Globalizzazione e letteratura

Vorrei proporre una riflessione partendo da una discussione che si è alimentata qualche anno fa in calce a un articolo pubblicato sul blog di Loredana Lipperini, Lipperatura. La conduttrice del famoso programma radio Fahrenheit proponeva un dialogo tra Gianni Celati e Luca Sebastiani contenuto nel libro Conversazioni del vento volatore.

Celati spesso si è espresso in termini apocalittici sullo stato dell’editoria e della letteratura italiana contemporanea (per citare un altro caso si può far riferimento alle risposte da lui date al questionario La responsabilità dell’autore, diffuso da Nazione Indiana), ma solo qui lo fa diffondendosi e usando argomentazioni non sbrigative e condivisibili. Celati tra le altre cose lamenta la smemoratezza degli scrittori italiani. Cita Tondelli e il suo Altri Libertini, caso in cui con la lingua italiana farebbe il verso di quella americana: «La non-lingua nasce da libri che imitano le imitazioni di imitazioni di altri libri, soprattutto romanzi americani». La «cancellazione della memoria» ad opera degli odierni scrittori, dice, riguarda la tradizione dell’arte verbale italiana, che va da Dante, Petrarca e Boccaccio, fino ad Anna Maria Ortese e Calvino, passando per Ariosto, Leopardi, Tozzi, Delfini, Campana, Gadda, Landolfi: qui si producono per Celati la specificità e il vertice della lingua italiana.

Nei commenti interviene Wu Ming 4, Federico Guglielmi, secondo cui la visuale di Celati è distorta, «Se si indossano certi occhiali si vedranno sempre le stesse cose e non se ne vedranno altre»; in questo senso si esprime anche Lipperini all’inizio dell’articolo, sospettando che l’intervistato potrebbe fare come altri che «parlano di ciò che non conoscono» (curioso che anche Paolo Nori in una recensione al libro di Celati lamentasse, tra le molte lodi, le troppe generalizzazioni sull’odierna letteratura italiana). In seguito risponde Guglielmo Pispisa, dicendo che anche questa «non-lingua» è l’espressione di un’identità. Sradicata forse e debitrice di un immaginario extra-territoriale – fa gli esempi delle serie televisive, delle anime giapponesi –, che si è verificato nella modernità soprattutto a causa della globalizzazione; purtuttavia rimane un’identità.

Per attenerci alla globalizzazione della letteratura, in Italia si nota recentemente uno sconfinamento soprattutto verso l’America e ancora una volta per la maggior parte verso gli Stati Uniti: gli autori che hanno maggior successo in patria sono i post-moderni David Foster Wallace e Thomas Pynchon. Basti guardare agli autori nati e cresciuti nella casa editrice più attiva dal punto di vista della narrativa giovanile, Minimum Fax.

Abbiamo però nel nostro recente passato un caso illustre che ha dimostrato allo stesso tempo una americanizzazione e un radicamento forte nei confronti dei propri parenti letterari. Cesare Pavese tradusse Melville, Dos Passos, Faulkner, Steinbeck, Anderson. Si occupò della famosa Antologia di Spoon River e alcuni suoi saggi hanno come centro la letteratura americana. Ma altrettanto importante è la sua profonda coscienza della letteratura italiana. In un saggio mirabile che precede La luna e i falò dell’edizione Einaudi, Gian Luigi Beccaria sostiene che per rifondere vitalità alla lingua quotidiana del Piemonte Pavese non abbia registrato e ripetuto i tratti linguistici della domestica regione, ma li abbia rielaborati mescolandoli con quelli di una lingua fortemente letteraria. Per mirare a una più profonda unità nazionale e per dare un’aria di sublimità alla sostanza del parlato Pavese si è rivolto a Dante, Leopardi, D’Annunzio, tra gli altri. Così «classicità e paese si ricongiungono», spiega Beccaria.

Pavese è stato sicuramente attratto dalla vitalità e naturalezza della lingua americana che si trova in molti romanzi (il padre di questo stile rapido e asciutto, colloquiale è Hemingway), ma invece che utilizzare l’«italo-americanese» – per usare un termine di Celati – per riprodurre quegli effetti in italiano è andato nel profondo della nostra lingua. Non solo la lingua del romanzo, ma anche il tema – il ritorno alle radici italiane dopo l’espatrio negli Stati Uniti del protagonista Anguilla – danno il senso di questa unione di lingue e identità. Per concludere, non dimentichiamoci che è sempre possibile un compromesso.

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