Erranze tra Gadda, Fenoglio e Céline (parte I)

«Un mattino, al risveglio da sogni inquieti, Gregor Samsa si trovò trasformato in un enorme insetto. Sdraiato nel letto sulla schiena dura come una corazza, bastava che alzasse un po’ la testa per vedersi il ventre convesso, bruniccio, spartito da solchi arcuati; in cima al ventre la coperta, sul punto di scivolare per terra, si reggeva a malapena. Davanti agli occhi gli si agitavano le gambe, molto più numerose di prima, ma di una sottigliezza desolante.»

INSETTI CORAZZATI CON ZAMPE SOTTILI
Gregor Samsa si sveglia una mattina, nel grigio torpore di incubi sfumanti, tramutato in un enorme insetto. Quest’immagine sintetizza la ferina determinazione di Johnny, la pazza esasperazione di Gonzalo e il ghigno sperduto di Bardamu nella notte, nei tre romanzi che qui prendo in esame Il partigiano Johnny, La cognizione del dolore e Voyage au bout de la nuit. “La schiena dura come una corazza” si è formata a tutti a tre, per reggere l’enorme peso della guerra, degli attacchi alle spalle, nell’immensa solitudine del mondo novecentesco attorcigliato su sé stesso, che spruzza attorno a sé le anime come uno straccio sporco. Bardamu pensa alle sue povere trippe ogni volta che si parla della difesa della patria; Johnny striscia nel fango delle colline nascondendosi tra i cespugli, l’erba alta o la neve, per impedire che una pallottola lo colpisca alle spalle. Gonzalo si costruisce una corazza di odio e di solitaria inadeguatezza, respingendo lontano da sé l’incomprensione ottusa dei contadini e il doloroso affetto della madre; nessuno verrà dopo di lui, a piangere sarà solo il Municipio di Pastrufazio per gli ottocento pesos della cassa di zinco. Questa coperta che si regge a stento sul grosso corpo sbigottito di Gregor Samsa, che scivola via annientando ogni apparenza e ogni tentativo di pudore scopre una realtà atroce, improvvisa e inspiegabile. Gregor Samsa stesso non sa nulla del suo corpo, non può comandarlo né comprenderlo. Le gambe sono troppo sottili, inutili, inutilizzabili: non c’è più nessun appoggio, anche gli strumenti più elementari, quelli che fanno parte del nostro corpo, sono diventati inaffidabili.
La perdita è totale, radicale, non si sa più nemmeno scendere dal letto. Gregor Samsa è solo, paralizzato, in una stanza asettica e surreale come quella di un ospedale o di un ospizio. Da dietro la porta trapelano voci con le quali non ci si può intendere né spiegare. La comunicazione è tagliata dalla porta chiusa a chiave e Gregor, per quanto si sforzi, emette solo suoni bestiali, non parla più la stessa lingua dei suoi famigliari; tuttavia, l’impossibilità del dialogo e della comprensione è data fondamentalmente dal fatto che quel che è successo non si può spiegare, tutto avviene e basta. Non ci sono giustificazioni, cause scatenanti e prologhi di introduzione o se ci sono non bastano. La metamorfosi è un dato di fatto, una realtà, seppur inspiegabile, preceduta solo da qualche confuso e sgradevole sogno notturno.
Da La Cognizione del dolore, Il partigiano Johnny e Voyage au bout de la nuit emerge un dato comune: l’assurdità, totale e crudelissima, dell’esistenza umana e è anche per questo che li ho amati. Nel caso specifico di Gonzalo si è prodotta in me quella che Hans Robert Jauss ha definito “identificazione simpatetica” (Federico Bertoni, Il testo a quattro mani. Per una teoria della letteratura) e se l’identificazione non è con il personaggio “ma con un personaggio in situazione” il fatto che io, lettrice nel 2015, mi identifichi con il protagonista de La cognizione del dolore ne dimostra l’attualità. Sempre urgente sarà infatti il tema centrale che accomuna i tre romanzi: il dolore dell’esistenza.
Scritte e ambientate nel Novecento, le tre opere presentano anche alcuni tratti peculiari di quest’epoca, che nella Storia è rimasta emblema di sofferenza e perdita di ogni riferimento, a causa delle due guerre. Con l’esplosione dei due conflitti mondiali, l’uomo non sa più chi è né cosa ci sta a fare su questa terra, gli vengono appioppate mansioni tanto sanguinarie quanto totalmente inutili e prive di senso. Ogni azione asetticamente letale simboleggia la condizione essenziale di ognuno, la catena di uccisioni, dolori e morti che si chiude su se stessa come un serpente divoratore dell’universo. Ognuno è il grilletto, la molla o il pistone sporco di accecante fuliggine del meccanismo impazzito dell’autodistruzione.
Così ne Il partigiano Johnny: «Sentiva intorno a sé, ed in sé, una precarietà, una miseria per cui tutto lui era sottilizzato, depauperato, spaventosamente ridotto rispetto ad una normale dimensione umana.»

09-Gadda

I FRAMMENTI DI BABELE. Appunti sulla lingua
Se leggiamo Fenoglio, Gadda e Céline una delle prime impressioni che abbiamo è quella della frammentarietà. Frammentarietà intesa sia come linea stilistica sia come visione del mondo. Dal punto di vista stilistico e linguistico, il rifiuto dell’autorità della tradizione ottocentesca e dei termini da dizionario ci mette davanti un’infinità di strutture sintattiche, parole nuove, ritmi, parlate… I tre autori sono accomunati da un impianto di base che assimila e ricalca il linguaggio gergale e colloquiale, con picchi di lirismo che creano discontinuità nello stile e nel ritmo della narrazione.
In Gadda la lingua del Sérruchon si mescola con parole latine, inglesi, francesi e efficacissimi neologismi dello stesso autore. C’è un’alternanza di dialetti italiani che svela la reale fonte d’ispirazione del Maradagàl; il colonnello Di Pascuale, per esempio, parla una via di mezzo tra l’italiano e il dialetto napoletano. A differenza di Quer pasticciaccio brutto de via Merulana, dove prevale la parlata romana, la lingua de La Cognizione del dolore si screzia di mille differenti tonalità, proiettando il romanzo in una dimensione universale. Inaspettate onomatopee popolano il testo di suoni e rumori oltre che di parole. La straordinaria potenza creatrice della lingua arriva a dire cose che altrimenti non si sarebbero potute esprimere. Non c’erano parole in italiano che significassero “ciaccoloso”,”rimpastocchiare”, “pillaccherosa”, “sparnazzò” e così via e i sinonimi avrebbero detto altro, avrebbero lasciato nella nebbia dell’impronunciabile e dell’indefinito tutto questo mondo. La complessità della lingua di Gadda non è mai fine a se stessa, non è mai snobismo, è una complessità necessaria, indispensabile, primitiva nel suo istinto creatore. La punteggiatura contribuisce a estendere la gamma del comunicabile: nuovo spazio è dato ai silenzi, alle esitazioni, ai dubbi, all’incespicare… Gadda usa quattro puntini di sospensione anziché tre, fa un uso inconsueto del punto e virgola e dei due punti impiegandoli per mimare il parlato o il pensiero in una forma che abbandona la vetusta corazza dello stile letterario. Il parlare della gente in Gadda è interrotto, storpio, titubante, lascia spazio e viene sommerso dai fiati e dal grattarsi, dai deittici muti e ebeti dell’azione. Il punto di vista coincide di fatto sempre con quello di Gonzalo, che interiorizza quello dei contadini per farne una caricatura, portandolo all’estremo, stirandolo fino a spezzare la giostra di barocca ridicolaggine di tutti. Anche quando in apparenza sembra esserci un narratore esterno ci accorgiamo che di fatto egli vede, commenta e riflette come farebbe Gonzalo. Gadda inoltre si troverà spesso a lottare contro “[…] il peso di quell’irrefrenabile spinta autobiografica, di quell’incontenibile espansione dell’io nella scrittura che si manifesterà, più o meno repressa e dissimulata, in quasi tutta la sua opera”, citando Federico Bertoni, ne La verità sospetta. Gadda e l’invenzione della realtà. Il parlato e il pensato, nel testo, non sono né del tutto letterari, nel senso deteriore del termine, né ligi al realismo, ma lanciati nello spazio della pagina per sondare le nuove, necessarie, galassie del dicibile. Alla tensione verso l’universalità babelica del linguaggio si accompagna l’universalità dell’argomento: il male, il dolore sterminato e inutile di cui Gonzalo acquista cognizione nel romanzo. George Steiner, in Vere presenze, afferma: “Ogni lingua esprime il mondo a modo suo. Ogni lingua edifica mondi e contro-mondi a sua maniera.” La lingua di Gadda, riprendendo le parole di Steiner, crea un mondo che solo con quelle parole poteva essere creato, la sperimentazione apre nuovi orizzonti comunicativi. Le costanti riprese dei campi semantici della bassezza, della sporcizia e della miseria ci mostrano il mondo attraverso una lente particolare; sta a ciascun lettore giudicare se questa lente sia molto sporca o molto potente, personalmente opto per la seconda ipotesi. Il denaro, le campane, le pere, i polli e la villa tornano ossessivamente, turbinano senza sosta; questi refrains interiorizzano la narrazione e la rendono circolare in quanto costellata di elementi ripetuti, come se la vicenda fosse ripensata da Gonzalo, rinarrata all’infinito attraverso il suo filtro. La materia del romanzo non è una storia ma una storia (o versione) di quella storia che crea un raffinato e licenzioso gioco meta-letterario. L’accento non è posto sui fatti ma sulla narrazione dei fatti; l’assassino della madre non viene svelato, il fine non è scoprire il colpevole dell’omicidio.
L’alternanza degli stili caratterizza tutti e tre i romanzi. In Voyage au bout de la nuit, però, la variazione è meno marcata. Lo stile è per lo più vicino al parlato, gergale, il ritmo è svelto, asciutto, sbeffeggiante ogni possibilità di lirismo. L’ironia permea tutto il romanzo, tiene il protagonista sospeso sopra il terreno, ma in basso, come su una fiacca mongolfiera capace di alzarsi solo qualche metro sopra le teste degli altri uomini. Questo volo rasente terra è un gioco pericoloso, ogni tanto il pallone si sgonfia e Bardamu cade giù. Talvolta egli precipita con la faccia nel fango, scontrandosi con la disperante realtà, talvolta affonda in una delle tante buche che si aprono verso la morte e il terrore e allora egli scende ancora più giù degli altri, attorno a sé vede solo un’infinita, nerissima notte da cui non riesce a riemergere.
In Fenoglio la lingua è cicatrizzante. Parole estranee colpiscono il testo come proiettili, forandolo e facendolo sanguinare, accanto a esse parole stantie tendono a smagliare il tessuto, a gonfiarlo o a raggrinzirlo, altre emergono come infezioni, si arrossano, bruciano, espellono secrezioni. La pagina scritta in Fenoglio è come pelle, ustionata, lacerata, sanguinante, purulenta, ispida, bagnata, irregolare. La lingua interviene per rimarginare le ferite, cucire insieme le parole, livellare i solchi, creare croste attorno alla carne viva. Ne Il partigiano Johnny l’italiano è butterato da frammenti in inglese, in francese e in dialetto. Sono moltissime le parole inventate da Fenoglio, spesso ibridando due lingue o adattandone una alla sintassi di un’altra. L’inglese è la seconda lingua del romanzo, è la lingua in cui Johnny pensa, soprattutto nella prima parte del libro, con cui legge il mondo, accostando il reale al turbinio di citazioni poetiche sempre presente nella sua testa. Quest’inglese fluido e invadente è il marchio della cultura di Johnny (all’inizio del romanzo Johnny legge Bunyan, Marlowe e Browning “[…] ma senza sollievo, con un’irosa sensazione di peggioramento […]”) e della sua origine borghese (anche qui come ne La cognizione del dolore c’è una “villetta” “stupida e pretenziosa”). Man a mano che Johnny conduce la sua vita da partigiano, prima con i “rossi” poi con gli “azzurri”, l’inglese se ne va dalla sua testa, accompagnato dall’aoristo dei verbi greci. La parola in Fenoglio costruisce, dà forma e vita a tutto. Nelle parole sono racchiusi la verità e il senso delle cose.
«- Questo è quel che oggi si chiama un partigiano- […] Ma tutti erano intenti, ognuno per suo conto, a pesare nella sua aerea sospensione quella nuova parola, nuova nell’acquisizione italiana, così tremenda e splendida nell’aria dorata.»
E tremendi e splendidi saranno i partigiani che prenderanno vita dalla penna di Fenoglio.

LA PUZZA (O L’INSOPPORTABILE FETORE DELLA SOLITUDINE)
Tra Gadda e Céline la letteratura si estende come un’infinita tessitura di rimandi; Gadda crea a partire esplicitamente da Céline e poi, se seguiamo Borges, Gadda sta prima e dopo Céline nella cronologia circolare delle opere. Il primo grido che ho sentito affacciandomi ai tre romanzi è stato quella della solitudine, nel pozzo buio e echeggiante delle voci. La solitudine di Gonzalo è immensa: con la madre vige un rapporto di violenta tenerezza e di estrema lontananza a scopo difensivo, il fratello morto in guerra è un’assenza costante; la sera dell’uccisione della madre si trova sul tavolo di Gonzalo “una fotografia del fratello di lui, ragazzo dal volto sorridente, dopo tant’anni!”. Il padre è morto e il suo ritratto calpestato, come ricordo rimangono le sbatacchianti campane. Gonzalo è incompatibile con “la gente”, il suo odio segue un rifiuto da parte della comunità:
«[…] s’era veduto cacciare, come fosse una belva, dalla loro carità inferocita, di uomini: di consorzio, di mille. Egli era uno.»
La sfiducia, il sospetto e la denigrazione grottesca sono reciproci: il medico, recandosi alla villa, ripassa mentalmente tutte le più assurde dicerie sulla pazza mostruosità di Gonzalo calpestatore di cornici e divoratore di baffuti scorpioni marini.
Alla consapevolezza di una superiorità, mentale, intellettuale e morale (Gonzalo scaglia il suo disprezzo verso i parassiti della società, gli approfittatori che impediscono ai meritevoli di beneficiare dei sussidi dello stato) si accompagna sempre un profondo senso d’inadeguatezza, molto simile a quello che si trova nei romanzi di Fenoglio e Céline. Il superiore livello d’istruzione e l’origine borghese impediscono a Johnny di amalgamarsi con i “rossi”, egli anela a trasferirsi tra gli “azzurri”; Bardamu rimane sempre un “non assimilato” rispetto agli altri, non tanto per un senso di superiorità (egli prova semmai inferiorità) ma per l’incapacità di credere fino in fondo a quell’orrido teatrino che è il mondo. Ferdinand non sa recitare la sua parte, proprio come uno che capiti per sbaglio su un palco nel bel mezzo di una rappresentazione.
La solitudine di Bardamu non è compatta come quella di Gonzalo, viene interrotta da occasionali amicizie e amori che si fanno e si disfano nel corso delle sue continue peregrinazioni nella notte del mondo. L’unica figura sempre presente è Stevenson. Questo ambiguo personaggio sembra il doppio di Bardamu, il suo alter ego forte e convinto, capace di morire, mentre Bardamu (più adattato e quindi vincente sul piano della sopravvivenza) resta in vita. A differenza di Gonzalo e Johnny, che sembrano provare un generale disinteresse e qualche repulsione verso le donne, Bardamu le ricerca, le desidera, non tanto per realizzare un amore idilliaco ma per una sorta di necessità. Le ragazze raggiungono gli stessi picchi di ebete cattiveria e di ridicola freddezza degli uomini, non c’è amore in loro, né affetto, e Bardamu non fa che arraffare quello che può e scappare via, come un mendicante o un ladro. L’unica che si staglia nella massa è Molly, la prostituta conosciuta in America. Anche con Molly però il rapporto viene interrotto, è Bardamu stesso a lasciarla per tornare in Europa; nessuna relazione in definitiva è destinata a durare.
La gente è per lo più esaminata sotto il profilo delle puzze e della sporcizia. Ne La cognizione del dolore la gente invade e viola la villa e dunque la madre:
«La turpe invasione della folla…. Gli zoccoli, i piedi: nella casa che avrebbe dovuto esser sua…. I calcagni color fianta, i diti, divisibili per 10, con le unghie…. e la piscia del cane vile, pulcioso […]»
Bardamu si sposta da un capo all’altro del mondo tra una massa di degenerati e il suo destino di stare in mezzo al popolo sembra essere segnato per sempre, tant’è che anche come medico curerà solo i poveri. L’umanità non è altro che un mucchio di stipati “sacs à larves.” La gente è per lo più cenciosa e misera, sia nelle tasche che nell’animo. I poveri se ne approfittano, sfruttano Bardamu che fatica a farsi pagare per le sue visite mediche e alla fine de La cognizione del dolore qualcuno ucciderà la madre che ha sempre fatto la carità. Anche i protagonisti sono poveri (come Bardamu) o vivono con il minimo indispensabile come sintomo di avarizia (come Gonzalo e la madre). La fissazione per il denaro si accompagna sempre alla miseria e in alcuni casi alla fame vera e propria, come nel caso di Ferdinand al suo arrivo in America. Voyage au bout de la nuit è disseminato di lapidarie riflessioni sulla miseria.
«Il existe pour le pauvre en ce monde deux grandes manières de crever, soit par l’indifférence absolue de vos semblables en temps de paix, ou par la passion homicide des mêmes en la guerre venue.»
La gente è cattiva, approfittatrice, assassina; Stevenson, in quanto piena realizzazione del potenziale di Bardamu, è un assassino nato e è ucciso dalla donna che pretendeva di amarlo.
Molto di ciò che in Gadda e in Céline vale per la gente in generale si applica ai fascisti di Fenoglio. “E tutti speravano, speravano, giulivi.”, di Gadda, è molto simile a “[…] tutti con sorrisi di esplodente fiducia, con un risultato visivo verminoso, apertamente, deliberatamente fratricida.” di Fenoglio. Tuttavia, ne Il partigiano Johnny non c’è manicheismo assoluto, anche i partigiani sanno essere cattivi. La condizione essenziale di Johnny, come anche di Gonzalo e Bardamu, è la solitudine. Johnny combatte dalla parte dei partigiani, ma davanti alla battaglia e alla morte è come se tutti fossero in fin dei conti soli. L’amicizia con Tito finisce a causa della morte di quest’ultimo e quella con Pierre va sfumando. È come se la natura stessa di Johnny lo portasse al ritiro solitario sulle colline, unici compagni costanti la pioggia e il freddo.

BIBLIOGRAFIA

FONTI PRIMARIE
Céline, Louis-Ferdinand, Voyage au bout de la nuit, Paris, Gallimard, 1962.
Gadda, Carlo Emilio, La cognizione del dolore, Milano, Garzanti, 2011.
Id., Quer pasticciaccio brutto de via Merulana, Roma, La Biblioteca di Repubblica, 2002.
Fenoglio, Beppe, Il partigiano Johnny, Torino, Einaudi, 2005.
Kafka, Franz La metamorfosi e altri racconti, Torino, Einaudi, 1976.

FONTI SECONDARIE
Bertoni, Federico, Il testo a quattro mani. Per una teoria della letteratura, Scandicci: La nuova Italia, 1996.
Id., La verità sospetta. Gadda e l’invenzione della realtà, Torino, Einaudi, 2001.
Steiner, George, Vere presenze, Milano, Garzanti, 1999.

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