Il Nuovo Realismo di Maurizio Ferraris

Fine del postmoderno?  L’11 settembre. Questo è il terribile spartiacque che divide due opposte concezioni di vedere il mondo. È da qui, da questa presa d’atto, che Maurizio Ferraris comincia il suo Manifesto del nuovo realismo. Da una parte il postmoderno, basato su una realtà costruita e manipolabile e sulla verità come nozione inutile, secondaria. Due dogmi, questi, distrutti dai populismi e dalle crisi economiche, che vedono l’attentato alle Torri Gemelli come la più estrema delle smentite. Dall’altra il nuovo realismo, un approccio filosofico e culturale con connotazioni non solo conoscitive ma anche etiche e persino politiche.

Se il postmoderno diventa reality. La politica, sicuramente, è la grande vittima del postmoderno. Sono morti i cosiddetti grandi racconti, come il marxismo o l’illuminismo. Muore anche l’idea di progresso, distrutta da Nietzsche, secondo cui la verità può essere un male e l’illusione un bene, e che questo sarà il destino del mondo moderno. Profetico, paventa per primo un mondo dove non ci sono fatti, ma solo interpretazioni.
E questo mondo falsamente utopico, dice Ferraris, ha trovato nel postmoderno la sua realizzazione politica: con la fine del mito dell’oggettività, il mondo è diventato reality. Si può credere in qualsiasi cosa.
Se il postmoderno era istanza di emancipazione, animato quindi da buoni propositi, le masse, che di certi argomenti non hanno mai sentito parlare, ne hanno colto i frutti avvelenati.
Questi frutti possono essere sintetizzati in ironizzazione, desublimazione e deoggettivazione.

Ferraris_copertinaridottaL’ironizzazione si basa su un certo distacco ironico, sulla convinzione che prendere sul serio le teorie equivale ed essere vittime di dogmatismo. Come altro spiegare, altrimenti, l’abuso di virgolette degli ultimi anni? Chi toglie le virgolette è un violento o un ingenuo, perché pretende di trattare come reale ciò che è “reale”. Chi possiede la verità è un fanatico. Per questo, la facezia e la farsa sono così vitali nei populismi di oggi. La filosofia stessa diventa caricatura, delegando le sue naturali funzioni alla scienza.
Non che la scienza se la passi troppo bene. Il postmoderno riprende un certo scetticismo verso le discipline scientifiche, di matrice antichissima. Questo porta a sospettare del realismo, trattato alla stregua di inciampo paralizzante. Guai a ragionare con la propria testa, allora.

La testa, appunto, è il contraltare negativo delle istanze postmoderne di desublimazione. Il desiderio, in quanto tale, è una forma di emancipazione. Ma emancipazione da cosa? Dalla ragione e l’intelletto, ovvio, considerate alla stregua di forme di dominio. La liberazione va seguita sui sentimenti e sul corpo. Il cosiddetto ragionare di pancia. E in questo momento storico, alla luce del ruolo politico che ha assunto il corpo, non è un caso che il corpo del capo, di chi comanda, diventi eminentemente politico. La personalizzazione del potere fa sì che tutto si riconduca alla sfera del leader e diventi pettegolezzo. Il popolo si rispecchia nel sovrano, nel suo corpo, e l’intreccio tra corpo e desiderio si innesta nel populismo e nell’anti-intellettualismo, con gli esiti nefasti che possiamo vedere.

L’ultimo frutto, la deoggettivazione, definisce la verità come un male. In questa concezione confluiscono Nietzsche, che definisce la verità è solo un’antica metafora o manifestazione della volontà di potere, il ricorso al mito e la radicalizzazione di Kant, secondo cui l’unico accesso al mondo è tramite schemi concettuali.
Non esiste più la Verità assoluta, quindi, ma solo delle visioni del mondo, delle verità con la v minuscola, delle coppie di antinomie che possono essere altrettanto vere. Galileo, quindi, ha ragione quanto Bellarmino. La conseguenza di questo, denuncia Ferraris, è che la ragione viene accaparrata dal più forte, dalla sua autorità.

Realitysmo e quasi realtà. Un’autorità che non appartiene più al reale. Al suo posto c’è il realitysmo, una quasi realtà che si basa su tre meccanismi. Innanzitutto la giustapposizione e la drammatizzazione, in cui fatti reali diversissimi vengono giustapposti e drammatizzati da attori. Già Tucidide faceva pronunciare ai personaggi storici dei discorsi inventati di sana pianta. Ma adesso, con l’aumento di materiali in rete, si sta perdendo il confine tra realtà e finzione e tra scienza, realtà e superstizione.
Questo porta al terzo meccanismo, l’onirizzazione, che ci fa chiedere se la vita è sogno o realtà. L’implicita conseguenza è distopia pura: è inutile sognare un nuovo mondo perché già la realtà è un sogno ed è l’unica liberazione possibile. Un incubo, più che altro.

Da Cartesio a Kant: la sfiducia nell’esperienza.  “È regola di prudenza non dare mai interamente fiducia a coloro che ci hanno ingannato anche una sola volta”. Cartesio, in questo famoso passo delle sue Meditazioni metafisiche, ci intima di sospettare dei sensi, servitori inaffidabili e occasionalmente mentitori. La certezza, secondo Cartesio, non va cercata fuori in quella selva di inganni sensibili che è il nostro mondo. La certezza va cercata nel cogito, nella sede di idee chiare e distinte che risiede dentro di noi.
Un atteggiamento sicuramente artificioso, non naturale. Ogni uomo utilizza i sensi come prima forma di apprendimento, di percezione. Al limite, quando serve, facciamo esperimenti per avere certezze ancora più nette, poiché secondo Cartesio dobbiamo occuparci solo di ciò di cui siamo assolutamente certi.
Questa ricerca iperbolica di sapere, come la definisce De Ferraris, ci porta al suo contrario: se non esiste più una certezza naturale, la certezza scientifica non può affatto sostituirla, poiché la scienza è progressiva e dunque mai definitiva. Insomma: non possiamo più essere sicuri di niente.
Da questo stallo prende le mosse Kant influenzando tutta la filosofia successiva: se ogni conoscenza comincia con una qualche esperienza, e l’esperienza è incerta, sarà necessario fondare l’esperienza attraverso la scienza, trovando delle strutture a priori che ne stabilizzino il suo carattere aleatorio.
Ecco quindi il rovesciamento di Kant: non si parte più dagli oggetti ma dai soggetti, non ci si chiede più cosa sono le cose in se stesse ma come fare per poterle conoscere.
Partendo dal presupposto che le “intuizioni senza concetti sono cieche”, Kant postula come necessari degli schemi concettuali per poter avere una qualsiasi esperienza.
Ma questi schemi, su cui modelliamo la nostra conoscenza, finiscono per modellare anche la realtà, che per Kant è inconoscibile senza i concetti, è “cieca”.
Radicalizzando Kant, molti hanno quindi confuso l’ontologia con l’epistemologia, quello che c’è con quello che sappiamo. E da qui il postmoderno e il discredito sul sapere, considerato una mera costruzione dell’uomo. Il fine di questo atteggiamento costruzionistico è la meraviglia, lo scarto dell’ovvio, la costruzione di nonsense che indichino il peso del sapere nella costruzione dell’esperienza: se una cosa non si conosce non esiste.
Controffensiva realista: inemendabilità.  Sarebbe oltremodo banale e riduttivo pensare che il realista si limiti a dire che la realtà esiste. I realLa realtà non ti mollaisti, specialmente contemporaneo, insistono molto nello specificare che sapere ed essere non coincidono. In proposito Ferraris propone il concetto di Inemendabilità, che caratterizza la sua visione di reale. Dire che il reale è inemendabile equivale a sostenere che ciò che ci sta di fronte non è né manipolabile né tantomeno correggibile da alcuno schema concettuale. Questo è il carattere persistente della realtà.
Ferraris, ovviamente, non dimentica l’esistenza di concetti eminentemente umani, che possono andare dalla legge all’ultima manovra economica o all’istituzione del matrimonio. Per questo, compito della filosofia sarà distinguere ciò che è socialmente costruito, i cosiddetti oggetti sociali, da ciò che non lo è, ovverosia gli oggetti naturali.
Questa distinzione è importante per sottolineare l’approccio antipositivistico di questo tipo di realismo: Ferraris non crede che tutte le verità siano in mano alla scienza, ma rilancia il valore del senso comune, dei valori morali e delle opinioni.

Una funzione etica. Ferraris rigetta, come detto, l’affermazione secondo cui il realismo si limiterebbe ad accettare la realtà così com’è. Tale visione delle cose avrebbe, come corollario etico-politico, l’accettazione della realtà così com’è. Il realismo che propone Ferraris, invece, è concepito come una dottrina innanzitutto critica in due sensi: quello kantiano, ossia nel giudicare cos’è  reale e cosa non lo è, e in senso marxista, nel senso di trasformare ciò che non è giusto. Riassumendo, non si tratta di accettare ma di accertare la realtà, cambiandola in meglio.
Il realismo si delinea, nella dottrina di Ferraris, come primo passo per il cambiamento e l’emancipazione. Possiede quindi un fine morale, perché solo presupponendo un’esistenza fatta di cose ed eventi reali possiamo considerare credibile l’esistenza di una giustizia.
Ma quali condizioni impone questo realismo alla realtà così delineata? Essenzialmente, l’unico ma fortissimo vincolo di opporsi alle falsificazioni. La natura, infatti, non detta alcun dovere ma dà dei vincoli a cui noi uomini dobbiamo appigliarci: banalmente, se ci buttiamo dall’aereo senza paracadute precipitiamo, alla faccia di qualsiasi costruzione mentale.

Il potere e la verità. 

Un lupo vide un agnello presso un torrente che beveva e gli venne voglia di mangiarselo con qualche bel pretesto. Standosene là a monte, cominciò quindi ad accusarlo di insudiciargli l’acqua, così che egli non poteva bere. L’agnello gli fece notare che, per bere, esso sfiorava appena l’acqua col muso e che, d’altra parte, stando a valle, non gli era possibile intorbidare l’acqua a monte. Venutogli meno quel pretesto , il lupo allora gli disse: “Ma se tu sei quello che l’anno scorso ha insultato mio padre”. E l’agnello gli spiegò che in quella data non era ancora nato. “Bene”, concluse il lupo, “se tu sei così bravo a trovare delle scuse, io non posso mica rinunciare a mangiarti”. La favola dimostra che contro chi ha deciso di fare un torto non c’è giusta difesa che valga.

Per concludere, Ferraris riprende la celeberrima favola di Fedro sul lupo e l’agnello. La morale è famosa quanto spietata: in un mondo di tante “verità”, a vincere è sempre quella del più forte.

Ma la verità vera, quella senza virgolette, non è affatto questione di potere. È la realtà a stabilire che non può essere l’agnello ad intorbidare l’acqua, che è assolutamente impossibile, e quindi ristabilire la giustizia. La realtà e la verità sono l’unica tutela dei più deboli.

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