di quello che, invece, vorrebbe rappresentare il titolo del romanzo.

Eccomi (Here I am nella versione originale n.d.a.) sono le parole pronunciate da Abramo, nella Genesi, quando Dio gli chiede di sacrificare suo figlio Isacco.

«Dunque, la mia parashah oggi è Vayyera: E apparve. È una delle porzioni di Torah più conosciute e più studiate e quanto mi hanno detto è un grande onore leggerla. […] Okay…Dio mette alla prova Abramo e il testo dice Qualche tempo dopo, Dio mise alla prova Abramo. Gli disse: ‘Abramo!’ ‘ Eccomi’ rispose Abramo. La maggior parte della gente dà per scontato che la prova sia che Dio chiede ad Abramo di sacrificare suo figlio Isacco. Ma secondo me si potrebbe anche leggere che la prova è quando Dio lo chiama. Abramo non dice ‘Che cosa vuoi?’ Non dice ‘Sì?’ Risponde con una dichiarazione ‘Eccomi’. […] La portzione di Torah per il mio Bat Mitzvah tocca molti temi, ma secondo me il più importante è la riflessione su quali sono le persone per cui noi siamo completamente presenti e come questo, più di qualunque altra cosa, definisca la nostra identità. Il mio bisnonno, che ho già nominato prima, ha chiesto aiuto. Non vuole andare alla Casa ebraica. Ma nessuno in famiglia ha risposto: ‘Eccomi’. Hanno invece cercato di convincerlo che non sa qual è la cosa migliore per lui e che non sa neppure bene quello che vuole. Davvero, non hanno neppure cercato di convincerlo, gli hanno solo detto che cosa dovrà fare. Stamattina, alla scuola ebraica, mi è stata rivolta l’accusa di avere usato delle brutte parole. Non so neanche bene se ‘usato’ sia il termine giusto: fare un elenco non è certo usare qualcosa. Comunque, quando i miei genitori sono venuti a parlare con il rabbino Singer, non mi hanno detto ‘Eccoci’. Hanno chiesto: ‘Cos’hai fatto?’ Vorrei che mi avessero almeno concesso il beneficio del dubbio, perché me lo merito. Tutti quelli che mi conoscono sanno che faccio un casino di errori, ma sanno anche che sono una brava persona. Ma non è perché sono una brava persona che merito il beneficio del dubbio, è perché loro sono i miei genitori che avrebbero dovuto concedermelo. Anche se non mi credevano, avrebbero dovuto far finta di sì. Mio padre una volta mi ha raccontato che prima che io nascessi, quando l’unica prova della mia vita erano le ecografie, doveva credere in me. In altre parole, il fatto di nascere permette ai tuoi genitori di smettere di credere in te. Okay, grazie per essere venuti, adesso tutti fuori».

I personaggi non dicono «Eccomi», ma «Non eccomi». C’è questa scelta forzata di far fare il Bar Mitzvah a Sam, ma loro, per primi, hanno dimenticato l’essenza religiosa e, soprattutto, l’essenza della vita. Un romanzo che induce a riflettere, a fare un passo indietro e capire se noi siamo in grado di dire «Eccomi».

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