I nostri granai pubblici

In una città desideriamo ancora trovare i simboli che suggeriscono l’identità collettiva: le grandi istituzioni, il centro urbano, le piazze e i luoghi di pubblico incontro. […] Il terreno comune (in contrapposizione allo spazio pubblico) implica un territorio condiviso all’interno di un contesto di differenze. L’architettura richiede collaborazione. Coinvolge forze commerciali e visione sociale, deve fare i conti con le richieste delle istituzioni e delle grandi aziende, e con i bisogni e desideri degli individui.

Così scrive David Chipperfield, l’archistar che alla Biennale ha presentato un progetto dal programmatico nome di Common Ground e che a breve apporterà il suo personale contributo anche a una delle più antiche città italiane, Verona. All’interno del programma di riqualificazione “Passalacqua”, infatti, la firma di Chipperfield accompagna il progetto della nuova biblioteca universitaria, che, in linea con il taglio sociale sottolineato dal rettore Alessandro Mazzucco, «sarà quella di un ateneo, ma anche di una città e del quartiere che la ospita, quello di Veronetta».

Dello stretto rapporto tra città, architettura e cultura parliamo con Pietro Duchi, studente di Design della comunicazione al Politecnico di Milano, attualmente in Scozia per frequentare la Glasgow School of Art.

FC: Apprezzo molto il fatto che tu, pur essendo un viaggiatore, o forse proprio perché lo sei da molti anni, non ti soffermi solamente a guardare l’esterno degli edifici, non ti fermi alla e sulla strada, ma entri persino nelle biblioteche.
PD: Lo faccio perché mi interessa: quando scelgo di andare in una città, lo faccio per imparare. Ecco perché tendo ad andare in posti che ritengo “superiori”: per imparare come viene gestita la città, cosa viene offerto ai cittadini. E poi ovviamente perché mi interessa moltissimo l’architettura.

FC: Guardiamo per un attimo la notizia di Verona da universitari e da curiosi, da esterni ai lavori: cosa ne pensi dell’intervento di un grande architetto nel progetto per una biblioteca che sia il simbolo di una collettività, che abbia una funzione oltre che pratica anche estetica e sociale?
PD: Quello che più apprezzo del ruolo dell’architettura contemporanea è proprio questo: quando non si applica sterilmente all’ambito commerciale e residenziale, ma entra in gioco a favore della cultura. Gioca insomma per creare un luogo dove queDen sorte diamant  1 hpsta cultura non la si prende per poi andare via, contrariamente all’ottica consumistica che ormai ci pervade a ogni livello, ma crea uno spazio accogliente in cui sostare. L’architettura può e deve avere un vero e proprio ruolo sociale nella creazione di luoghi di aggregazione.
Per esempio, a Copenaghen ho visitato Den Sorte Diamant, la sede della Biblioteca nazionale, che si affaccia direttamente sul canale. Partiamo chiarendo che l’ingresso è libero: sia i cittadini sia i turisti possono passarci tutto il tempo che desiderano. È un luogo accogliente, in stretto rapporto con la città stessa grazie all’estesa vetrata, è dotato di connessione wi-fi e d’estate sul grande terrazzo esterno dispongono le sedie a sdraio. Oppure, la Public Library di Seattle esprime benissimo questo concetto: si tratta di un luogo molto moderno, che punta sull’apertura e sulla luce per la gestione dello spazio.
FC: L’uso del vetro e quindi della luce è in fortissima contrapposizioSeattle_Public_Libraryne al “luogo chiuso” in cui siamo abituati a pensare si faccia cultura.
PD: Dà proprio l’idea di un luogo aperto a tutti, non solo agli addetti ai lavori.

FC: A Milano, dove studi, c’è una biblioteca del genere?
PD: Si è parlato della costruzione di una sede della Biblioteca Centrale Europea, ma non si sono trovati i fondi. Il progetto non era un granché, al contrario di quello per la Nuova Biblioteca Civica di Torino, di nuovo bloccato per mancanza di fondi, ma la proposta era per un edificio costruito per terrazze e affacciato su un parco.
Una biblioteca italiana che può competere con quelle di cui ho parlato è senza dubbio la Sala Borsa di Bologna. È anzi uno degli esempi migliori, perché non si tratta di un edificio nuovo ma di una ristrutturazione operata con intelligenza: basandosi sull’idea dello spazio aperto, è stato creato un luogo in cui ti puoi fermare e soprattutto dove sei invogliato a farlo.
FC: Capisco bene quello che intendi: mentre a un tavolo io studio intorno la gente legge il giornale, si ferma per usare la connessione o semplicemente per dare un’occhiata o prendere un caffè.
PD: Lo stile giocoso della Sala Borsa mi ricorda la Bibliotheek Openbare di Amsterdam: l’interno è caratterizzato da librerie tonde, poltrone colorate, Centrale-Bibliotheek-in-Amsterdamparquet.
FC: Quindi la biblioteca diventa anche un po’ design.
PD: Assolutamente! Come nel caso dell’aeroporto olandese di Schiphol, dove è stata aperta una sede della biblioteca di Amsterdam, idea molto innovativa nel concetto e nella realizzazione, che punta molto – ancora una volta – sui colori e sul design.
Non stiamo parlando di comodità superflue e solo visivamente accattivanti: anche per le biblioteche universitarie, in Italia, c’è un livello elevato di potenziale, ma la cultura è concepita in modo così elitario e aulico che tutto il resto può non contare, può non esserci la carta igienica in bagno o il riscaldamento nelle stanze, ad esempio. Prendiamo invece la biblioteca della Facoltà di Filologia della Freie Universitat a Berlino: ancora una volta opera di un archistar, Norman Foster, è un’opera imponente, ma è tecnologica e soprattutto ecologica.

FC: A proposito di archistar e università, torniamo a Verona. Come vedi il fatto che sia stato chiamato un grande nome estero per realizzare questo progetto? Non discutiamo sul fatto che David Chipperfield abbia una certa idea dell’architettura sociale che ben si sposa al progetto veronese, ma gli architetti nostrani?
PD: Prima di tutto, quello di “archistar” è un concetto che non mi piace. Ovvio, sono star per un qualche motivo, ma prendo ad esempio l’architetto irachena Zaha Hadid che ha realizzato a Roma il progetto del MaXXI, il Museo delle Arti del Ventunesimo secolo: si tratta di un edificio che non si adatta per niente alla città, ma lei ha il nome.
FC: E proprio per quanto riguarda il “non adattamento”: non so se hai visto altri progetti di Chipperfield, sono tutti molto duri e geometrici, mentre Verona, come qualsiasi città italiana, è morbida, adagiata, il fiume è sinuoso.
PD: Ti capisco. In molti casi esistono architetti legati strettamente a una città: sto pensando a Norman Foster, che a Berlino si è anche occpato della restaurazione del Reichstag, ma che ha dato il meglio di sé a Londra. Ha progettato il Gherkin, la City Hall, ovvero il nuovo municipio, gli edifici a sud del Tamigi, ha fatto la copertura del British Museum, con il suo studio ha progettato anche il Millenium Bridge, insomma ha dato una nuova faccia alla città.
Così fa il gruppo di architetti danesi 3XN, che sta rendendo Copenaghen una città moderna e ardita, ma possono farlo perché conoscono davvero il luogo in cui scelgono di operare.
FC: Verona penso stia puntando a questo tipo di rinnovamento: dalle interviste hanno calcato la mano sul fatto che la biblioteca sarà quella dell’università ma anche del quartiere, che ne sarà rivitalizzato. Ma forse proprio per questo sarebbe stato meglio legarla alla città con un progetto più forte.
PD: Probabilmente si trattava di un concorso internazionale.

FC: Per evitare i favoritismi, giustamente. Mi è piaciuto invece il fatto che per la Biennale Chipperfield abbia portato nella Common Ground tanti universitari.
PD: Nella mia Facoltà, e specialmente nel campo del Design Grafico, vedo tante persone davvero brave, non eccelse ma che farebbero cose quasi migliori di quelle che vediamo proposte. Hanno tanto potenziale.
FC: Ma l’università ti schiaccia, invece che invogliarti.
PD: L’università italiana non investe. Tanti tutor mi dicono che saremo destinati a iniziare a lavorare per 800 euro al mese e per tanti anni dovremo rassegnarci a fare gavetta. Non saremo nessuno, non tanto perché oggi devi essere qualcuno, stiamo semplicemente parlando del riconoscere il giusto valore del singolo. Uno dei tutor ci ha raccontato che un suo amico sta lavorando nel nostro campo in Cina per 5000 euro al mese. Io non lo farei perché non lo trovo etico: sei chiamato solo perché hai il nome italiano.
morgan-library-2A proposito di nomi italiani: Renzo Piano si è occupato della Morgan Library a New York. Un intervento interessante: la biblioteca di per sé è molto antica, conserva anche una Bibbia di Gutenberg, e nel 2006 Piano ha aggiunto l’ingresso luminoso, bianco, accogliente.
Sia questa che quella di Copenaghen, così come la Sala Borsa, sono biblioteche antiche a cui viene fatta un’aggiunta moderna che rispecchia la concezione moderna della biblioteca stessa: un grande atrio, un luogo comune in cui ritrovarsi e sostare.
FC: Però dall’esterno un purista potrebbe stare male a vedere un accostamento del genere, cosa pensi?
PD: Effettivamente sono rigide come forme esterne, ma penso sia sufficiente spiegare l’intento.

FC: Che tu sappia, questi progetti sono voluti dalle città o sono le stesse biblioteche che puntano a rilanciarsi tramite il rinnovamento dell’architettura?
PD: La Morgan Library è frutto di un progetto privato, mentre Copenaghen ha voluto Den Sorte Diamant e tutta una serie di progetti per edifici di cultura nella zona che prima ospitava il porto, tra cui un teatro dell’opera, che è stato pagato da un industriale, un teatro di prosa, un museo ebraico realizzato da Daniel Libeskind, che ha progettato anche quello di Berlino, e lo stesso Norman Foster si è occupato della Casa degli Elefanti. Le città hanno imparato a sfruttare l’architettura come modo per rilanciarsi, non dico che sia ormai una cosa alla moda ma quasi.
FC: E perché in Italia non siamo capaci?
PD: Fondamentalmente abbiamo paura, perché si tratta di aggiunte o ristrutturazioni a opere antiche. Si è parlato di un progetto di ampliamento per gli Uffizi, ma io stesso sono rimasto perplesso, ma solo perché sono italiano, direi. In fondo noi arriviamo sempre un po’ dopo, solo adesso ci chiediamo “perché non fare una biblioteca aperta?” Ma ovviamente c’è più interesse a costruire un centro commerciale. Sono sicuro che ci sia qualcosa come la Sala Borsa, sparso e magari nascosto da qualche parte in Italia.

FC: A proposito di sparso, le città italiane sono tutte molto compatte, forse anche per questo quando si vuole inserire qualcosa di nuovo no2012-07-04-Pelli-3n è fisicamente possibile metterlo nel centro storico, bisogna porlo in periferia, dove nessuno lo vede.
PD: Io stesso a Bovisa mi sento in un luogo un po’ a parte, rispetto al resto di Milano. Anche a Parma c’è un campus dedicato alle facoltà scientifiche che rimane isolatissimo, è un concetto un po’ troppo americano e troppo poco italiano. A Verona abbiamo visto che il quartiere di Veronetta, di cui ci si vole occupare, è in centro e corrisponde al primo nucleo abitativo, sarà una sfida. Nel centro di Milano stanno costruendo dei grandi grattacieli dove prima c’erano dei binari: ha senso perché lo spazio che si va a occupare era prima vuoto, ma comunque bisogna tenere in conto cosa ci sarà dopo: a Milano, soprattutto in centro, non ci sono tanti grattacieli, e questi, che ospiteranno la Regione Lombardia, negozi di grandi firme e forse un grande parco. saranno proprio a Porta Nuova Garibaldi.
FC: E Milano ti stimola dal punto di vista dell’architettura?
PD: Mh, grattacieli. Commerciali. Appunto.

(il titolo dell’intervista è ispirato alla celebre citazione dalle “Memorie di Adriano” della Yourcenar: Fondare biblioteche è un po’ come costruire ancora granai pubblici: ammassare riserve contro l’inverno dello spirito che da molti indizi, mio malgrado, vedo venire.)

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