Hisham Matar e la Libia che gli ha portato via il padre

Qualche giorno fa, il 25 Luglio, il presidente francese Emmanuel Macron ha incontrato alle porte di Parigi nel castello di La Celle Saint-Cloud i leader delle due principali fazioni nella guerra civile in Libia: Fayez al Serraj, primo ministro del governo libico di unità nazionale e unico riconosciuto come legittimo dall’ONU, e Khalifa Haftar, capo dell’Esercito nazionale libico e leader della Libia orientale. C’è chi accusa la Francia di avere interessi economici e di aver improntato l’incontro sullo sfondo troppo nazionalistico. “Dobbiamo saper riannodare il filo della nostra storia, là dove la nostra azione è sempre stata improntata alla massima indipendenza” ha dichiarato Macron “La politica araba e mediterranea deve occupare un posto cruciale nella nostra diplomazia”.

In questo modo si canta vittoria per aver avviato un processo di riconciliazione che porterà alle elezioni nella primavera 2018. Nessuna data però ancora è stata concordata e nessuno degli accordi di pace trovati negli ultimi anni è mai stato rispettato dai due protagonisti. Il timore è che Haftar, che si è mostrato militarmente superiore a molte altre fazioni, possa provare presto a prendere il controllo di Tripoli, la principale città della Libia occidentale e sede del potere di Serraj, mettendo di fatto fine al governo di unità nazionale appoggiato dall’ONU e sostenuto dall’Italia, che di fatto è rimasta nell’ombra.

TripoliItaliana-610x458Il giorno dopo, il governo italiano ha annunciato la missione in Libia, “una missione di supporto all’azione delle autorità libiche di controllo del proprio confine marittimo” come ha affermato Gentiloni.  Via libera a navi, aerei e 700 militari solo per supporto logistico e per dimezzare i flussi verso l’Italia.

Ma torniamo indietro riprendendo il bandolo della matassa: la Libia è dal 2011 in una guerra civile di cui non sentiamo spesso parlare dai media italiani, un po’ come se ci stessimo girando dall’altra parte, un po’ come se fossimo in amnesia senza ricordare la nostra storia legata alla Libia, senza ricordare il genocidio e altre atrocità dell’avventura coloniale compiuta da Mussolini.

Né i film italiani ambientati in quegli anni, né i romanzi dell’epoca parlano delle colonie italiane. Qualche riferimento superficiale alla Libia o all’Eritrea si trova solo nei romanzi di genere, più commerciali. È davvero “curioso” questo silenzio. Il mio incoraggiamento agli italiani ad interrogarsi su quella vicenda non è per un giudizio morale. Certo abbiamo il dovere di informarci sull’accaduto, ma penso anche che potrebbero trovare interessante indagare i motivi per cui l’Italia andò in Libia e poi se ne andò. Dopo essere stati sconfitti dai britannici, tuttavia molti italiani rimasero, diventando libanesi dopo generazioni. Gheddafi li cacciò nel 1969. È una storia molto dura, interessante e complessa. (1)

Così ne parla lo scrittore profugo libico Hisham Matar (New York, 1970), foto-newsPulitzer Prize for Biography or Autobiography 2017 per il libro The Return (2016, in Italia è stato pubblicato con il nome Il ritorno. Padri, figli e la terra fra di loro per Einaudi). Come nelle sue opere precedenti (In the Country of Men del 2006 e Anatomy of a Disappearance del 2011), la presenza o meglio l’assenza del padre scomparso in modo tragicamente misterioso è una costante: “Non sappiamo se è in Libia, non sappiamo neppure se è vivo”. Il padre di Hisham Matar è stato fatto sparire dal regime nel 1990. Da allora lo scrittore, insieme alla sua famiglia, non ha mai smesso di cercarlo.

Il padre Jaballa Matar, ufficiale e diplomatico sotto il re Idris, venne accusato nel 1979 di essere un reazionario nei confronti del regime rivoluzionario libico di Gheddafi (che 10 anni prima aveva deposto insieme a un gruppo di ufficiali nasseriani re Idris) e fu costretto a fuggire in esilio, per aver formato ed essere un leader del movimento oppositore di dissidenza contro Gheddafi. Si trasferì a Il Cairo dove fece completare gli studi a Matar e suo fratello. Nel 1990 il padre scompare nella capitale egizia senza lasciare quasi traccia, il futuro scrittore era già da qualche anno a Londra per completare i suoi studi in architettura. Sei anni dopo la famiglia ricevette due lettere scritte dal padre in cui raccontava di essere stato rapito dalla polizia segreta egiziana e nel giro di 24 ore di essere stato imprigionato nel noto carcere di Abu-Salim, prigione nel cuore di Tripoli per prigionieri politici – la chiamavano anche “ultima fermata” perché era il posto dove finivano le persone da dimenticare.  Le ultime notizie ricevute su un possibile ritrovamento del padre vivo risalgono al 2002 da brandelli di informazioni e ricordi di ex detenuti (tra cui degli zii e cugini), sulla possibilità che fosse sopravvissuto al massacro di 1.270 prigionieri politici del giugno 1996 per mano delle autorità libiche. Lo scrittore è sempre stato consapevole della possibilità che il padre fosse stato uno di loro nonostante per anni nell’incertezza avesse mantenuto viva la speranza – nel 2010, su iniziativa della sezione inglese del Pen Club, venne pubblicato sul Times un appello sottoscritto da 270 scrittori, tra cui Salman Rushdie, Kazuo Ishiguro, J. M. Coetzee, Orhan Pamuk, Ian McEwan, Kiran Desai e Zadie Smith, nel quale si sollecitava il Ministro degli Esteri britannico, David Miliband, a richiedere al governo libico il ripristino dei diritti umani e informazioni precise sulla sorte di Jaballa Matar e di altri prigionieri politici. L’incertezza e la rabbia lo avevano portato anche alla disperazione: lo scrittore ha confermato che sempre nel 2002 aveva contemplato il suicidio sul Pont d’Arcole a Parigi.

Si prova vergogna a non sapere dove sia tuo padre, vergogna a non riuscire a smettere di cercarlo, e vergogna a desiderare di smettere di cercarlo.

Nel 2011, quando i ribelli armati sono entrati a Tripoli e hanno liberato i prigionieri dal carcere di  Abu-Salim, il padre non era tra i sopravvissuti, così l’autore ha smesso di cercare ed è partito in viaggio per la Libia alla ricerca di qualche traccia del padre, di conoscere qualche dettaglio sulla fine del padre. Come ha dichiarato poi, l’autore ammette di essere finito in quel periodo della sua vita in un buco nero e vuoto di pura ossessione, uno spazio tossico.

128926-mdThe Return nasce  dall’invito fatto allo scrittore dal New Yorker di scrivere un pezzo sul suo ritorno in Libia:

Non sapevo come fare, perché quando ero tornato avevo smesso di scrivere per tre mesi. Non ho scritto nemmeno una lettera, niente. Ero convinto che la mia vita di scrittore fosse finita. Poi ho preso le prime due frasi dei miei appunti, che sono anche le prime due frasi del libro. È  semplicemente un’annotazione di dove sono, in che data e con chi. Nient’altro. E ho pensato: “Come sarà la prossima frase?” . È uno spazio in cui vuoi restare fedele ai fatti ma al contempo cerchi di concedere spazio all’immaginazione per dare vita a questi dettagli. (2)

Il risultato è un racconto di una ricerca piena di angoscia e di un’assenza che pervade una vita, la storia di un’intera famiglia ma che, in mancanza di particolari, non si placa nella dolorosa certezza della morte: c’è una mancanza di elaborazione del lutto, c’è Telemaco che attende il padre Ulisse. Nel libro viene ricostruita la figura del padre, giovane appassionato di poesia, alto ufficiale dell’esercito, diplomatico, imprenditore di successo, leader nato, patriota convinto.

Non smetto di interrogarmi su ciò che mio padre dovette subire durante la prigionia. La mia mente è fissa sui primi giorni, le prime ore. È come se la mia immaginazione, quando si concentra sulla sua vita in carcere, entrasse nella nebbia. Riesco a vedere solo per un breve tratto.

Matar ha sempre dichiarato di essersi abituato a vivere senza il suo paese, ma non senza suo padre. La sua, come quella di tanti altri libici, è prima di tutto una questione privata. “Gheddafi ha portato via mio padre, ha arrestato i miei parenti, ha ucciso molti dei miei amici“. Infatti come nella sua vita anche nel suo ultimo libro, la sua personale storia intima si intreccia con quella di un paese scisso da decenni.

Eppure una non esiste senza l’altra, e il desiderio di vendetta individuale fa spazio a una presa di coscienza collettiva: la rivincita degli uomini e delle donne della Libia sta nel «riscoprire, oggi, cosa significa essere parte di un popolo».

The Return è anche un grande libro sul potere, sulla  maledizione del petrolio in Libia, determinando relazioni parassitarie con i paesi vicini e le grandi potenze. C’è nel libro anche la storia del nonno Hamed, deportato in Italia dai fascisti e riuscito miracolosamente a fuggire e tornare in patria. The Return è anche il racconto di una formazione tutta condizionata dalle circostanze politiche e del tentativo di resistere con ogni mezzo all’annientamento morale e psicologico. Un racconto universalmente emblematico dei nostri tempi e della Storia, delle ambiguità dell’Europa che fa affari e accordi con i regimi totalitari.

Ogni libro comincia con un gesto, una frase, un’atmosfera, un personaggio, che ti spingono ad andare più a fondo. Qui non è stato diverso: pur ricostruendo fatti reali, dovevo scegliere come raccontarli, da dove partire, come procedere. Credo che ogni libro arrivi con un suo proprio carattere, compiuto. Il mio lavoro sta nell’usare la massima attenzione per coglierlo, mettendo me e i miei desideri da parte. Quando scrivo, voglio essere posseduto dal libro, “esserne scritto”. Quando finisci è un misto di euforia e panico, come essere gettato in strada, senza più scopo. È il paradosso dello scrivere: da una parte sei solo, si investe molto l’ego, dall’altra è un esercizio di umiltà, devi arrenderti al libro.

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Note

(1) Intervista per Left, Il ritorno di Hisham Matar in Libia e quell’amnesia italiana sul genocidio compiuto da Mussolini, 31 marzo 2017, qui l’intervista completa

(2) Video intervista per Internazionale, La Libia ritrovata nel racconto del premio Pulitzer Hisham Matar,  11 aprile 2017, qui il video

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