Goodbye FIAT (terza parte)

fonte: www.tg24.sky.it

Con il 2012 è arrivato, dunque, anche per Fiat, il momento di guardare il mondo con gli occhi della crisi, dei processi produttivi che cambiano, dei mercati che si trasformano e non perdonano più.

La condizione lavorativa degli operai, da un lato, avrebbe dovuto essere il punto forte di un’azienda che dopo essere sbarcata oltre oceano ha rinsaldato fuori dai confini nazionali le proprie radici (aggiungendo le catene di montaggio statunitensi a quelle già presenti in 20 paesi dove Fiat a partire dal 1972 produceva attraverso accordi di licenza, aziende controllate e partecipate). Invece, il ritratto dei lavoratori dell’azienda sempre meno torinese è diverso, come scrive Giorgio Airaudo nel saggio La solitudine dei lavoratori (Einaudi, 2012), il caso Fiat, guardando all’Italia, è lo specchio delle anomalie che caratterizzano, in quasi tutti i settori industriali, i rapporti tra l’imprenditoria e la manodopera del nostro paese: «La solitudine è il tema unificante di queste storie e delle condizioni in cui le persone lavorano: lo è per chi lavora in fabbrica e lo è per i giovani che stanno invecchiando in una precarietà priva di solidarietà. La solitudine si manifesta di fronte a decisioni che spesso vengono prese lontano dai luoghi dove poi si verificano gli effetti, decisioni che sovrastano e spersonalizzano, che cancellano le storie individuali e quelle delle comunità, dove il saper fare, il lavoro, l’intelligenza vengono azzerati in cifre di bilancio, in convenienze speculative, in condizioni per l’investimento, annullando di colpo la possibilità di decidere e determinare il proprio futuro. Una solitudine amplificata dal vuoto di rappresentanza politica. È lì, nel riconoscersi in questa condizione, che rinascono in modo primordiale legami e solidarietà nuove tra gli studenti, i lavoratori precari, gli operai e gli impiegati».

Nell’ufficio dell’amministratore delegato, tuttavia, le cose sono state viste diversamente. Per realizzare i suoi piani (spostamento della produzione all’estero, ridimensionamento dei volumi produttivi nazionali, chiusura parziale degli stabilimenti, cassa integrazione, riorganizzazione dei turni lavorativi), l’azienda ha dato luogo a comportamenti che potrebbero essere definiti poco ortodossi e quantomeno spettacolari: prima l’uscita da Confindustria, così da non avere vincoli sulla sottoscrizione dei contratti collettivi adottati dalla confederazione, poi, coniando una sorta di contrattazione “fai da te”, la volontà di imporre un contratto aziendale alternativo e in deroga rispetto a quello nazionale, volontà astutamente celata dietro l’introduzione del referendum tra i lavoratori. Per usare le parole di Mimmo Carreri, questo «aggiramento acrobatico» delle condizioni di contrattazione collettiva ha visto l’indizione di due referendum confermativi del testo degli accordi aziendali nell’estate tra il 2010 ed il 2011, al solo scopo di rafforzare «la certezza del consenso» (Mimmo Carreri, I sindacati, il Mulino, 2012).

fonte: pasquinoweb.wordpress.com

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In una logica crudelmente impostata secondo lo schema del “prendere o lasciare”, l’approvazione degli accordi (con maggioranze fortemente risicate in siti produttivi come Mirafiori) non ha affatto sancito l’avvenuta intesa tra management e manodopera, bensì ha evidenziato il dubbio che il referendum, «trasformato in una specie di “giudizio di Dio” » , sia lo strumento decisionale più adeguato specialmente in casi come questo, dove la votazione avviene «con la pistola puntata alla tempia» (cfr. M. Carreri, cit.).

È in questo contesto, dove ad una crisi fuori dall’azienda se ne contrappone una tutta interna alle dinamiche umane e politiche della fabbrica, che il 20 dicembre 2012 Marchionne compare nello stabilimento di Melfi accompagnato dal presidente Fiat John Elkann e dal presidente del Consiglio dei Ministri Mario Monti, in una visita ai dipendenti durante la quale rilascia dichiarazioni che per metà sono un endorsement a favore del Professore nella sua (futura ed imminente) discesa in politica e per metà suonano come uno slogan accattivante e studiato nei dettagli, nello stesso stile dei discorsi coi quali l’ad aveva incantato Detroit: «Abbiamo in programma di portare in produzione negli impianti italiani 17 nuovi modelli e 7 aggiornamenti di prodotto da qui al 2016. Questo ci permetterà di ottenere già nei prossimi 24 mesi un aumento significativo dell’attività produttiva fino ad arrivare ad un pieno impiego di tutti i nostri lavoratori. Si tratta di un impegno enorme che ci sentiamo di prendere prima di tutto per onorare la responsabilità sociale che è collegata al nostro modo di intendere il business e lo facciamo anche in relazione al contesto economico attuale e agli sforzi avviati negli ultimi 12 mesi affinché l’Italia possa tornare a essere competitiva. Non ci siamo mai tirati indietro in passato e non intendiamo farlo ora che è in corso un processo di risanamento del Paese. Il nostro è un piano coraggioso, non per deboli di cuore. L’evento di oggi è il primo passo concreto».

fonte: www.unita.it

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Il tutto, annunciando anche un investimento dedicato allo stabilimento di circa 1 miliardo di Euro: «È stata una decisione non facile e non scontata in un mercato in caduta libera. Abbiamo scelto la strada del coraggio in un momento di crisi. Abbiamo scelto di toglierci dalla mischia dei marchi generalistici e andare a competere nella parte alta del mercato. Ne abbiamo tutte le possibilità e i mezzi per farlo. In 3-4 anni raggiungeremo il pareggio delle attività in Italia e in Europa». Toni forti, propagandistici e da convention, dunque, come oltre oceano, rivolti ad una platea di selezionati operai mentre fuori dai cancelli protestava la Fiom, ospite non gradita dello “spot” prenatalizio. Le sfide a cui sembra puntare l’amministratore delegato, certo, alzano l’asticella degli obiettivi non di poco, e certo suona piuttosto curioso ascoltare così tanta enfasi dopo che, in fondo, l’azienda ha ottenuto quello che voleva rispetto alle manovalanze.

Dall’altro lato, fa sorridere un po’amaramente registrare come l’annunciato impegno ad investire sul territorio italiano contrasti non poco con la manovra risalente a fine novembre 2012, quando la sede legale della holding che detiene le società del colosso Fiat (Fiat Industrial), è stata spostata dall’Italia all’Olanda, visti i benefici fiscali della legislazione dei Paesi Bassi, considerato che il fatturato complessivo della capogruppo si aggira intorno ai 25 miliardi di Euro, con tanti saluti al Fisco nostrano.

Parlando di numeri, il rapporto Aci-Censis del 2012 mostra dati che sono poco incoraggianti per il futuro ma che al tempo stesso rappresentano la conseguenza della flessione che i venti di crisi finanziaria ed economica mondiale hanno imposto, specialmente per quelle aziende che trovandosi ad operare in mercati spesso saturi, scontano la poca competitività globale, finendo per arrancare. In Italia, secondo l’indagine del Censis, il 52% degli interpellati non acquisterà un’auto nuova nei prossimi tre anni, mentre solo il 33% acquisterebbe virtualmente un’auto italiana.

fonte: www.soldionline.it

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Il gruppo torinese (Fiat, Alfa Romeo, Lancia, Ferrari, Maserati, Chrysler, Dodge, Jeep, Abarth) nel corso del 2011 ha venduto (in Europa) complessivamente 948 mila vetture: sembrano definitivamente tramontati gli scenari di quando, a metà anni ’70, il solo marchio Fiat dominava il mercato UE vendendo 1 milione e 200 mila unità. E se da un lato gli anni ’70 sono lontani quanto a vendite del singolo marchio, dall’altro gli stessi periodi sono più che mai attuali quanto a immatricolazioni totali registrate in Italia, che attestandosi a quota 1,4 milioni nel 2012 (con un segno meno del 20% rispetto al 2011), ci riportano agli 1,8 milioni di vetture targate nel 1979 (quando in Italia la popolazione era di quasi dieci milioni inferiore a quella attuale e il mercato dell’auto aveva appena attraversato il suo boom).

Una cosa è certa: le incognite del mercato automobilistico non lasciano spazio a previsioni mirabolanti di vendita e produzione, ponendo semmai chiunque davanti al chi vivrà vedrà, anche di fronte al piano industriale annunciato a Melfi. Nello stesso tempo, la “nuova” Fiat di Marchionne, è cambiata: non è mutata la struttura di impresa piramidale figlia del «capitalismo familiare» di cui parla il sociologo Luciano Gallino in L’impresa irresponsabile (Einaudi, 2005), quando la famiglia Agnelli, attraverso esigue quote in società che controllavano le imprese produttrici del gruppo (come la finanziaria Ifil che deteneva il controllo di Gruppo Fiat il quale a sua volta era il soggetto controllante di Fiat Auto Spa), di fatto disegnava le rotte decisionali che l’intero gruppo avrebbe intrapreso. Ad essere cambiato è, semmai, il trend delle attività automobilistiche, che nella galassia economica della famiglia torinese rappresentano una minima parte, seppur la più conosciuta. All’interno di questa piccola isola, il ruolo italiano, a seguito del “metodo Marchionne”, è andato sempre più riducendosi, per far fronte, si è detto, a esigenze di bilancio, snaturando forzatamente l’identità strutturale della casa costruttrice.

Ad oggi, il ripensamento produttivo non può permettersi, però, di esaurirsi nel ridimensionamento di questo o quel costo di produzione, decimando gli apparati produttivi e le reti di vendita presenti nel nostro paese, specie se si considera che l’industria Fiat porta con sé anche un indotto di aziende (dedite alla componentistica) che sfiora i 200 mila posti di lavoro a fronte dei 50 mila “in-Fiat”. Forse, il cambiamento richiesto dai mercati doveva essere inteso prima ancora come cambiamento della concezione dei rapporti tra lavoratori e imprenditori, in nome di una collaborazione votata ad un orizzonte comune, destinato inesorabilmente a dividersi quando in gioco entrano ragioni ulteriori a quelle del lavoro, come gli interessi speculativi e le concentrazioni finanziarie studiate per produrre sempre di più spendendo sempre meno.

Al cambiamento sono chiamati tutti gli interlocutori in gioco, e se da una parte qualcuno ha parlato della necessità di adeguare le formazioni sindacali alla fisionomia sempre più globale dell’azienda (cfr. M.Carreri, cit.), dall’altra non c’è dubbio che gli stravolgimenti decisi da Torino e Detroit nell’arco degli ultimi anni non possono non imporre anche uno sforzo altrettanto significativo, quantomeno nel senso di investire, in Italia, fondi destinati non solo ad implementare il singolo stabilimento produttivo da ammodernare, bensì a ridisegnare il modo di produrre, proiettando in avanti il concetto stesso di progettazione, studio e produzione di un’automobile. Un’operazione simile tiene in conto sforzi che vanno oltre la pur sempre immanente logica del profitto, e rappresenta l’unica scommessa su cui puntare in un momento così critico.

Per avere spunti non bisogna andare lontano: il gruppo tedesco Volkswagen (che comprende i marchi Audi, Skoda, Seat, Porsche e Lamborghini per un totale di 220 modelli) ha lanciato nel 2012 sul mercato una serie di autovetture che condividono una rivoluzionaria piattaforma di telaio, realizzata in materiali leggeri e più ecologici rispetto alle leghe tradizionali, in grado di essere rimodulata per i diversi modelli di vettura, un pianale “unico” (chiamato MQB), per realizzare auto leggere e tecnologicamente avanzate.

fonte: www.motorionline.com

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In questo senso, la Fiat 500 X (in foto), preannunciata come modello di punta della futura Melfi dove dovrebbe essere prodotta a partire dal 2014, rappresenta un primo, timido, passo in avanti, essendo progettata per la produzione sulla piattaforma modulare Small Wide dalla quale prenderà forma anche una gemella compatta del marchio Jeep.

A differenza, però, di quanto accaduto in Fiat, nel corso del 2012 gli operai Volkswagen hanno ricevuto un aumento salariale del 4,2% previsto nel contratto collettivo nazionale rinnovato a quattro mani con la dirigenza, dopo un 2011 chiuso con utili da record. Anche Volkswagen, come molte case, ha stabilimenti in Polonia, Russia, Brasile, India, Sudafrica, Stati Uniti e Cina, tuttavia, il dialogo tra azienda e dipendenti tedeschi, rappresentati dal forte sindacato IG Metall, non è mai cessato, e anche a fronte di concessioni da parte dei lavoratori in termini di flessibilità (come i turni da 25 ore decisi nel 2009 in pieno inizio di crisi), gli stessi operai metalmeccanici dipendenti di VW sono divenuti i più pagati al mondo.

Punti di vista direbbe qualcuno, o semplicemente approcci differenti al concetto di casa automobilistica. C’è chi, come i tedeschi, ha ritenuto che fare una buona automobile sia essenziale, e accanto alla bontà del prodotto, che consente di conquistare un mercato, ha ricercato tutti i modi per mantenere standard qualitativi adeguati riducendo i costi, con un risparmio fatto non (solo) di tagli e delocalizzazioni, ma accompagnato dalla concertazione tra le parti e dalla ricerca, che richiede investimenti e chiude il cerchio, permettendo una produzione al passo coi tempi, che valorizzi prima di ogni cosa il lavoro di ognuno.

Alla futura Fiat il compito di raccogliere la sfida, giocata non solo sui numeri ma anche e soprattutto sul fattore umano, insostituibile ed inestimabile componente anche della più avanzata creazione meccanica.

Photocredit immagine di copertina: pitstopracingcar.it

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