Il nostro modesto, umile, insignificante… oh, Grand Budapest Hotel!

Quando lo schermo si accende e lo spettatore viene catturato dai – spesso interminabili – titoli di testa, le aspettative che si nutrono rispetto al film prescelto possono iniziare a vacillare. Un bel film potrebbe essere quello che, nonostante la poca fiducia che ispira, finisce per rimanerti impresso o sconvolgere anche solo di poco la tua giornata altrimenti monotona, oppure quello che non delude affatto, anzi entusiasma oltre ogni previsione.

E poi ci sono i film di registi e sceneggiatori come Wes Anderson, pellicole da cui non ci si attende grandiosità e che, dunque, non deludono mai, o mai terribilmente. Con ciò non voglio dire che i suoi film non siano grandiosi, ma che non esiste mai da parte di quest’ultimi una pretesa di grandiosità. Il suo istrionismo pacato, i personaggi sopra le righe ma al contempo quasi sempre statici nei toni e nelle movenze, come delle statue di cera a cui è stata data la vita, potrebbe lasciare indifferenti o persino annoiare lo spettatore, è comprensibile, ma non condivisibile da parte di chi scrive. Ai miei occhi il riuscire a fare tanto, tantissimo, con poco o niente è sempre apparso affascinante.

grand budapest hotel

Esteticamente, sin da quando una decina di ani fa Anderson ha cominciato ad ottenere la fiducia dei produttori cinematografici (e pertanto un’invidiabilissima libertà artistica nella messa in scena dei suoi film) abbiamo assistito ad una discesa sempre più ripida nei meandri della sua mente: la telecamera si fissa in un punto preciso, la scena che abbiamo davanti è come un palcoscenico in cui ogni oggetto, sfumatura nella luce e movimento degli attori è studiato, sempre preciso, eppure mai pedante. Il montaggio è la sola fonte dinamica. E allora dove sta l’istrionismo e quell’essere tipicamente sopra le righe sopracitato? Dove si nasconde la grandezza dei suoi film? Bisogna cercarla nel mix di questi due fattori, lasciandosi travolgere da una marea di sfumature, ammiccamenti e dettagli dei personaggi e degli scenari che vengono svelati poco a poco e che a volte sfociano persino in sfuriate rabbiose, inseguimenti, pianti e sparatorie, allontanandosi da questo registro di pacatezza, senza mai abbandonarlo completamente; la trama è così ricca di dettagli che ricordarseli tutti all’uscita dalla sala è veramente difficile. Ed alla fine ci svegliamo come da un sogno, camminiamo tornando a casa pensando a quanto sarebbe strano e bello se ciò che ci circonda si trasformasse nell’universo che abbiamo osservato in questo film: uno scenario vicino e lontano, come una città dentro una palla di vetro con la neve.

Sin dai primissimi minuti appare palese quanto Anderson tenga a fare capire l’importanza delle storie, ci pervade con questa quasi maniacale idea dell’importanza che assume l’atto di “raccontare”: una giovane boy scout legge un libro in un parco, lo scrittore stesso racconta la storia rivolgendosi allo spettatore, ricordando l’incontro avvenuto con Zero Mustafa, proprietario, ex lobby boy, del Grand Budapest Hotel.

“Vedete, ci sono ancora deboli barlumi di civiltà lasciati in questo mattatoio barbaro che una volta era conosciuto come umanità. Infatti è quello che abbiamo a disposizione nel nostro modesto, umile, insignificante … oh, fanculo!”

(M. Gustave)

Uno dei compiti dell’artista potrebbe essere quello di riuscire a preservare nella sua opera un’emozione, mettendola così a disposizione di colui che legge, ascolta o guarda. Anderson riesce a toccarci emotivamente anche in questo film, ed il fatto che ci riesca ancora una volta con una storia che parla (anche) di padri e figli e di un amore difficile sarà un manna dal cielo per chi si lamenta del fatto che tutti i suoi film appaiano uguali, senza capire che il riconoscere immediatamente un artista dal suo tocco tipico non è dovuta ad una monotonia estetica, ma ad una sua precisa metodica artistica che lo caratterizza. Come criticare Van Gogh per usare sempre la stessa consistenza nelle pennellate dei suoi quadri.

Per la prima volta, inoltre, Anderson arricchisce la sua storia con tantissimi generi: commedia, spionaggio, dramma romantico e persino thriller in alcune scene, riescono a trasportarci nell’atmosfera di una imprecisata località europea dei primi del ‘900, seguendo le disavventure di Zero Mustafa e Monsieur Gustave, suo mentore e storico concièrge dell’hotel, situazione che spesso sono rese ancora più difficoltose dalla loro natura di immigrato e di inguaribile romantico; se esiste infatti un personaggio tipicamente “andersoniano” in questo film non può che essere lui, Gustave: tutt’altro che eroe, ma anzi uomo edonista, pignolo e saccente, in cui però l’amore per il suo lavoro (con ciò che esso rappresenta) e per il giovane Zero lo spingono ad agire facendogli assumere le veci di protagonista; che sia nel giusto o nell’errore, che rimproveri l’assistente per non avergli portato il suo profumo preferito in seguito ad una difficile evasione dalla prigione, o che si interponga tra lui e delle guardie armate per puro istinto di difesa paterno, di certo per il moralismo banale e scontato in questo film non c’è posto.

Ci rimangono solo sprazzi delle vite dei personaggi, sicuramente imperfetti. Alcuni saranno vissuti felicemente, seppur per breve tempo, altri ancora con le loro vite perse nell’oblio della memoria, come l’anziano Zero Mustafa prima che uno scrittore si sedesse per ascoltare la sua storia. Ma esiste anche un’alta storia, forse quella a cui viene dato meno spazio nel film, ed è quella la cui fine viene lasciata intendere allo spettatore: cosa sarà accaduto a quella ragazzina vestita da boy scout che leggeva in un parco innevato il suo libro (nonché questa storia, questo film)?

Questo finale sta solo a noi deciderlo, una volta che avremo deciso di alzarci ed andare via da quel parco portando con noi quel libro, e questo film. Anche se è stata solo una storia e niente più.

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