Il Museo dell’Innocenza di Orhan Pamuk alla Somerset House, Londra

Museums are places where time is transformed into space.
Orhan Pamuk

Se inizio con una nota personale va bene, in fondo l’opera di Pamuk è esattamente questo che cerca di fare. Ho da poco lasciato la città dove ho vissuto per cinque anni e mezzo e, in particolare, ho dovuto svuotare quella che è stata la mia stanza per due anni. Non proprio volontariamente sono così incappata anche nella ricostruzione archeologica di alcuni amori − qualcuno nemmeno mai detto per bene. Ho accumulato sciocchezze, per la maggior parte, magari neppure cose che mi son state donate direttamente, ma che ho sottratto io pian piano mettendole in tasca, in borsa, nel libro che stavo leggendo in quel momento e che col tempo ho sparso nei cassetti o conservato con cura in buste rettangolari bianche, di quelle da lettere. Uno spartito, qualche sottobicchiere, biglietti aerei, portachiavi, un pacchetto di sigarette (vuoto), la bustina di un infuso (vuota), perfino una pagina di appunti (di una materia che non capisco). Son quasi sicura, in questi anni, di non averli mai riguardati. Mi accontentavo di sapere che li stavo salvando dall’essere persi. Tenevo al sicuro delle cose che erano successe − e le prove che fossero successe davvero*. Il Museo dell’Innocenza è esattamente questo.

Un romanzo con questo titolo è stato pubblicato nel 2008; il progetto di Orhan Pamuk, però, inizia oltre dieci anni prima: la collezione di oggetti di famiglia e di altri trovati nei mercatini solleticava l’idea di una storia che li potesse ospitare, e allo stesso tempo, scrivendone le varie parti, Pamuk cominciava a ponderare l’idea di un museo che potesse esporre proprio quegli oggetti. Quello che è in questi giorni esposto a Londra alla Somerset House, infatti, non è altro che una piccola parte di ciò che è davvero diventato The Museum of Innocence: nel 2012,  Pamuk lo ha aperto al pubblico dopo aver comprato a Istanbul la casa che, nel romanzo, è esattamente quella dove il protagonista alleste un museo − che è il Museo del titolo − perché tutti gli oggetti che hanno accompagnato la sua relazione possano trovare una collocazione e continuare a raccontare e testimoniare il suo amore.
A Londra è possibile vedere tredici delle 83 vetrine originali assieme alle copie degli appunti manoscritti. Nell’ultima stanza, Orhan Pamuk (solo in formato video, purtroppo) ripercorre la realizzazione di un progetto che ha voluto restituire l’importanza dell’esibizione e dell’attestazione fisica della dimensione virtuale della letteratura,  dato che «sono stati gli oggetti a fare il romanzo».

Pamuk has created a work concerning romantic love worthy to stand in the company of Lolita, Madame Bovary and Anna Karenina.
Financial Times

Avvicinarsi a una vetrina è come aprire un cassetto: oggetti apparentemente casuali e soprattutto già usati affollano lo spazio o sono disposti in primo piano in fila ordinata. Non ci sono affatto estranei dato che li usiamo spesso ogni giorno, sono oggettini (perché in genere hanno piccole o piccolissime dimensioni) così quotidiani che sfiorano l’anonimo; tuttavia, guardando bene, cominciamo a percepire un principio estetico, anche se forse è solo quello della giustapposizione (ma se vi piacciono i ready−made quanto piacciono a me sapete di cosa si sta parlando). A tenere assieme ogni cosa, c’è stato il tocco di una donna: quella che stiamo visitando è la collezione compulsiva degli oggetti appartenuti, toccati, dimenticati dalla persona che si ama.
La storia, ambientata tra il 1974 e l’84, è quella di Kemal Bey, figlio di una delle più ricche famiglie di Istanbul, e del suo amore per Füsun, che invece ha modeste origini e lavora in un piccolo negozio. Lei, oltre a essere bellissima, è anche sua cugina alla lontana, nonché la donna che gli spezzerà il cuore. Per continuare a mantenerlo in vita, «Kemal raccoglie e conserva qualsiasi cosa Fusun abbia toccato»: così Pamuk spiega la nascita del museo.

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Appena si entra nel Museum, un piccolo quadrato accoglie il video di una mano femminile che regge una sigaretta, ne scrolla la cenere, ne accende un’altra. Accanto, una targhetta ci informa che è stata un’idea di Kemal quella di mostrare le 4’213 sigarette che Fusun ha fumato. Si gira l’angolo e si vedono scarpe, grappoli d’uva, orologi, persino una bicicletta pendere dal soffitto. E subito dopo bottiglie di colonia, fermacapelli, portapillole, ma anche fotografie, tante, tantissime fotografie, e ritagli di giornali, biglietti, ritratti di star e di calciatori turchi, testimonianze di Istanbul − il soggetto preferito di Pamuk. Un’enorme raccolta di quello che lasciamo di noi in ciò che lasciamo.

Kemal comincia ad accumulare gli oggetti che lo legano ancora Füsun (ancora è la parola chiave) dopo che la loro storia sembra essersi definitivamente conclusa. Lui, infatti, è incastrato in un fidanzamento eterno con Sibel, che non riesce a rompere nonostante l’infatuazione per Füsun, e, alla festa che lo celebra ufficialmente, i due amanti si dicono addio.

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Kemal decide di preservare questi oggetti raccogliendoli nell’appartamento dove per mesi si erano incontrati. Menu di ristoranti, pennelli da barba, cucchiaini. Tutto è importante. Tutto è stato toccato da Füsun, tutto ha contribuito ai piccoli momenti di cui è stato composto il loro amore clandestino. Tutto potrà servire per non dimenticarlo.

Years later, as I struggled to understand why she was so dear to me, I would try to evoke not just our lovemaking but the room in which we made love, and our surroundings, and ordinary objects.
Orhan Pamuk, The Museum of Innocence (2008)

Dopo meno di un anno dal loro incontro alla festa di fidanzamento, i due amanti si rivedono. Füsun ha nel frattempo sposato un giovane regista, la cui carriera Kemal finanzia e sostiene in modo da avere una scusa per continuare a frequentare la casa della cugina. L’amore non è affatto diminuito col tempo: Kemal tiene il contro delle zuppe che mangiano assieme per otto anni (millecinquecentonovantatre), sottrae dalla tavola poco per volta persino i noccioli di oliva che lei lascia nel piatto. Il numero esagerato ma preciso, proprio come quello delle sigarette, rivela il rituale tanto paziente quanto ormai ossessivo di catalogare non più solo gli oggetti, ma anche i momenti: qualsiasi cosa ormai trova il modo di perpetuare la relazione con Füsun che Kemal sente di avere ancora.

Ogni vetrina ha un piccolo cartiglio con il proprio “titolo”, prima in turco e poi in inglese, che consente l’interpretazione di quanto è mostrato, esattamente come se si trattasse di un quadro e noi fossimo in una galleria d’arte o in un museo di storia (ma in fondo lo siamo, no?). Quella qui sotto, per esempio, è Bekleme Acisi, The Agony of Waiting:

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Fino al 3 aprile The Museum of Innocence sarà visitabile presso le Courtyard Rooms della Somerset House. Non importa se non avete mai letto questo libro. Non importa se non avete mai letto Pamuk o nemmeno lo avete mai sentito nominare. Avete certamente amato qualcuno. Questo basta.

sito ufficiale: Masumiyet Müzesi − The Museum of Innocence
comunicato stampa della Somerset House − da cui è tratta l’immagine di copertina

* Ho buttato tutto, alla fine. Si viaggia meglio leggeri. Anche perché ho cominciato un’altra collezione.

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