Il cantautore è un poeta che sa suonare bene

Qualche settimana fa Bob Dylan è stato insignito di un premio. Fin qui tutto normale: Dylan è uno dei più grandi, e dei più apprezzati, cantautori nella storia della musica mondiale. Ma il premio in questione era un Nobel per la letteratura, anzi per la Letteratura, perciò si è acceso un dibattito che ha visto coinvolti – tra gli altri – volti noti del panorama culturale italiano. «È poesia?» si sono chiesti Baricco, Magrelli, Scarpa. Non è poesia, si sono detti tutti in coro. La voce era la stessa di chi, cent’anni fa, si chiedeva se fosse arte la Fontana di Duchamp e si rispondeva – stizzito – di no. Del resto, gli apologeti del canone non muoiono mai, diversamente dal canone che difendono.

Bob Dylan alla Massey Hall di Toronto, 1980

Bob Dylan alla Massey Hall di Toronto, 1980

Io non ho partecipato al dibattito, ero solo molto imbarazzata per l’imbarazzo di critici e letterati che pure reputavo intelligenti, e questo spiega il ritardo di quest’articolo sulla vicenda. Penso ancora però, come pensavo qualche settimana fa, che la poesia non comunica più e non ha pubblico, mentre la poesia in musica comunica e ha pubblico.
La stessa massiccia partecipazione popolare all'”affaire  Dylan” lo dimostra.

Chi ha avuto da ridire sull’assegnazione del Nobel 2014 a Patrick Modiano, che pure è un romanziere di levatura non eccelsa?
Chi, l’anno scorso, si è indignato per la premiazione della giornalista russa Svetlana Alexievich?
E soprattutto: chi ha esultato, nel 2011, per il Nobel al poeta svedese Tomas Tranströmer?

Eppure tutti ci siamo sentiti competenti nello stabilire se il nobel a Dylan spettasse o meno, a riprova della ricchezza del pop, del suo messaggio universale e della sua storia che sono ormai i nostri ideali e la nostra storia. La nostra cultura legittima, prima della nostra opinione, la poesia cantata e suonata, perché è la poesia cantata e suonata che ha modellato ciò che siamo e ciò in cui crediamo.

Negli Stati Uniti si è mormorato che il nobel a Dylan sostenga indirettamente Hillary Clinton, perché ricorda all’America che la tradizione democratica ha prodotto perle culturali lontane anni-luce dai discorsi volgari e populisti alla Trump. Ed è vero, ma c’è qualcosa di più sottile. Dylan è figlio e cantore di una certa idea della civiltà americana, un’idea che oggi tutti noi abbiamo della civiltà occidentale e che affonda le sue radici negli anni della contestazione giovanile. Per questo rappresenta il nostro mondo più e meglio di qualunque altro poeta vivente, così come noi ci ritroviamo nelle sue canzoni più di quanto potremmo ritrovarci in una poesia di Magrelli. Il mondo che si sentiva rappresentato dai poeti è morto, se non è morta la poesia che lo sapeva rappresentare. Ma non è una catastrofe.

La forma letteratura s’è allargata alla canzone d’autore, e la poesia può essere una canzone. Era già così nell’Unione Sovietica degli anni Settanta del Novecento, quando Josif Brodskij, autore avarissimo di complimenti, disse senza remore che il cantautore Vladimir Vysockij era «il miglior poeta della Russia, dentro e fuori dai suoi confini». Allora Vysockij era il cantautore più amato dai giovani e più odiato dal Pcus, oggi è un classico della poesia russa contemporanea. E impallidirebbero i russi, che amano tanto la poesia, se qualcuno dicesse – fosse anche Baricco – che un cantautore con la poesia e la letteratura non c’entra niente.

Luigi Tenco al Festival di Sanremo del 1967

Luigi Tenco al Festival di Sanremo del 1967

Anche io impallidisco, e non per mere ragioni sentimentali. Certo, ho letto Villon, Lee Masters e Baudelaire anche ascoltando De André; sono cresciuta con il Cyrano de Bergerac e il Gozzano di Guccini; ho consumato Montale Pavese Eliot Pasolini nella voce strana ed evocativa di De Gregori; ho capito bene il disgusto di Céline, la nausea di Sartre e tutto Camus in un greatest hits di Luigi Tenco. Ma non è questo il punto: parlare di poesia non significa farne e riproporre alcuni autori non implica necessariamente esserne all’altezza (anche se questo legame ci dice che, in qualche modo, le canzoni c’entrano con la letteratura).

Il punto è che il Novecento ha abbattuto le norme metriche, togliendo musicalità alla poesia, ma tutta la poesia fino al primo Novecento è stata pensata in relazione alla musica. Basta pensare al senso del ritmo, alla musicalità che c’è nelle poesie di Leopardi o agli effetti fonosimbolici di d’Annunzio e Pascoli, per accorgersene; in alternativa alle poesie di Alda Merini che, al contrario, non hanno alcuna musicalità e paiono aforismi spezzati, frasi semplici che inciampano sul soggetto e vanno a capo.

La poesia cantata si avvicina alla poesia propriamente detta, cioè alla poesia che va da Omero a Verlaine (che diceva «de la musique avant toute chose»), molto più della poesia destinata alla sola lettura. Per gli elementi metrici e retorici che la distinguono immediatamente dalla prosa, innanzitutto. E poi per il potere evocativo ed emotivo, per il modo in cui le canzoni ci prendono la pancia e il cuore e non si capisce se ci facciano più bene che male o viceversa, come tutte le cose belle. Una poesia di Magrelli non fa davvero quest’effetto. E nemmeno una di Michele Mari, che pure è un buon poeta. Ma una di Joan Baez, Bob Dylan, Tricarico, Samuele Bersani, Vecchioni, Battiato eccetera sì.

Non è merito della sola musica: sfido chiunque a trovare commovente, o rilevante dal punto di vista letterario, un qualunque libretto d’opera del Settecento europeo, a fronte dell’accompagnamento musicale per cui è stato scritto. È merito dell’incontro tra la parola e la musica, e non saprei come definire questa combinazione se non qualità poetica o qualità letteraria.

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Bruno Benfenati, Musica e poesia, 1990 ca

Non riusciamo ad accettarlo, noi italiani. In parte perché siamo snob e provinciali, e ci fa comodo distinguere la Cultura, accessibile solo all’élite dell’intellighenzja di cui facciamo parte, dalla cultura con la c minuscola, ch’è quella di massa. Abbiamo una visione gentiliana e classista della cultura, e fatichiamo ad accettare che un prodotto così “basso” come la canzone, con le sue origini nazional-popolari e la sua libera, democratica diffusione possa avere delle qualità uguali, o superiori, alla forma più aristocratica d’arte scritta, ch’è la poesia.

Per l’altra parte, invece, non riusciamo ad accettarlo perché viviamo i cambiamenti con senso di angoscia e di morte, in un atteggiamento tipicamente occidentale e anche un po’ adolescenziale. A leggere le pagine culturali dei giornali, sembra sempre che la letteratura italiana sia morta dopo Calvino, la poesia dopo Sereni, la figura dell’intellettuale con Pasolini.

E invece no. La letteratura e la poesia sono vivissime, e come tutte le cose vive, noi compresi, evolvono muovendosi tra il passato e il futuro. Non abbiamo nulla da temere: la letteratura non ci è mai arrivata eguale a se stessa. Ed è questo che la rende immortale.

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