I giocattoli poetici di Gianni Rodari

Incontro Gianni Rodari molto presto nella mia vita e ha da allora la voce del babbo che tenta di farmi addormentare nel letto francese (che è poco più di una una piazza e mezza) con la testiera in ottone. Perché questo Mese d’autore potrebbe parlare di lui?
Negli ultimi mesi, è nata qui sul blog la categoria Caramelle, che raccoglie e racconta, dalla nostra prospettiva di non-ancora-cresciuti ma purtroppo-quasi-cresciuti, la letteratura per l’infanzia. Si sta anche avvicinando settembre (non provate a negare) e i servizi del telegiornale stanno lentamente passando dai consigli per difendersi dal caldo torrido ai consigli per prepararsi a un rientro poco traumatico a scuola: Gianni Rodari ha cominciato la sua carriera proprio come maestro e il libro La torta in cielo è stato scritto «nelle Scuole elementari Collodi, Borgata del Trullo, Roma, tra gli scolati della signorina Maria Luisa Bigiaretti che hanno finito la quinta nel ’64». In più, gli ultimi Mesi d’autore sono stati dedicati a due autori italiani poco studiati, se non addirittura poco conosciuti, del Novecento, Stefano D’Arrigo e Amelia Rosselli. Alla loro difficoltà sembra fare un po’ troppo da contraltare la facilità con cui è etichettato Rodari, con le sue filastrocche in rima baciata e i raccontini. Bene, ammettiamolo pure, che la forma sia facile, ma cosa e chi c’è dentro e dietro i suoi numerosi libri? Ecco appunto questo Mese d’autore.

Tanto per dirne qualcun’altra, sul suo conto: è l’unico scrittore italiano ad aver ricevuto il Premio Internazionale Hans Christian Andersen, conferito a chi ha dato un «contributo in modo duraturo alla letteratura per l’infanzia e la gioventù». Rodari, oltre che creatore di «giocattoli poetici», come li definiva, era infatti anche un teorico e uno studioso di ciò che praticava: il suo lavoro è al servizio di bambini e bambine, li deve incuriosire, far avvicinare, dire loro «cose che dette in altro modo non ascolterebbero». E come le dice, Gianni Rodari? Con un tipo di linguaggio, derivato anche dalla sua formazione da maestro, “facile”: ma, proprio per questo, in un’Italia tra le due guerre che l’italiano non lo conosce proprio o davvero poco, parlante. Rodari parlava e scriveva in un italiano che si stava imparando e creando, nel quale ogni tanto tornavano a galla parole come princisbecco o cominciava a comparire aviogetto. Il suo impegno era quello di liberare, attraverso le parole, dalla banalità l’«ovvietà quotidiana. […] La sollecitazione della fantasia, del gusto dell’infrazione non è mai fine a se stessa: […] infrange le regole chi se ne preoccupa, chi le conosce, chi le avverte come problema, chi, infine, sa che per infrangerle davvero occorre dare vita a nuove regole. Il gioco sulle e con le parole porta sempre a osservare con occhio fatto vigile e acuto se stessi, il proprio corpo, le proprie emozioni, l’ambiente, i dati apparentemente obbligati tra cui ci muoviamo». (Tullio de Mauro)

Ma c’è qualcos’altro che rende Gianni Rodari importante per noi e ha sempre a che fare con l’italiano, ma stavolta con l’esserlo:  la Seconda Guerra Mondiale, per esempio, la disoccupazione, l’industrializzazione, il boom del giornalismo. Buona parte del secolo scorso, insomma.

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Nato nel 1920, Rodari è bravissimo negli studi: al ginnasio è il migliore della sua classe, ottiene il diploma magistrale a soli 17 anni. Sono gli anni in cui è vicino all’Azione cattolica e vi partecipa attivamente; ma leggere soprattutto Nietzsche e Schopenhauer lo fa allontanare dalle idee del corporativismo (siamo ormai in periodo fascista), mentre la lettura di Lenin e Trotskij lo fa interessare al marxismo. Dopo qualche esame alla Cattolica di Milano, dove frequenta la facoltà di Lingue, Rodari decide di continuare con la carriera dell’insegnamento e fa il supplente per brevi periodi nel varesotto, finché, nel 1941, dopo lo scoppio della Seconda Guerra Mondiale (a cui non partecipa perché dichiarato rivedibile), vince il concorso da maestro. Per continuare a insegnare ed evitare la disoccupazione, Rodari si trova costretto a iscriversi al Partito fascista:

In quegli anni conobbi la miseria in famiglia e la disoccupazione e se questo era uno stimolo potente alla formazione di una coscienza più decisa, era anche una pressione umiliante perché mi dessi da fare per cercare un posto. […] Era una vigliaccheria, ma non avevo vie d’uscita: un operaio avrebbe reagito in altro modo, io ero un intellettuale piccolo borghese di provincia e avevo i difetti di questa categoria. Quando una sola volta, mi rifiutai di accettare un incarico al fascio di Uboldo (Saronno), mi venne inflitta per l’anno scolastico 1943 la qualifica di “insufficiente”, che mi fu mutata dopo il 25 luglio.
(da Gianni Rodari Gavirate: Gli Anni Giovanili, Nicolini Editore, testo di Federica Lucchini)

La guerra si fa sentire anche in altro modo: il fratello Cesare, a cui era più legato, muore nel ’43 in un campo di concentramento tedesco, dove era stato deportato, i suoi due migliori amici cadono al fronte; è così che Rodari decide di entrare in contatto con la Resistenza lombarda e nel ’44 si iscrive al PCI. Nel ’47 comincia la sua esperienza da giornalista: l’Unità lo chiama a lavorare a Milano, dove è cronista, poi capocronista e infine inviato speciale. Sono anche gli anni in cui comincia attivamente a scrivere per i bambini, tanto che nel 1950 il PCI lo convoca a Roma per dirigere il Pionere, settimanale per i bambini, ed escono le sue prime opere, Il libro delle filastrocche e Il romanzo di Cipollino. Nel ’57 supera l’esame da giornalista professionista, nel dicembre ’58 passa a lavorare a Paese sera, allontanandosi quindi dal giornalismo partitico ma continuando a occuparsi anche di politica, e inizia la collaborazione con Rai e BBC. Nel 1960 incomincia a pubblicare per Einaudi ed Editori Riuniti, diventando noto davvero in tutta Italia. Nel ’70 vince il Premio Andersen, che lo consacra alla fama internazionale: Gianni Rodari è tuttora uno dei pochi autori nazionali, assieme a Calvino, Eco e Dante, a essere tradotto e diffuso a livello mondiale.

poesia inedita comparsa su iO Donna (20/03/10)  "Filastrocca inedita sulle scale: Gianni Rodari APR 15, 2010 BY BLOG4STAIRS    1 COMMENT     POSTED UNDER: SCALE NELL'ARTE, TUTTE LE NEWS Le scale, le scale… / sono una cosa che scende / o una cosa che sale? / Sono una cosa in due / o due cose in una? / Una scala ha due facce / come la Paura.

poesia inedita comparsa su iO Donna (20/03/10)
Le scale, le scale… / sono una cosa che scende / o una cosa che sale? / Sono una cosa in due / o due cose in una? / Una scala ha due facce / come la Paura.

La maggior parte di ciò che scrive Gianni Rodari ha un attacco inaspettato detto assolutamente pianamente, senza sorprese, presupposto indispensabile per dare l’avvio a tutta l’avventura, come per esempio «Una mucca di Vipiteno aveva mangiato l’arcobaleno» oppure «Un pastore pascolava / un gregge di motociclette». Non c’è suspense, c’è il fatto, improvviso, certo, ma detto così, con questo italiano facile, non suona poi così strano, ma solo possibile: questa quotidianità con un twist potrebbe essere quella di uno qualsiasi dei paesi o città italiani, che sia Macerata, Vignola, Voghera, Porto Corsini o Acquapendente, non c’è bisogno di andare a cercare il fantastico in qualche Paese straniero lontano e mitico, tutta l’Italia è aperta alla possibilità, come nella poesia Fa freddo: «I gatti del Colosseo,/ a Roma, battono i denti. / Si pattina sul Po / e i suoi maggiori affluenti. / È gelata la coda / di un asino a Potenza. / Le gondole di Venezia / sono a letto con l’influenza». Così come è possibile, ne Le favole al rovescio, che un povero lupacchiotto incappi in una Cappuccetto Rosso armata di trombone e che il Principe alla fine scelga una brutta sorellastra, che ci si trovi ad ascoltare anche Le storie nuove, dove compaiono il Matto con gli stivali o Biancanave o che ci vada di leggere Le favole minime, che durano tre-quattro righe, perfette per quando si ha molto sonno, o ancora ci sono fiabe, come quella de Il pifferaio e le automobili, dove ci sono addirittura tre finali diversi tra cui scegliere.

Tutto parla, in Rodari, e a tutti si può parlare: un punto fermo un po’ dittatoriale si scontra con le parole su una pagina, un pesce-martello racconta le sue disavventure mentre un perfetto gentiluomo di Livorno ha dei problemi con lo specchio. Ci sono invenzioni geniali, come Il vestito dell’avvenire, che si allunga e cresce assieme al suo possessore e quindi i sarti chiederanno sicuramente al governo che venga messo al bando, oppure, ne I colori dei mestieri, c’è chi facendo il proprio dovere nel piccolo contribuisce  a migliorare il mondo, come il vigile urbano che è fortissimo perché ferma il tram con una mano e il giornalista che torna dai suoi viaggi intercontinentali con una notizia sensazionale: «tutti i popoli della terra / han dichiarato guerra alla guerra». Ma c’è Rodari stesso che vorrebbe rimboccarsi le maniche:  «S’io facessi il fornaio / vorrei cuocere un pane / così grande da sfamare / tutta, tutta la gente / che non ha da mangiare» oppure «S’io avessi una botteguccia / fatta d’una sola stanza / vorrei mettermi a vendere / sai cosa? La speranza».

Il mercante di diametri

Un cerchio ragionò:
Con tanti diametri che ho,
perché non ne vendo un po’?
Così si fece mercante
e andava per i mercati
a vendere diametri sigillati.
A chi ne comprava tre
dava in omaggio
un raggio.
Tutto questo succedeva
in un paese nebbioso,
dove anche un raggio di cerchio
sembra tanto luminoso.

Forse, però, il più famoso personaggio creato da Rodari è un suo omonimo: Giovannino Perdigiorno. Perché in realtà Gianni si chiama Giovanni Francesco e in effetti la sua intera opera è costellata di Giovanni un po’ sulle nuvole ma estremamente volenterosi, come per esempio quello della Passeggiata di un distratto delle Favole al telefono, che ogni volta che esce di casa si dimentica in giro un braccio o un piede con tutta la scarpa. Ma è soprattutto Giovannino Perdigiorno a compiere avventure, in poesia e in prosa, in Paesi straordinari, come il Paese con la esse davanti, dove c’è lo staccapanni, la macchina sfotografica, lo stemperino, ma soprattutto lo scannone, che serve per disfare la guerra. Ma c’è anche il Paese senza punta, dove le cose non fanno male però le multe si pagano in schiaffi ricevuti, il Paese degli uomini di burro, che devono vivere sempre dentro il frigorifero, il Paese del nì dove la gente è parecchio indecisa e troppo timida per esprimere un’opinione. Ogni viaggio e ogni incontro insegnano qualcosa a Giovannino, che viaggia ed esplora instancabilmente, rinfrancato dalla dolcezza di un nuovo mondo scoperto, ma spesso costretto ad allontanarsi e partire bruscamente perché percepisce che qualcosa non funziona e potrebbe “contaminarlo”, come per esempio succende nel Paese malinconico o nel Paese degli uomini di tabacco.

Giovannino Perdigiorno
ha perso il tram di mezzogiorno,
ha perso la voce, l’appetito,
ha perso la voglia di alzare un dito,
ha perso il turno, ha perso la quota,
ha perso la testa (ma era vuota),
ha perso le staffe, ha perso l’ombrello,
ha perso la chiave del cancello,
ha perso la foglia, ha perso la via:
tutto è perduto fuorché l’allegria.

Le mie preferite, però, rimangono sempre le Favole al telefono. Ecco come nascono: il ragionier Bianchi di Varese è un rappresentante farmaceutico e deve viaggiare molto, su e giù per l’Italia, tutta la settimana. Ma ogni sera alle nove non manca al suo appuntamento: telefonare alla sua bambina per raccontarle una storia per farla addormentare (e le racconta così bene, queste storie, che le centraliniste rimangono in ascolto e si commuovono perfino). E anche il mio babbo ogni sera mi leggeva Il palazzo di gelato di Bologna, Il palazzo da rompere di Busto Arsizio, La strada di cioccolato nei pressi di Barletta, La famosa pioggia di Piombino che racconta di quella volta che caddero dal cielo tantissimi confetti colorati, Il naso che scappa che è quello del signor Gogol e che fa davvero un bel giretto prima di essere ripreso, Il semaforo blu incompreso di Piazza Duomo a Milano. Ma forse la mia preferita di tutte è la storia di Alice Cascherina, una bambina così piccola che quando casca si infila dappertutto: negli ingranaggi di una sveglia, nel taschino della camicia del suo babbo, dove si impiastriccia con la stilografica, in una conchiglia mentre è in vacanza, una volta persino in un rubinetto e un’altra volta rimane chiusa in un cassetto e fanno davvero fatica a ritrovarla (ed era in effetti il periodo in cui i miei genitori mi persero in un armadio perché, proprio come Alice, mi ci ero addormentata).

Sembra strano da dire, ma non c’è nulla che non esiste in Gianni Rodari: i luoghi, gli oggetti, gli animali, le occasioni e le avventure sono possibili − a patto di fidarsi delle parole al punto da giocarci liberamente, e questo chiunque lo può fare. Non insegna ai propri studenti e a tutti i bambini qualcosa, insegna loro il come: accostando nomi e ipotizzando, qualsiasi rima va bene, anche amor /scardassator (La guerra dei poeti). Il resto − il divertimento, la morale − viene così, da sé. E non è nemmeno un autore nostalgico, Rodari, con tutta questa infanzia e l’accelerato e  personaggi come il «gregario / corridore proletario». È un uomo attento, critico, per una buona metà disilluso e per l’altra buonissima metà felice. Molto italiano.

Sono − anche qui − per il finale che non c’è ancora. Io sono sempre per il futuro.

(uno dei finali alternativi de Il gatto viaggiatore)

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