Il sonno della ragione: la Napoli di Ortese

La Napoli che conosciamo, di allegria e sentimento, viene del tutto capovolta e trasfigurata ne Il mare non bagna Napoli, che destò scandalo alla pubblicazione, perché nulla si salva di un luogo e una cultura completamente avversi alla scrittrice. Nonostante l’atto di distacco che si compie nella prefazione, scritta a quarantun’anni di distanza dall’uscita del libro (1953), i sei racconti mantengono una identità non solo polemica ma di disprezzo e rancore nei confronti di Napoli e della napoletanità. Quando si descrive il sordido della città vengono in mente certi luoghi dell’Inferno di Dante o certe descrizioni della povertà nei Promessi Sposi, però qui non si trova la stessa pietà: «Una miseria senza più forma, silenziosa come un ragno, disfaceva e rinnovava a modo suo quei miseri tessuti, invischiando sempre più gli strati minimi della plebe, che qui è regina». Poco dopo: «Straordinario era pensare come, in luogo di diminuire o arrestarsi, la popolazione cresceva, ed estendendosi, sempre più esangue, confondeva terribilmente le idee all’Amministrazione pubblica, mentre gonfiava di strano orgoglio e di più strane speranze il cuore degli ecclesiastici» (Manzoni per descrivere le erbacce nella vigna di Renzo usa le parole «marmaglia» e «guazzabuglio», che danno il senso di un’inarrestabile forza cieca e illogica). Alla fine di questa descrizione, nel racconto Oro a forcella, troviamo il lapidario concetto che la scrittrice ha deciso di usare come titolo: «Qui, il mare non bagnava Napoli. Ero sicura che nessuno lo avesse visto, e lo ricordava. In questa fossa oscurissima, non brillava che il fuoco del sesso, sotto il cielo nero del sovrannaturale».maria ortese

Un altro scrittore napoletano, che ha ragionato intorno al rapporto natura-uomo, è Raffaele La Capria. Nel secondo capitolo di Ferito a morte si descrive il Palazzo Medina in questi termini: «Sotto l’occhio ironico del sole, spregiatore di ogni umano pensiero, la qui dolcissima ma non per questo meno feroce Natura, nemica della Storia, inizia la sua opera paziente utilizzando per l’occasione una tecnica indicata appunto col nome di bradisismo e facente parte di quel piano, a lunghissima scadenza, che prevede l’annullamento totale di uomini e cose, e di tutto quello che la ragione umana ha costruito, cioè la Storia. E, nel caso particolare, di questo palazzo».

Anna Maria Ortese però supera La Capria e se la prende con la napoletanità. Il racconto Il silenzio della ragione (il più lungo dei sei) è un attacco agli intellettuali che gravitavano attorno alla rivista «Sud», attiva a Napoli tra il 1945 e il 1947. Costoro avrebbero dovuto elevarsi sopra l’arretratezza e le meschinità di cui erano colpevoli i napoletani, ma in definitiva ne facevano parte: «si cominciò a dire del ragazzo (Prunas), nel caso migliore, ch’egli era un’altra vittima della irresponsabilità e leggerezza di ieri, e che rivelava […] la cattiva educazione ricevuta». L’autrice rifiuta la possibilità di farne un racconto a chiave, esibendo i nomi dei bersagli intellettuali: Luigi Compagnone, Pasquale Prunas, Ermanno Rea e, tra gli altri, lo stesso La Capria. Quest’ultimo, in Napolitan Graffiti, le rimprovera questo: «non può uno scrittore appropriarsi della «intimità» di una persona e trattarla come un «insetto». Il libro della scrittrice è sfrontato e alcune descrizioni sono senza contegno. Una in particolare, dove si dice che la seconda guerra mondiale sarebbe stato l’unico evento in grado di smuovere il torpore di una città immobile: «Quel qualcosa di nero e colorato, quell’interminabile nastro di plebe che si agitava perennemente alla radice delle case, aveva emesso, per la prima volta, in quegli anni successivi alla tempesta, un rumore nuovo, imprevedibile, incantato, pari al fruscio della risacca sulla rena, dopo l’uragano». Tutto questo a patto di forzare un po’ il testo, perché per quanto chiari siano i riferimenti, la lingua è immaginifica e sposta la realtà su un piano fantasmagorico; ciò di cui si parla vive più a suo agio nella immaginazione della scrittrice e, cosa ancor più importante, nelle pieghe del testo (Gianni Celati lo diceva a proposito di Céline: è un «equivoco […] considerare la scrittura come mero indizio di una realtà concreta, invece che come segno di una azione conclusa in sé»). In questa chiave il libro acquista una grandiosa carica inventiva. Tutto ciò che si racconta è allo stesso tempo ben definito e trasfigurato, esistente e immaginario, chiaro e sfuggente.

Pensando al titolo di questo racconto viene in mente un’acquaforte di Goya, Il sonno della ragione genera mostri. Ebbene, questa «nevrosi metafisica» di cui ci parla la scrittrice nella prefazione ha generato mostri bellissimi e affascinanti; le sue ossessioni private – e cosa importa se mentono, come La Capria, citando Prévert, mette a esergo di Un giorno di impazienza: «Quand on le laisse seul / Le monde / Mental / Ment / Monumentalment» – tramite questa scrittura hanno raggiunto un livello universale.

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