Giorgio Agamben: la filologia e la vita

Giorgio Agamben è sicuramente tra i pensatori italiani più influenti e conosciuti a livello internazionale e, anche se all’interno dei nostri confini nazionali rimane pressoché sconosciuto alle masse. Già nel 1985, Adriano Sofri dopo un’intervista, lo definì come «un tipo strano, figlio di un proprietario di sale cinematografiche a Roma, che da ragazzo andava al cinema anche due volte al giorno, che a 22 anni ha interpretato l’apostolo Filippo nel Vangelo secondo Matteo di Pasolini, che si è poi laureato in legge con una tesi su Simone Weil e successivamente convertito alla filosofia partecipando a due seminari di Heidegger in Provenza. Nel mentre ha sviluppato una passione e una riconosciuta competenza in campo filologico, e per di più scrive libri difficili da capire che pochi leggono».
agamben_giorgio_1In effetti, proprio la frammentarietà e la complessità dei suoi scritti hanno sono stati di notevole ostacolo alla diffusione dei suoi testi, anche se oggi risulta uno degli autori più tradotti e risulta quasi impossibile fare i conti con concetti come la biopolitica, la vita e la sovranità senza fare i conti con la sua filosofia.
Il suo pensiero si snoda lungo un percorso che spazia dall’estetica alla politica, dalla letteratura alla filosofia e i suoi scritti si mostrano capaci di illuminare, con mirabili ricostruzioni storico-filosofiche, numerosi dispositivi che riguardano i luoghi della nostra esistenza comunitaria.
Laureatosi nel 1965 in giurisprudenza con una tesi su Simone Weil, inizia a frequentare a Roma altri scrittori, artisti e filosofi a lui contemporanei, iniziando dall’intensa amicizia con Elsa Morante all’incontro con Pasolini, per cui recitò una parte ne Il Vangelo secondo Matteo, passando per Italo Calvino, con il quale progetta una rivista. Agamben inizia a insegnare nelle università di Parigi e Londra, frequentando intellettuali come Jacques Derrida, Guy Debord, Ingeborg Bachmann, Jean-Luc Nancy e Jean-François Lyotard, in Italia ha insegnato nelle Università di Macerata, Verona e Venezia fino al 2009.
Buona parte delle sue opere sono caratterizzate da un legame profondo con il pensiero dell’ultimo Foucault e, per alcuni versi, costituiscono un’evoluzione delle ricerche intorno al biopotere, alle dinamiche della sovranità e al rapporto tra la vita e il diritto.

Ritratto di Giorgio Agamben su una parete della Demeure du Chaos a Saint-Romain-au-Mont-d'Or, Francia. Autore: Thierry Ehrmann.

Ritratto di Giorgio Agamben su una parete della Demeure du Chaos a Saint-Romain-au-Mont-d’Or, Francia. Autore: Thierry Ehrmann.

La prima volta che lessi Agamben mi sembrò una presa in giro, lo rilessi due volte. Mi ero appena iscritta al corso di filosofia, con più dubbi che certezze e di quelle duecento pagine ci capii poco o niente. Più sfogliavo le pagine di Homo sacer, e più però mi innamoravo di quel modo di scrivere come se i concetti fossero una sequenza di scatti singoli che poi assumono un’altra forma quando posti uno di fianco all’altro. Ogni singolo ragionamento è una ricostruzione storica lineare, che si lega alla successiva in modo semplice, ma che lascia disorientati in un discorso che unisce insieme narrazioni sull’uomo lupo e teorie giuridiche, analisi sulla Shoah e parabole kafkiane.
L’estrema versatilità del suo pensiero rivela però alla fine una ricostruzione coerente ma dissemina interrogativi che mirano alla riattivazione del pensiero e della ricerca su temi molto concreti: come si manifestano nella nostra società i dispositivi biopolitici? Cosa è stato Auschwitz? Perchè alcune vite sembrano avere più valore di altre?

I filosofi, come i poeti, sono i custodi della lingua e questo è un compito politico, soprattutto in un’epoca che confonde e falsifica il significato delle parole

L’unico modo che Agamben usa per intensificare il presente è quello di dirigere lo sguardo al passato remoto e applica questo metodo fin dalle sue prime opere. La filologia è stata certamente una delle essenze della sua ricerca: la lingua, per lui, è il mezzo della verità di cui sono custodi poeti e filosofi e la ricerca filologica è l’unico medium in grado di contrastare la falsificazione delle parole, spesso in atto nella nostra epoca.
Il linguaggio e la parola sono, infatti, i nuclei centrali delle sue prime opere: in Stanze. La parola e il fantasma nella cultura occidentale, ricostruisce la storia della poesia europea attraverso attraverso un’originale rilettura di alcune poesie che sono all’origine della nostra storia letteraria; in Il sacramento del linguaggio. Archeologia del giuramento, ci mostra l’importanza del giuramento come mezzo che trasforma il linguaggio in una potenza specifica, ovvero l’atto.
Fino al 1995 le sue opere vennero spesso considerate come un insieme frammentato difficile da ricondurre a una linea di pensiero coerente, ma con la pubblicazione di Homo sacer. Il potere sovrano e la nuda vita, diviene evidente come queste siano state il preludio di una solida filosofia che tocca tutti i campi del sapere.

317qfpMTl6L._SX287_BO1,204,203,200_Con Homo sacer, inizia una serie di scritti dell’autore tutti concatenati e legati dal filo conduttore di una ricerca su questioni teoretiche e astratte, affrontate con un metodo storico che procede per paradigmi e applicate all’analisi di fatti concreti. Dopo il primo libro, Homo sacer si è articolato in altri volumi che corrispondono ad altrettante sezioni scritte e pubblicate non rispettando però l’ideale sequenza numerica del progetto. A Stato di eccezione (1995), Quel che resta di Auschwitz (1998), Il Regno e la Gloria (2007), Il sacramento del linguaggio (2008), ora fanno seguito Altissima povertà (2011), Opus Dei (2012), L’uso dei corpi (2014) e Stasis (2015).
Nel 1995, anno di pubblicazione del primo volume, probabilmente Agamben non aveva idea dell’immensa fortuna a cui sarebbe andato incontro il suo concetto di nuda vita, ovvero la vita in quanto pura esistenza, che costituisce il residuo o il fondamento dell’esistenza umana quando viene spogliata da ogni attributo che non sia puramente biologico. Questo grado zero della vita è un concetto che il filosofo prende in prestito da Walter Benjamin, e che gli consente di tracciare un’analisi della doppia struttura della vita dell’uomo: da un lato la vita con le sue esigenze biologiche, dall’altro la politicità dell’uomo che è il valore aggiunto della “buona vita” aristotelica. La frattura e la separazione tra questi due aspetti produce un concetto limite, quello dell’homo sacer, ovvero un’esistenza uccidibile senza subire condanna in quanto non soggetta né al diritto degli uomini, né a quello divino, un’esistenza biologica spogliata di tutto il resto. La stessa esistenza che è perennemente sottoposta all’esercizio dei dispositivi di potere e che è l’oggetto delle pratiche biopolitiche.
Attraverso la ricostruzione storica dell’homo sacer, Agamben tenta di dare risposta al perché siano stati possibili i campi di sterminio, la ex Jugoslavia, lo sterminio di massa, l’eutanasia e tutte le realtà senza più distinzione tra corpo politico e corpo biologico. La vita biologica è arrivata progressivamente ad occupare la scena politica del contemporaneo. Essa è nuda e indifesa davanti al potere.
Le riflessioni di Agamben non rimangono però confinate dentro l’analisi storico-filosofica, ma si aprono al presente e sono un tentativo di ripensare le categorie fondamentali della nostra esistenza, dai diritti umani al rapporto con lo straniero, passando per la democrazia e la cittadinanza.
Se si trova la pazienza necessaria per affrontare le prime pagine che possono risultare ingarbugliate e apparentemente senza coesione, ci si ritroverà a rimangiarsi i facili entusiasmi per l’eutanasia e la genetica, ad accantonare l’orrore dei lager per capire la razionalità estrema che li ha resi possibili e ad accettare l’idea che c’è sempre qualcuno o qualcosa stabilisce quale sia la “vita degna di essere vissuta”.

 

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