Henri Matisse: le influenze arabeggianti in una ricerca artistica continua

38738-MatisseImage3_(1)In occasione dell’attesa mostra Matisse. Arabesque presso le Scuderie del Quirinale che ha aperto i battenti il 5 Marzo, mi sembra opportuno focalizzarci per un momento sulle suggestioni e sugli influssi dall’Oriente nell’opera di Henri Matisse. Le esperienze visive, filtrate e decadenti attraverso uno sguardo analitico e penetrante conducono l’artista a cristallizzare i fondamenti di quello che diverrà un stile inconfondibile, distante sia dal vagheggiamento letterario della pittura simbolista che dal puro piacere estetico della partitura esornativa dell’arte orientale.

Matisse da sempre sperimentatore grazie alla contaminazione di culture e linguaggi diversi, da quelli africani a quelli orientali, compie così una ricerca estetica venata di esotismo [1]. Si dedica alla pittura dal 1893 sotto la guida del pittore simbolista Gustave Moreau insieme con l’amico Albert Marquet. Si iscriverà all’École des Beaux Arts due anni dopo. Per via dei suoi natali, erano previsti per lui altri progetti di vita:

«La storia della mia vita è priva di eventi di rilievo: posso raccontarvela in due parole. Sono nato l’utimo giorno del 1869 a Cateau-Cambrésis, nel dipartimento del Nord. I miei genitori, agiati commercianti, volevano che diventassi uomo di legge (…). A lungo andare mi permisero di abbandonare il diritto e di andare a Parigi per studiare pittura» [2]. 38739-matisseImage8

Proprio a Parigi, studente di Mureau e assiduo frequentatore del Louvre – in particolare la vasta collezione islamica dell’esposizione permanente, giudicando le collezioni di ceramica maomettane del Louvre “le più notevoli che esistano” -, del museo etnografico del vecchio Trocadéro e del Musée des Artes Décoratifs, inizia a studiare arte primitiva e i maestri rinascimentali, iniziando a intravvedere nuovi orizzonti. In un’epoca di rivoluzioni formali e sintattiche, infatti, la tradizione non sembra bastare più, non stimolare ulteriormente. Prende però le distanze dalle sperimentazioni di decostruzione del cubismo, trovando invece nell’arte africana gli elementi di una nuova grammatica di linee.

«Mi sono cercato ovunque»: così Matisse vorrà riassumere gli anni della formazione negli ultimi anni della sua vita. Dai timidi tentativi sulle orme di Monet e di Pissarro ai primi incendi colorati ispirati a Van Gogh e a Redon, dalla lezione di Cézanne, il “padre comune”, ai consigli di Signac e all’esempio di Puvis de Chavannes, l’artista si prepara, nell’attesa che l’intuizione gli indichi la sua via. È con l’esperienza fauve che Matisse conferma il proprio slancio ideale verso la ricerca di una modernità linguistica, opponendo ai concetti di spazialità, prospettiva e mimesi tipici dell’arte occidentale l’idea di una superficie pura, fatta di stesure del colore piatte, in cui colore e linea diventano elementi principali sia del valore costruttivo dell’opera che di quello espressivo. All’inizio del prorompente XX Secolo il desiderio generale di avanguardia, di andare oltre i propri orizzonti era più forte che mai: si prospettava un’epoca irripetibile di scoperte e nuove conquiste.

«Non sentivamo l’esigenza di proteggerci dalle influenze straniere, perché queste non potevano che arricchirci e renderci più esigenti in rapporto ai nostri individuali mezzi d’espressione» [1]. 

"I pesci rossi", 1911

“I pesci rossi”, 1911

In quegli anni vedrà molte produzioni orientali grazie alle diverse mostre che, nel 1893-1894 e soprattutto nel 1903, vennero dedicate all’arte islamica al Musée des Arts Decoratifs di Parigi. In seguito, all’Esposizione mondiale del 1900, scopre gran parte del mondo orientale nei padiglioni dedicati a Turchia, Persia, Marocco, Tunisia, Algeria ed Egitto. Frequenta anche le gallerie avanguardiste, come quella di Ambroise Vollard, dal quale acquista nel 1899 un disegno di Vincent Van Gogh, un busto in gesso di Auguste Rodin, un quadro di Paul Gauguin e uno di Paul Cézanne.

Sono anni di esperienze intense: i viaggi di Matisse in Nord Africa, tra Algeria e Marocco, si moltiplicano. Terre affascinanti che lo conquistano sia per i colori vivi del paesaggio naturale infuocato dalla luce, sia per la preziosità dei decori di oggetti e tessuti – specie ceramiche e tappeti da preghiera che nel disegno e nei colori riempiranno le sue tele. Viaggia in Italia (1907): lo spazio artistico diventa fatto di colori vibranti, diventa fondato sul’idea di superfici pure. Subito dopo l’inaugurazione del Salon d’Automne (1 ottobre 1910) si reca con Marquet a Monaco di Baviera per visitare la mostra di arte islamica. Miniature e tappeti lo fanno entrare in uno spazio sconfinato, percorso da arabeschi e calligrafie, lontano dai soggetti tipici del realismo. Tale spazio non risulta localizzabile, dove i margini dell’opera non la separano da ciò che sta al di fuori ma ne moltiplicano i limiti con profusione di accavallamenti interni, di arabeschi e cornici, che riflettono al suo interno la paradisiaca immensità di un confine ancor più vasto.

"La danza", 1909

“La danza”, 1909

Nel 1911 va in Russia: Matisse scopre da vicino il magnetismo della pittura delle icone, un esempio d’arte simbolica nei cui codici figurativi il processo di semplificazione di spazio e forme prefigura l’astrazione. L’occasione era stata l’allestimento dei pannelli di “La danza” e “La musica” in casa del collezionista Schukin a Mosca. Opere in cui l’originalità della concezione decorativa di Matisse si perfeziona, dando vita a superfici piane che paradossalmente evocano dimensioni spaziali amplificate. Una continua ricerca estetica caratterizza l’opera matissiana, il cui fine è solo quello di poter scardinare le convenzioni occidentali per ritrovare la purezza e l’incanto di una sensibilità primitiva attraverso una visione di grande modernità. Nel 1912 è di nuovo in Africa, stavolta la meta è Tangeri in Marocco [3]. Qui la pluralità delle ispirazioni e dei richiami si amplifica, la carica di energia e creatività è dirompente. Si lascia alle spalle le destrutturazioni e le deformazioni proprie dell’avanguardia, più interessato ad associazioni con modelli di arte barbarica. Il motivo della decorazione diventa ragione principale di una radicale indagine sulla pittura.

“Il mio lavoro  consiste nell’imbevermi delle cose. E poi è quello a tornar fuori. (…) Sono fatto di tutto ciò che ho visto”

Il Marocco, l’Oriente, l’Africa e la Russia, nella loro essenza più spirituale e più lontana partendo dalla dimensione semplicemente decorativa, indicheranno a Matisse nuovi schemi compositivi. Arabeschi, disegni geometrici e orditi, presenti nel mondo Ottomano, nell’arte bizantina, nel mondo ortodosso e nell’arte primitiva studiati al Louvre. Tutti elementi interpretati da Matisse con straordinaria modernità in un linguaggio che, incurante dell’esattezza delle forme naturali, sfiora il sublime.

Régine Pernoud rivelerà: «Allora l’opera apparirà altrettanto feconda e dotata dello stesso fremito interno, della stessa bellezza risplendente propria delle opere della natura. Ci vuole un grande amore, capace di ispirare e di sostenere quello sforzo continuo in direzione della verità, quella generosità senza calcoli e quella profonda rinunzia necessarie alla genesi di qualsiasi opera d’arte».

Non rinunciando a un’intellettualistica raffinatezza, l’effetto decorativo dei disegni infantili è sorprendente nei colori smaglianti e nei contorni semplici dei quadri [4]. Sulla teoria del colore Matisse il 5 Agosto del 1946 (aveva 77 anni), intervistato da un soldato americano Jerome Seckler, dirà: «I haven’t any theory, even of drawing. That comes only from what I know what to look forward to. I work while waiting what will come. When I began painting, I copied the paintings in the Louvre and I finished by clarifying all that I thought and to see that color is a very beautiful thing. Why mix up the colors. Why trouble with all that. Why not utilize these colors as they are naturally. I searched for my combinations with combinations of colors which do not destroy themselves. In my [spirit], perspective is made in my head and not on the paper. That depends on you and the ideas you have. The most simple things are the most difficult. Can one understand why one doesn’t make the perspective like the Italians? The primitives also didn’t have perspective. One must see the colors as sonorities. A musical chord has a particular expression. You have the harmonies of colors, which have particular resonances. All music is made with seven notes. With that, one makes all the relations. Painting is the same thing». L’intervista, ritenuta perduta, è stata pubblicata per la prima volta all’inizio di quest’anno.

Bibliografia
[1] Zelda de Lillo, Sono fatto di tutto ciò che ho visto, in ArteDossier, n. 320, 2015
[2] Xavier Girard, Matisse Uno splendore inaudito, Gallimard, Torino, 1996
[3] Jack Cowart, Matisse in Morocco. The paintings and drawings 1912-1913,National Gallery of Art, Washington, 1990
[4] Ernst Hans Gombrich, La storia dell’arte, Phaidon, Londra, 2008

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