Capire per spiegare. Capire per diffondere. E perché no, capire per sedurre. (p. 70)
L’8 giugno ricorreva l’anniversario della morte di Fosco Maraini: dieci anni dalla scomparsa di uno scrittore, un etnologo, un viaggiatore e un padre. Con tutte queste figure vuole dialogare Dacia nel libro Il gioco dell’universo *, in cui ha ricostruito i pensieri e i viaggi di Fosco attraverso i suoi taccuini, arricchendoli con i propri commenti o ricordi.
Dacia stessa sottolinea più volte la difficoltà che da sempre riscontra nell’inquadrare il padre in un’unica professione, nonché di attribuirgli un solo campo di interesse: «Quest’ultima frase, “deciso con S.E. per il viaggiare ed etnologia”, fa pensare che il giovanissimo babbo fosse ancora in bilico tra fotografia, antropologia, archeologia e chissà che altro, visti i suoi molteplici talenti. La sola cosa sicura era il viaggiare» (p. 21). E viaggia, Fosco, verso quell’Oriente che a inizio Novecento è ancora un luogo misterioso e come separato, l’Oriente ostile delle montagne innevate e quello delle etnie sul punto di scomparire. Indaga tanto l’umano quanto il naturale con rigore e sensibilità e, spinto dalla coscienza dell’importanza che può avere l’apporto personale e dal desiderio di contribuire, li esplora, fotografa e racconta: «Una volta mi ha detto: “Abbiamo ereditato tutti e due dalla nonna Yoi il talento della scrittura. Ma la mia tende allo scientifico e allo storico, la tua tende all’immaginario e al romanzesco”» (p. 73). Il linguaggio e la tensione poetica che attraversano le indagazioni di Fosco non sono certo da sottovalutare, tant’è che gli ultimi capitoli del Gioco dell’universo sono interamenti dedicati al suo rapporto con la scrittura e si aprono con una citazione di Roland Barthes: «Ogni rifiuto del linguaggio è una morte». E Fosco contamina per far (soprav)vivere, destreggiandosi tra l’italiano, sentito quasi come una seconda lingua rispetto all’inglese, e il giapponese, dominato dal desiderio di creare una «linguistica vissuta» (p. 150), una lingua viva perché parlata e perché parla di ciò che è in vita e che in vita ci tiene. A conti fatti, sembra quasi che, tra tutti i molteplici interessi tra cui si divideva, il vero «campo dei suoi esperimenti fosse il linguaggio». Tra i più riusciti, quello della poesia metasemantica, ovvero una poesia fatta di parole che non indicano nulla, perdendo il loro compito di contenitori di definizioni, ma al contrario che siano disposte a essere riempite dalle impressioni del soggetto stesso; secondo le parole di Fosco, se vuoi fare poesia metasemantica «proponi dei suoni e attendi che il tuo patrimonio d’esperienze interiori, magari il tuo subconscio, dia loro significati, valori emotivi, profontià e bellezza. È dunque la parola come musica e come scintilla» (p. 140).
L’attenzione per le parole equivale all’attenzione per il mondo di cui queste parole parlano: alla fin fine (o meglio, all’inizio, dato che la partenza per queste esplorazioni è giustificata dalla laurea in Scienze Naturali) Fosco è uno scienziato. Un illuminista, precisa Dacia, che continuava a porsi domande sulla natura ma anche sul divino, come ripercorrono i primi capitoli del Gioco, e in entrambi i casi le risposte alla fine non si rivelano essere così importanti, essenziale è invece l’atto proprio di interrogarsi, di stupirsi e ricercare senza posa il confronto: «Fondamento dello spirito sul quale è sorta ed è fiorita la rivoluzione scientifica è questo: un’apertura totale verso la realtà» (p. 43). Anche la formazione inglese, più razionale e scientifica, doveva pesare sulla sua ricerca, se, come sottolinea Dacia, ogni riflessione intorno al divino e l’assoluto appariva minacciata dal gioco linguistico che Fosco aveva appuntato: «It may be impossible to be objective objectively, but it is certainly possible to be objective subjectively» (p. 68). Il passaggio continuo da una lingua all’altra, le contaminazioni fertili di cui dicevamo prima, ma anche la forma breve dell’appunto rendono spesso difficile la comprensione dei pensieri: le sue pagine di riflessione sull’endocosmo, per esempio, presentano notevoli difficoltà alla stessa Maraini, e ammette che ogni volta che rilegge quegli appunti un po’ criptici ne esce con un’idea diversa del pensiero del padre. Fosco, affidandosi alle parole, nei suoi taccuini investigava e inseguiva le sue stesse riflessioni, sforzandosi di dare una forma linguistica a quelle che erano poco più che sensazioni, prima ancora che ragionamenti: «Non ci sono mete da raggiungere, altro che quella essenziale di chiarire il pensiero, come avviene nel modo migliore scrivendo» (104). Le grandi esplorazioni che Fosco Maraini ha compiuto sono state, oltre che fisiche, linguistiche: «questo libro [Il gioco dell’universo] in fondo si sarebbe anche potuto chiamare Terre rare» (p. 145).
il giorno in cui passò una processione vicino al cantiere – il giorno in cui si vide una pagoda in una pozzanghera – il giorno in cui il riflesso del giardino si confuse con quello del drago – il giorno in cui lei voleva eternare la scena – il giorno della pagoda sgretolata – il giorno del rullino che tornò su se stesso – il giorno che incontrammo la scimmia curiosa (p. 78)
«Un classificatore nato, il mio dolcissimo padre» (p. 69), che si muove in queste terre sconosciute e preziose con gli occhi bene aperti e l’instancabile volontà di trascrivere ogni movimento della vista e del ragionamento, come se avere tutto per iscritto fosse il primo ineludibile passo per arrivare a racchiudere ogni singola cosa in un sistema comprensibile e spiegabile. E Cose accadute è proprio un settore dei suoi quaderni che (r)accoglie innumerevoli cose e tracce di cose viste o sentite e subito fermate nella parola, come rapide pennellate o istantanee fotografiche, anche se non sfugge a Dacia la sapienza e coscienza letteraria del padre che si rivela nella rielaborazione di queste impressioni, specialmente nelle poesie assonanzate. Poesie, appunti, ricordi, riflessioni, ritratti, ragionamenti: come naturalista Fosco Maraini, ma soprattutto come essere vivente, rivendica sempre «l’orgoglio di essere presente. Di non dimenticare. Il testimone non è anche un poco creatore di quello che vede e analizza?» (p. 88).
1937: 8 luglio. Mattino sereno: molte foto. Per male al piede vo sul mulo. Indescrivibile bellezza di mondo: ghiacci e deserto, vento e sole. Carovane. Governatore di Phari. Fermata per asp. Letto presto. 9 luglio. Piede meglio. Cammino. Si fa un piccolo passo sopra Dochen. Resto solo. Erbe e foto. Ghiacciai estesissimi. Nubi perfette. Sole sole sole. Alla una trovo Tucci. Si mangia. Poi lunga valle fra i due laghi. Verde di campi. Sviluppo foto bellissime. Scritto a Top. (pp. 14-15)
Nonostante questa natura da viaggiatore ed esploratore instancabile, Fosco è sempre stato legato all’idea di “casa”, tant’è che la sua autobiografia cammuffata da romanzo si intitola Case, amori, universi e in uno dei taccuini da cui nasce Il gioco compare l’Elenco delle 33 case, che Dacia ripercorre punto per punto e commenta, con una punta di divertimento quando nota che tra le case (più o meno di fortuna, più o meno stabili) compare anche la nave che li riportò in Italia dopo otto anni trascorsi in Giappone.
Al Giappone è dedicata la parte centrale del Gioco dell’universo: dalle amanti nipponiche ai due anni trascorsi nel campo di concentramento di Nagoya (Fosco e Topazia si rifiutarono di appoggiare la Repubblica di Salò), dalle riflessioni sulla spiritualità a quelle sulla lingua, Fosco sottolinea più volte la propria volontà di lasciarsi affascinare da quel Paese nuovo e antichissimo, ma mai al punto di scadere nell’esotismo. Ciò è possibile proprio grazie al suo spirito scientifico: Fosco, infatti, arriva in Giappone per la prima volta nel ’38 grazie a una borsa internazionale per studiare gli Ainu. Presso di loro, nell’isola di Hokkaido, si trasferisce e vive per qualche tempo, compiendo ricerche sulla cultura e la religione e raccogliendo un’importante (per quantità e cura) testimonianza fotografica, che a distanza di anni si è concretizzata in una mostra che lo scorso anno è stata allestita per festeggiare il centenario dalla sua nascita. Rimasto in territorio nipponico fino al 1946, tornatoci all’inizio degli anni Cinquanta, ritornatoci tra gli anni Sessanta e il ’72, quando rientrò a Firenze per occupare la cattedra di lingua e letteratura giapponese, forse Fosco trovava, nella cultura nipponica, un perfetto dialogatore, più che un oggetto di studi: una cultura in cui rintracciava la propria spinta alla precisione e al cosmo, inteso nella doppia accezione di ordine e di universo, ma anche lo stesso gusto per il gioco dei sensi e le schegge di bellezza così rapide e profonde da non poter essere catturate che attraverso la poesia, come per l’haiku, o con la pennellata del sumi-e.
L’esplorazione che è messa in atto nel Gioco è anche quella che Dacia ha compiuto nei confronti di Fosco, un ripercorrere le tracce fisiche, linguistiche e affettive che suo padre ha disseminato negli anni e negli angoli del mondo, fino al ritrovarsi negli ultimi capitoli affaticata dal gran camminare, dolorante al ginocchio, somatizzazione del lutto: la chiusura del libro e il saluto ultimo, immaginario, a chi quelle parole le aveva pronunciate per primo. «Mentre annodavo questi lacci di pensieri e citazioni, invenzioni linguistiche e riflessioni, mio padre è morto. […] Dopo qualche mese ho cominciato ad avere male a un ginocchio. Mia sorella Toni dice che così il mio corpo esprime il lutto per la morte di mio padre. […] Mi addolorava piegarmi sulle sue parole scritte, riscritte, sulle sue citazioni, sui suoi eterni cataloghi. […] Mi sono incaponita a finire il lavoro, e forse è stata una violenza che ho fatto a me stessa. […] La memoria, costretta a lavorare contro voglia, era diventata una arnia vuota, piena di lacrime non piante, che quindi premono contro il petto ben armato di una lavoratrice imperterrita, che crede nella disciplina e negli impegni presi» (pp. 187-190) e che ha perciò continuato questo scambio silenzioso di parole, questo viaggio tra la calligrafia e l’evocazione; perché, come le aveva detto Fosco, la scrittura di Dacia «tende all’immaginario».
Dacia e Fosco Maraini, Il gioco dell’universo. Dialoghi immaginari tra un padre e una figlia, Mondadori, Milano 2007