Fiat-Chrysler, oggi sposi (domani chissà)

Il 2014 si è aperto con due dati riguardanti il mercato automobilistico di casa nostra: il primo è lo stesso da sei anni, ossia la costante flessione delle vendite di auto in Italia ed Europa, che con l’eccezione del dicembre scorso ha regalato anche nel 2013 un segno meno. L’altro, decisamente più eclatante, è che il gruppo Fiat, dopo le note vicende degli ultimi anni (delle quali ci siamo occupati anche qui nel blog), ha definitivamente acquisito la totalità del gruppo statunitense Chrysler per 3,65 miliardi di euro, diventando, di fatto, uno dei colossi dell’automotive a livello mondiale.

Come tutte le mosse giocate su una scacchiera che vede contrapposti interessi considerevoli, da quelli degli speculatori finanziari a quelli del lavoratore in cassa integrazione, senza trascurare il prodotto e l’insieme di industrie che orbitano intorno alla sua fabbricazione come indotto, quella dell’ad di Fiat, Sergio Marchionne, è stata una decisione tanto applaudita quanto criticata.

Oltre al profilo, per così dire, istituzionale dell’acquisizione di un partner strategico da parte di un altro gruppo industriale, cosa si prospetta in realtà a questo punto per l’auto italiana (e non solo)?

Per cogliere un quadro esaustivo ci si può affidare, come dei buoni artigiani, alla materia prima che si ha in mano, fatta di numeri di vendita, piani industriali e dichiarazioni, cercando, attraverso uno sguardo proiettato in avanti, di intarsiarne i contorni ed intuirne le possibili, future, sembianze.

Tuttavia, prima di ogni considerazione, è necessario un passo indietro: l’accordo raggiunto e la sua complessità. Quello firmato da Marchionne con i non nuovi soci di Detroit è un patto di acquisto delle quote (di maggioranza Chrysler), possedute fino a ieri -tramite un fondo denominato Veba- dalla Uaw, l’unione sindacale dei metalmeccanici statunitensi, nei confronti della quale Fiat, non senza inciampi, aveva iniziato una sorta di contro-scalata nell’acquisto di azioni, dopo la mini-fusione del 2009 (l’avevamo raccontato qui). Fin dall’inizio della complessa operazione di acquisizione partita da Torino, Marchionne non ha mai nascosto la sua intenzione di portare a compimento una vera e propria “super fusione” dei marchi automobilistici già interni ai due gruppi, profilando quindi uno scenario simile alle altre realtà dominanti nel mercato auto globale come ad es. il gruppo Vw (che ne accoglie al suo interno più di dieci).

Ci sono, però, alcune caratteristiche di questa importante operazione economica che la differenziano non poco da quanto fino ad oggi si

La sede Chrysler a Auburn Hills

La sede Chrysler a Auburn Hills

era visto, lasciando al tempo stesso interrogativi aperti forieri di possibili entusiasmi come di non meno verosimili scetticismi. Primo aspetto curioso è l’eterogeneità stessa dei prodotti (e dei relativi brand), che nella nuova “galassia” Fiat-Chrysler spaziano dai mastodontici pick-up Dodge per veri ranger texani, alle artigianalissime ed esclusive Ferrari prodotte nella avanguardistica “officina”  di Maranello. Uno degli insegnamenti della moderna scienza economica, certo, è la possibilità di sfruttare per alcuni versi la “forza” di un marchio per trainarne altri in un gruppo commerciale, così come, sul lato pratico, di implementare il processo produttivo grazie allo scambio interno del c.d. know how, concretizzando un valore aggiunto di competenze essenziale per spuntarla sulla concorrenza.

Tuttavia, ci sono profili che sembrano un po’ stridere: intervistato da Ezio Mauro, Marchionne si è detto evidentemente entusiasta di aver realizzato un suo autentico sogno con l’acquisizione portata a termine, affermando estasiato la straordinarietà del nuovo scenario: “Abbiamo creato una cosa nuova. E da oggi il ragazzo americano che lavora in Chrysler quando vede una Ferrari per strada può dire: è nostra“. L’immagine racchiusa nelle parole dell’ad è quella di un grande slancio passionale ed emotivo rivolto al fatto di aver unito, attraverso un ideale ponte di Brooklyn transcontinentale, il fazzoletto di terra appenninica emiliana che gelosamente custodisce i segreti di bottega del Cavallino, simbolo di esclusività e punta di diamante della sportività motoristica di lusso, alle imponenti zone industriali della Motor City del Michigan. Allora la domanda, come diceva qualcuno, sorge spontanea: tralasciando marchi che viaggiano con segno più rappresentando una sorta di alta gioielleria del mercato con pochi eccellenti pezzi come le supercar di Maranello, che ne sarà delle grandi fabbriche Fiat, Alfa Romeo e Lancia?

Le idee di Marchionne in proposito sono granitiche: “Fiat andrà nella parte alta del mass market, con le famiglie Panda e Cinquecento, e uscirà dal segmento basso e intermedio. Lancia diventerà un marchio soltanto per il mercato italiano, nella linea Y. Come vede la vera scommessa è utilizzare tutta la rete industriale per produrre il nuovo sviluppo dell’Alfa, rilanciandola come eccellenza italiana“. Ecco allora che i primi scricchiolii di contraddizione a fronte del nuovo scenario di questa new industry iniziano a farsi sentire. Tra i tanti fumi di nebbia che si affacciano ad offuscare l’orizzonte, proviamo a dipanare solo gli spunti più macroscopici.

Siamo sicuri che fare uscire Fiat dal “mass market” sia una cosa strategica? L’interrogativo nasce semplicemente dal fatto che, fino a prova contraria, Fiat è un marchio che sul suddetto mercato di massa è nata, ha costruito le proprie radici, si è solidificata, irrobustita nel corso degli anni e, soprattutto, ha trovato in quel target il suo identificativo naturale. Volendo semplificare: chiunque pensi alla Fiat penserà molto più facilmente ad una vettura come la Punto (o meglio ancora al modello predecessore, la Uno), piuttosto che ad un modello di nicchia come la ottima Coupé degli anni 90 e la sua contemporanea Barchetta, auto potenti, più costose ed infatti mai più replicate.

Il dubbio non si attenua affatto, poi, leggendo come la fuoriuscita dal mass market, e anche dal segmento basso e intermedio (quello in cui Fiat va più forte da sempre, il c.d. segmento “B”), dovrebbe avvenire con “le famiglie Panda e 500“, vale a dire le automobili che per eccellenza compongono la gamma Fiat esattamente in quel segmento! In sostanza: perché uscire da un segmento di mercato in cui i miei numeri vanno più che bene (guardando ai modelli prodotti, esistono solo tre auto Fiat che nell’anno passato sono state in grado di superare le 50 mila unità vendute, e sono proprio 500, Panda e Punto)? Ma soprattutto: come pretendo di uscire da quel segmento producendo le stesse auto con cui occupo quella fascia di mercato (magari proponendo delle semplici “varianti”)?

Altro dilemma che si pone guardando al domani: Lancia esisterà solo in Italia e solo con la piccola Y. Perché relegare un marchio come Lancia ad una gamma qualitativamente e geograficamente monocorde? che senso può avere? Difficile immaginare che ci siano ragioni di occupazione, dal momento che negli stessi impianti dove si assembla la Y vengono comunque prodotte piattaforme condivise con modelli Fiat. Forse questo è davvero il suono delle campane a lutto per una casa automobilistica che non ha mai avuto numeri da capogiro proprio perché era conosciuta come marchio di lusso, fortissima nelle competizioni come l’eccellenza raggiunta nei rally, e con un patrimonio di aficionados ancora oggi radicatissimo e deluso dalla dissolvenza alla quale si è inteso relegarla? Del resto, già la precedente politica di produrre sotto il marchio Lancia dei modelli nati Chrysler aveva portato ben pochi frutti, verdetto sancito definitivamente dalle vendite (quasi flop) di modelli come la Voyager e la nuova Thema. Con maggiore realismo non era forse meglio evitare di spendere risorse per produrre vetture che hanno avviato Lancia al viale del tramonto e, semmai, indirizzare le stesse risorse alla progettazione di una sola vettura in grado di rispondere ai desideri dei clienti, tenendo alto il profilo della casa, come ad esempio una nuova Delta, così fortemente agoniata da moltissimi anche in nome della gloria sportiva del passato?

Proseguendo, un altro punto un po’oscuro. Sempre a Repubblica, Marchionne ha voluto affermare perentorio anche l’obiettivo di arrivo dei nuovi prodotti del gruppo, per poi “oracolare” in modo stregonesco su presunti uomini Fiat nascosti in luoghi simili alla famigerata Area 51, intenti a disegnare i modelli del clamoroso rilancio che verrà: uscendo dal mass market si punterà tutto “Nella fascia Premium, prodotti di alta qualità, con concorrenza ridotta, clienti più attenti, margini più larghi. In fondo abbiamo marchi fantastici e per definizione Premium, come l’Alfa Romeo e la Maserati. Perché non reinventarli? (…) in capannoni-fantasma, mimetizzati in giro per l’Italia, squadre di uomini nostri stanno preparando i nuovi modelli Alfa Romeo che annunceremo ad aprile e cambieranno l’immagine del marchio, riportandolo all’eccellenza assoluta“. Se le intenzioni sembrano le migliori, le mosse per attuarle lasciano non poche perplessità che fanno rimanere un po’attoniti e un po’smarriti, un po’ come quando si assaggia un nuovo gusto di gelato senza capire di cosa esattamente sappia. Prima di tutto: siamo sicuri che Alfa Romeo necessiti della cura prospettata dall’ad? Il cambiamento di immagine è così essenziale? Se sì, allora vuol dire che l’immagine di oggi non va bene, ma chi fu a voler connotare il marchio Alfa come una moderna e costosa costola Fiat se non lo stesso Marchionne?

L'Alfa Romeo 4C verrà commercializzata negli USA attraverso la rete vendita Maserati

L’Alfa Romeo 4C verrà commercializzata negli USA attraverso la rete vendita Maserati

Ma soprattutto: siamo sicuri che l’accostamento Alfa Romeo/Maserati sia una scommessa vincente? Maserati produce supercars sopra i centomila euro e rappresenta per definizione una sorta di “seconda scelta” Ferrari, condividendone le origini emiliane e parte della storia agonistica. Ma, nei fatti, ancora una volta, come accostare una Maserati ad un’Alfa, quando la prima è appannaggio di calciatori e facoltosi stranieri mentre la seconda è stata ridotta ormai a simbolo di una vecchia gloria che fu, nonché vettura simbolo delle forze dell’ordine? Alfa Romeo vanta una storia commerciale e sportiva di prim’ordine, ma dalla prima inclusione nell’orbita Fiat avvenuta vent’anni fa la sua produzione è stata caratterizzata dallo snaturamento costante di quello che proprio oggi Marchionne rivendica come “DNA Alfa”, dopo aver contribuito a farne perdere ogni traccia. C’è davvero bisogno di oscuri uomini mimetizzati in giro per il Paese per ridare forza ad un marchio di auto che, come Lancia, vanta un seguito di clienti fedeli (molti dei quali comunque persi) che già di per sé avrebbe reso necessario produrre qualcosa al passo coi tempi ma legato alle caratteristiche intrinseche e meno globalizzate del prodotto?Forse, però, i clienti USA questo non lo sanno, e sentendo nominare Alfa Romeo si affaccia alla loro mente il rombo dei bolidi del Biscione che dominavano gare epiche come la Targa Florio, e si riaccende in loro il fascino suggestivo dell’italianità motoristica. Attendiamo dunque il lancio dei nuovi rivoluzionari modelli, ma nell’attesa restiamo col timore che dalle matite dei disegnatori escano prodotti studiati più per l’altra sponda dell’Oceano che per la terra di nascita del (fu) blasonato marchio di Arese.

Ancora: il Wall Street Journal ha definito le linee guida della nuova strategia Marchionne chiamandole “priorità”. Forse questo termine è un primo spiraglio di luce nella nebbia dei punti di domanda. In effetti l’ad sembra aver profilato un piano strategico dove quello che si registra è un curioso distacco tra la realtà delle vendite e i sogni di gloria paventati dal CEO italo-svizzero. Come acutamente l’articolista del quotidiano osserva, numeri alla mano la situazione Fiat in settori strategici come quello delle auto medie è a dir poco sofferente: citando l’esempio della Bravo, diretta concorrente della fortunata Golf di casa VW, il giornalista del WSJ getta uno sguardo alle vendite europee notando lo scarto tra le 32 mila unità della prima e le 522 mila della seconda (fonte Global Insight, anno 2011). Quando, pertanto, lo stesso Marchionne sorvola su quel mass market senza il quale Fiat non esisterebbe, viene da chiedersi come mai le sue priorità siano quelle, ad esempio, di un nuovo nome da assegnare al gruppo e, parallelamente, quello della sede legale, sulla quale, secondo il quotidiano americano, l’ad avrebbe ironizzato, dicendo che lo spostamento della sede dall’Italia è un problema “emotivo” degli italiani, mentre dal suo punto di vista la cosa risulterebbe completamente priva di differenze, essendo lui un uomo che “vive in aereo“. Attenderemo anche in questo caso le prossime settimane (il 29 gennaio è previsto il cda con gli ordini del giorno relativi a denominazione e luogo della sede legale del nuovo gruppo), con un po’ di scetticismo sul fatto che anche semplicemente da un punto di vista di radicamento territoriale e forza del marchio, un gruppo guidato da Fiat possa avere indifferentemente sede ad HongKong, in Olanda (dove per ragioni di fiscalità agevolata è già stata spostata la holding di controllo dell’intero comparto Fiat Industrial), piuttosto che a Seattle o a Torino. Non sembra, a dire il vero, la stessa cosa, soprattutto per chi intende proporsi ai nuovi mercati puntando sul made in italy; e, forse, per la stessa ragione per la quale l’ad ritiene che “La capacità italiana di produrre sostanza e qualità, di inventare, di costruire è enormemente più apprezzata all’estero che da noi“, potrebbe dover coerentemente ammettere che rimanere in Italia avrebbe un significato simbolico (e non) apprezzabile. Tutto ciò a maggior ragione se si considera che la gamma Fiat è destinata a vivere dei soli derivati di Panda e 500 che, pur con le contraddizioni segnalate, secondo quanto ulteriormente affermato da Marchionne verranno prodotti esclusivamente in Italia: “A Melfi la 500 X e la piccola Jeep, a Pomigliano la Panda e forse una seconda vettura“. Il rischio è che di fronte alle parole entusiaste e lusinghiere, manchino i fatti, come il sindacato Fiom già ha denunciato. Chi vivrà vedrà.

Le questioni irrisolte che si affacciano man mano che si dipana lo scenario futuro sarebbero troppo numerose: il rapporto con gli

La versione cinque porte della Fiat 500 è tra i modelli previsti per il prossimo triennio

La versione cinque porte della Fiat 500 è tra i modelli previsti per il prossimo triennio

operai, cuore pulsante della realtà produttiva, che vede il programma di lavoro World Class Manufactoring vincente in Usa sulla scia delle teorie tayloriste ma fallito e abbandonato sul nascere qui col progetto Fabbrica Italia; nuovi modelli di auto Fiat di successo che non arriveranno mai come la nuova Multipla e la nuova Punto; mancanza di modelli in segmenti del tutto strategici come quello delle compact-wagon, dove tutti gli altri concorrenti mondiali inventano e si sperimentano; assenza completa di prospettive di investimento nelle auto ibride, che rappresentano ormai una realtà inevitabile e dove, magari ipotizzando un investimento con incentivi per l’utilizzo delle nuove tecnologie provenienti dall’Unione Europea, si sarebbe potuto dare un segnale forte a chi, come il colosso Toyota, ha portato nelle nostre case auto elettriche a prezzi di mercato sfidando tutti i marchi del vecchio continente, ecc.

Quindi, tirando le somme, si ritorna all’inizio del discorso, con quegli stessi interrogativi sul futuro.

Tra i tanti che hanno cercato, come si è fatto qui, di tracciare una linea guida per intuire l’avvenire di Fiat, c’è stato chi, come Jean-Baptiste Jacquin su Le Monde, con non poco intuito, ha rilevato come nelle strategie dell’ad Fiat si intraveda qualcosa che sa molto più di finanza e molto meno di industria, facendo notare come, a conti fatti, l’unica cosa eccellente che si può riscontrare al momento, non siano le strategie di mercato né il piano industriale che Fiat intende adottare, bensì soltanto le favorevolissime condizioni finanziarie di questo “matrimonio”, che ha fatto confluire nelle casse torinesi tanta liquidità e tanta rivalutazione dei titoli per gli azionisti. D’altronde, come l’attento cronista d’Oltralpe non manca di riportare, Marchionne stesso, nell’imminenza dell’accordo firmato, ha chiarito in modo limpido il piano d’azione intrapreso da Fiat: “Noi andremo dove si trova il denaro“.

E, forse, la soluzione dell’intricato rebus di dubbi sulle mosse presenti e future di Fiat è tutta qui.

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